sabato 30 gennaio 2010

"Così i servizi stranieri hanno reclutato Patrizia"

 Nessun commento all'intervista di Stefano Zurlo. 
Buona lettura.
L'esperto di 007 Aldo Giannuli: "Da Casoria a Bari un attacco simultaneo ben organizzato. L'operazione non è stata italiana, troppo raffinata. Cercherei negli Usa o dalle parti di un certo Murdoch"

Si parte dai pozzi di petrolio, si arriva a Patrizia D’Addario. Aldo Giannuli segue le curve di un ragionamento sofisticato e suggestivo per arrivare a una conclusione granitica: «L’operazione D’Addario è stata un’operazione di intelligence. E con ogni probabilità la cabina di regia non è a Bari o a Roma, ma all’estero».
Attenzione, Giannuli, storico e saggista, è uno che di 007 se ne intende: è suo un testo molto fortunato, Come funzionano i servizi segreti (Ponte alle grazie), che viviseziona il metodo di lavoro delle barbefinte. E l’occhio allenato dello studioso, che fra l’altro ha sempre avuto simpatie per la sinistra radicale, riconosce il complotto dietro lo scandalo delle escort.

Dottor Giannuli, lei aveva già espresso questa convinzione in una precedente intervista al «Giornale». Come fa ad essere così sicuro?
«Sono troppi gli elementi che non tornano».

Troppi?
«Nel giro di poche settimane, con una simultaneità impressionante, parte una campagna che definirei multipla per azzoppare il Cavaliere. I giornali francesi pubblicano vignette pesantissime, che ridicolizzano il nostro presidente del Consiglio».

Diritto di satira.
«Ma no, siamo ben oltre. A distanza di pochi giorni parte il Noemigate, con la storia della ragazza di Casoria. Poi, a giugno, per la precisione il 17, ecco l’intervista di Patrizia D’Addario al Corriere della Sera. Troppa roba in troppo poco tempo».

Non potrebbe essere un caso?
«Non siamo ingenui. Mettiamola così, qualcuno ha capito che il nostro premier ha un punto debole: le donne. Per ragioni sue ha deciso di partire all’attacco. E c’è un altro elemento da considerare».

Quale?
«Nello stesso periodo, supercongestionato, salta fuori un fotografo sardo, Antonello Zappadu, che incredibilmente ha scattato immagini al premier per anni senza che nessuno l’abbia mai fermato sulla porta di Villa Certosa. Guarda la combinazione, proprio in quelle settimane calde Zappadu dice di avere cinquemila foto, un archivio sterminato, e le tira fuori. Forse qualcuno ha visto quelle foto, ha fatto delle riflessioni, ha capito che si può partire dalle ragazze, dalle feste, dalle escort per dare un colpo all’immagine del premier».

D’accordo, ma chi?
«Non credo assolutamente ad una regia italiana. L’operazione è troppo raffinata, studiata nei dettagli, mirata».

E allora?
«Io andrei a cercare negli Usa o dalle parti di un certo Rupert Murdoch».

Negli Usa? E perché?
«Perché l’Eni, con la sponda del Cavaliere, sta attuando una politica energetica che gli americani vedono come il fumo negli occhi. L’Eni, che è un colosso mondiale, ha messo le mani sul più importante giacimento iracheno, poi c’è stata la mano tesa a Gheddafi e Chavez, soprattutto l’accordo fra Eni e Gazprom per la realizzazione del gasdotto South Stream che connetterà direttamente Russia ed Unione europea. Chiaro?».

Berlusconi si è messo contro gli Usa?
«C’è chi è finito nella polvere per molto, molto meno. In alternativa c’è il duello con Murdoch, il signore di Sky. Qui il braccio di ferro fra i due magnati della comunicazione si spiega da sé».

Ammettiamo che ci sia un’origine internazionale. Ma poi come si arriva a Tarantini e alla D’Addario?
«Io credo che ci si sia appoggiati a qualche personaggio locale. Io sono di Bari e Bari dispone di ottimi investigatori privati e ottimi penalisti».

Andiamo avanti.
«L’investigatore, o il penalista, ha contattato Tarantini e gli ha chiesto lumi».

La escort più adatta?
«Certo. Così è saltata fuori Patrizia D’Addario».

La escort col registratore.
«Che, certo non dall’investigatore ma da qualcuno molto più in alto, ha avuto precise garanzie».

Quali garanzie?
«Sulla vita, ovviamente. E sul compenso. Ora si parla di ingenti somme depositate dalla signorina nel Qatar. Staremo a vedere gli sviluppi delle indagini. Certo, la D’Addario ha chiuso deliberatamente la sua carriera di escort e non posso pensare che l’abbia fatto a cuor leggero. Andando a sfidare, col suo registratorino, il premier, la security, le forze di polizia. Ma su, c’è un limite a tutto».

Nella sua spy story c’è spazio anche per i servizi segreti?
«Può darsi che qualche 007 corrotto, o qualche talpa interna a Mediaset, abbia agevolato il complotto. Così come è evidente che qualcuno a sinistra ha cercato di speculare su questa storia, senza rendersi conto che una vicenda del genere non indebolisce solo il premier ma l’Italia intera. E lo dico da uomo di sinistra, preoccupato perché talvolta lo stesso Berlusconi sembra affrontare con troppa disinvoltura e senza la necessaria prudenza situazioni difficilissime e assai scivolose».

Siamo all’ultima puntata, o ci saranno altri colpi di scena?
«L’obiettivo resta quello di prima: indebolire il premier, destabilizzare l’Italia. Quindi attrezziamoci: il peggio non è passato».

da il Giornale.it del 30/1/2010

venerdì 29 gennaio 2010

La più esilarante dichiarazione

In questo mese di gennaio 2010 la più esilarante dichiarazione è questa che vi propongo.
L'ha fatta l'ex contadino, ex operaio, ex emigrante, ex poliziotto, ex pubblico ministero, ed ora  parlamentare:  il Signor Di Pietro. L'ha fatta, si presume, guardando allo specchio.


Di Pietro: dall'Udc meretricio

«Noi facciamo opposizione in modo chiaro e determinato. L'Udc fa meretricio, si offre al miglior offerente. C'è una bella differenza». Antonio Di Pietro indica con queste parole, intervistato dal Tg1, il ruolo dell'Idv dopo gli accordi sulle regionali con il Pd. L'Idv non fa accordi con il Pd perchè teme l'isolamento. «Noi non siamo isolati - sottolinea Di Pietro - perché siamo con tutti i cittadini, o almeno con quella gran parte di loro che non vuole più subire questo conflitto d'interessi, questo utilizzo strumentale delle istituzioni per fini propri». “Il Segretario nazionale dell'UDC Lorenzo Cesa e il Presidente del partito Rocco Buttiglione, dopo gli insulti pronunciati dall'onorevole Di Pietro nel corso di un'intervista al Tg1, hanno deciso che la delegazione dell'UDC non sarà presente ai lavori del congresso dell'Italia dei Valori in programma la prossima settimana”.
Lo dichiara una nota del partito di Via Due Macelli.

giovedì 28 gennaio 2010

Patrizia D'Addario era una spia che si prostituiva a comando?

Questa sera il TG 5 ha anticipato la notizia che pubblicherà il settimanale Panorama: La "escort" Patrizia D'Addario sarebbe indagata, insieme a molti altri, dalla Procura di Bari.

Se le motivazioni d'accusa si rivelassero vere, l'unica pena concepibile per i colpeveli sarebbe quella della minima di venti anni - duri e senza sconti - per aver messo alla berlina non tanto Berlusconi, ma il presidente del consilgio del governo.

Ma questo desiderio rimarrà un sogno. Eccovi la notizia:


Panorama rivela: la D'Addario indagata, "ordito un complotto"

L’escort barese Patrizia D’Addario e una dozzina di persone (tra cui magistrati, politici e giornalisti) sarebbe indagate dalla procura della Repubblica di Bari per «avere ordito un complotto contro Berlusconi». Lo scrive il settimanale Panorama nel numero in uscita domani, del quale ha dato un’anticipazione.

Secondo i risultati dell’inchiesta - seguita personalmente dal procuratore, Antonio Laudati, e alla quale sono applicati i pm Giuseppe Dentamaro e Teresa Iodice, scrive il settimanale - la D’Addario "sarebbe stata selezionata e successivamente 'consegnata' a Tarantini. Selezionata affinché portasse a termine la missione di compromettere la reputazione del presidente del consiglio, mettendolo politicamente in difficoltà".

Panorama afferma che "a breve, nei confronti di alcuni giudici che avrebbero partecipato a quello che appare come un vero e proprio complotto ai danni del premier dovrebbe scattare un procedimento parallelo" che sarà affidato alla procura di Lecce. Nella vicenda "un ruolo non secondario lo avrebbero recitato alcuni giornalisti, ai quali sarebbero state passate notizie allo scopo di alimentare il clima a sostegno della tesi di D’Addario. Alcuni articoli sarebbero stati persino utilizzati per indirizzare le indagini". Il settimanale aggiunge che per questo filone "sarebbero già pronte le richieste di misure cautelari per diversi personaggi, compresi alcuni appartenenti alle forze dell’ordine".

Al vaglio dell’inchiesta, infine - sempre secondo quanto scrive Panorama - ci sono anche accertamenti patrimoniali sulla D’Addario ("sarebbe risultata intestataria di numerosi conti correnti, direttamente o attraverso prestanome") e in particolare "alcuni movimenti di denaro di entità rilevante" come un trasferimento in Qatar nel febbraio 2008 di un milione e mezzo di euro fatto 'fisicamente' dalla stessa escort.

La Procura di Bari non ha in corso alcuna indagine sull’esistenza di un complotto per compromettere la reputazione del premier, Silvio Berlusconi, attraverso la escort Patrizia D’Addario. Lo riferiscono all'Ansa fonti giudiziarie baresi, interpellate dopo l’anticipazione diffusa da Panorama. Le stesse fonti fanno quindi sapere che non vi sono, tra gli altri, nè magistrati nè giornalisti che avrebbero preso parte all’ipotetica missione affidata a D’Addario.

La direzione di Panorama, "in relazione a quanto attribuito dall’Ansa a 'fonti giudiziarie baresi' rispetto all’anticipazione del settimanale, conferma integralmente il contenuto dell’articolo in tutte le sue parti". Alla direzione di Panorama, inoltre - si legge in una nota - "non risulta alcuna smentita da parte dell’ufficio della Procura della Repubblica di Bari".

lunedì 25 gennaio 2010

Prodi: un'occasione persa per stare zitto e fare bella figura

Nella intervista che l'ex presidente del consiglio, Romano Prodi, ha rilasciato al quotidiano del suo amico pregiudicato, Carlo De Benedetti, ha dimostarto, seppur non ce ne fosse bisogno, che il silenzio è d'oro.



CRISI: PRODI, ITALIA PIU' GIU' DEGLI ALTRI. DISOCCUPAZIONE MORDERA' ANCORA

Roma, 23 gen - ''La crisi e' grave perche' quando il reddito diminuisce tra il 4 e il 5 per cento siamo in una dimensione ben superiore a quella di altri Paesi, altro che storie''.

Parole di Romano Prodi, intervistato da 'Repubblica' e di reazione all'affermazione di Berlusconi che 'l'Italia va avanti' e che reagisce alla crisi meglio di altri.

Invitato a fare una previsione generale, Prodi ha affermato: Non usciremo dalla crisi con le armi e la guerra come nel '29, fortunatamente non ci sono le condizioni. Ma neanche con scoperte rivoluzionarie che possono cambiare l'intero corso dell'economia. Ce la faremo solo se nuovi popoli arriveranno ad elevati livelli di sviluppo. Quella e' la direzione nella quale l'economia italiana, esportatrice di prodotti di qualita' per definizione, deve andare. Per farlo abbiamo bisogno di un mondo che riprenda e abbiamo ache bisogno di saper correre in tutte le spiagge del pianeta''.

Alla domanda se per l'Italia sara' dunque un nuovo anno in salita, Prodi ha detto che ''purtroppo sappiamo che la ripresa dell'occupazione segue di due o tre trimestri quella dell'economia, perche' le imprese cominciano ad assumere solo quando la capacita' produttiva viene utilizzata appieno. E siccome la ripresa vera ancora non c'e', la disoccupazione continuera' a mordere ancora per parecchio tempo''.

Occorre rimettere mano al nostro sistema di ammortizzatori sociali? ''Fuori di polemica, la crisi -ha risposto Prodi- ha messo in rilievo alcune riforme da fare subito per dare velocita' ed elasticita' al sistema, sia nel campo delle pensioni che in quello degli ammortizzatori sociali. Prima ancora bisogna pero' intervenire nel campo della ricerca, dello sviluppo e dell'innovazione. Noi esportiamo cose raffinate, non c'e' dubbio. Ma guardando alle invenzioni degli ultimi trent'anni, dal fax ai telefonini, beh, l'Italia non ha ideato nulla di quel che ha cambiato i consumi di massa. Dobbiamo rientrare in questo giro, magari in societa' con partner europei''.

Se il Cavaliere vince Fini va

Sapete molto bene che stimo molto Pansa. Ogni suo articolo, da quando non è più a Repubblica, è una goduria indefinibile, oltre che ad una lezione di storia, come i suoi ultimi libri sulla guerra civile in Italia iniziata alla fine della 2a guerra mondiale. Guerra civile tuttora in corso seppur per via giudiziaria.




«Mal comune, mezzo gaudio» giuravano le nostre nonne. Oggi non so dire se il gaudio ci sia, ma di certo fra Silvio Berlusconi e Pier Luigi Bersani un male comune esiste. Grande come il voto regionale. Queste elezioni sono un rischio tanto per il premier che per il leader del Partito democratico. Entrambi hanno un bisogno disperato di vincerle. Bersani per rimanere in sella. E il Cavaliere per non veder implodere il centrodestra, sotto l’urto di un risultato negativo che potrebbe avere conseguenze sull’unità del Pdl.
Sembra fantapolitica, ma non lo è. Pensiamo a Gianfranco Fini. Credete che gli interessi una vittoria di Berlusconi nel voto di fine marzo? Io ritengo di no. L’unico successo che gli preme è quello di Renata Polverini nel Lazio. Quanto al resto, il presidente della Camera guferà contro il suo stesso partito. Per tante ragioni che è impossibile non vedere.
© Roberto Monaldo / LaPresse 24-04-2008 Roma Politica Chiusura Campagna Elettorale Gianni Alemanno Nella foto Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi
La prima è che Fini ritiene il Cavaliere un leader politico bollito e ormai incapace di guidare un governo in difficoltà e un blocco complesso come il centrodestra. Vuole prendere il suo posto.

O nel caso risultasse impossibile, intende levare le tende per dar vita a un proprio partito. In questo secondo caso, Fini ha già tutto quello che serve.

Per cominciare, possiede la materia prima indispensabile: i soldi, tanti milioni di euro e molte proprietà immobiliari. Poi un gruppo parlamentare non gigantesco, ma robusto quanto basta. Un nucleo di dirigenti aggressivi. Un team di intellettuali. Una fondazione molto attiva, “FareFuturo”. Un giornale stampato e uno on line. Il tutto sostenuto da una linea sempre più in contrasto con quella del Cavaliere.

E infine può contare sul sostegno esplicito di aree politiche ed economiche che, in teoria, dovrebbero avere posizioni antagoniste ai post-fascisti. Lo conferma il successo che Fini ha riscosso venerdì a Bologna nel presentare il suo libro in una città rossa e in una libreria delle Coop altrettanto rosse. Dove c’è da sperare che almeno il presidente della Camera non sia stato spiato da qualche occhio nascosto. Come sembra sia successo in più di un supermercato, sempre rosso e in Lombardia. A carico di persone che, essendo semplici dipendenti, rispetto a Fini contano come il due di picche.

Siamo di fronte a un perfetto gruppo anti-partito, come l’avrebbero definito gli antenati delle Coop odierne. Ed è lecito chiedersi perché mai un leader sospettoso e sempre più debole come il Cavaliere continui a tenerselo in casa. Ma la domanda ha una risposta scontata: nell’imminenza di un voto non si caccia nessuno. Anche Berlusconi, dunque, è costretto a non decidere nulla. Pur sapendo che, nel caso di un insuccesso, sarà Fini a tentare di dargli scacco matto.

Nonostante l’ira che gli procura il presidente della Camera, il Cavaliere non si muove perché sa che il partito si regge su un equilibrio sempre più fragile. Non c’è soltanto l’insidia esterna di un alleato esigente come la Lega, in grado di contendergli il primato in una regione decisiva, il Veneto. Esiste anche lo scontro interno fra correnti che stanno alzando la testa con un’energia imprevedibile qualche mese fa.

Lo scontro fra Giulio Tremonti e gli anti-tremontiani è ormai su tutte le gazzette. Venerdì 15 gennaio, in un’intervista a Sandro Iacometti di Libero, Mario Baldassarri, finiano e presidente della commissione Finanze del Senato, è stato brutale: «Se Tremonti non vuole ridurre le tasse e tagliare la spesa pubblica, si pone fuori dal partito».

Più coperti sono i conflitti fra gruppi che, pur interni al Pdl, hanno ben poco da spartire l’uno con l’altro. Mi domando che cosa possa far restare insieme l’area rappresentata da Maurizio Gasparri e da Gaetano Quagliariello e i “Riformatori liberali” di Benedetto Della Vedova. Così come mi chiedo quali siano le intenzioni del gruppo legato a Comunione e liberazione, guidato da due politici combattivi come Roberto Formigoni e Maurizio Lupi.

Tutto ci riconsegna un mistero: la figura di Berlusconi, i suoi propositi, la sua capacità di tener testa alle situazione avverse. Osservato con uno sguardo imparziale, alieno dalle raffigurazione demoniache di chi lo ritiene comunque una sciagura per l’Italia, il premier suscita più di un interrogativo.

È un signore che in settembre compirà settantaquattro anni, un’età molto avanzata rispetto a quelle dei capi di governo europei. Ha attraversato un 2009 tremendo, segnato da vicende personali e giudiziarie che avrebbero schiantato chiunque. E da avversità politiche emerse subito dopo la nascita del Pdl. Rese più pesanti da una serie di eventi tutti negativi, dalla grande crisi economica al terremoto dell’Aquila. Ricevendo come regalo natalizio un attentato che poteva costargli la vita.

Al suo posto, molti leader politici avrebbero gettato la spugna. Ma il Cavaliere tiene duro sul ring. Ha persino ripreso ad avere contatti con la folla, senza badare ai divieti pressanti dei servizi di sicurezza. Mantiene fede a un obbligo doppio. Quello di governare un Paese che per metà lo vorrebbe morto. E di guidare un partito che, a soli dieci mesi dalla nascita, è ben lontano dall’essere un blocco concorde.
Ecco perché parlo di un mistero o di un enigma. Resta da vedere se l’enigma Berlusconi rimarrà tale anche dopo una sconfitta elettorale a fine marzo. Ma sarà una sconfitta o un’altra vittoria? Nel secondo caso, l’unica certezza riguarda proprio il suo avversario numero uno: Fini. Se il Cav. vince, sarà il presidente della Camera ad andarsene dal Pdl. Per fare che cosa? Neppure lui oggi lo sa.
da il Riformista di lunedì, 18 gennaio 2010

Soltanto Silvio capisce di calcio

Dopo aver letto questo articolo mi sono dovuto ricredere, almeno per quanto riguarda la questione sportiva. Chi scrive è Piero Sansonetti, del quale tutto si potrebbe dire tranne che sia un berlusconiano.
Qui, su Wikipedia il suo curriculum.


Può darsi che l’Inter vincerà il derby. E forse anche lo scudetto. Però il campionato 2009-2010 sarà ricordato in Italia come il campionato di Ronaldinho. È lui il calciatore più forte in circolazione. Gioca a livelli “storici”. Con pochi precedenti (a mia memoria), qui da noi: Sivori, Rivera, Maradona, forse Platini.
© Marco Merlini / LaPresse 17-10-2009 Roma Politica Villa Madama, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, incontra il presidente egiziano Hosni Mubarak Nella foto Silvio Berlusconi © Marco Merlini / LaPresse Rome, 10-17-2009 Politic Villa Madama, italian premier, Silvio Berlusconi, meets egyptian president, Hosni Mubarak
La resurrezione di Ronaldinho è la dimostrazione di un paio di teoremi nella cui validità ho sempre creduto. Il primo è che i giornalisti sportivi non capiscono niente di calcio. Niente. E anche i tecnici, quelli che stanno in panchina, capiscono poco. Il secondo è che Silvio Berlusconi è una delle poche persone che invece il calcio lo conosce. E se il Milan in questi vent’anni ha vinto più di qualunque altra squadra al mondo (molto di più) questo non dipende dai soldi di Berlusconi ma dalla sua sapienza calcistica. Del resto Massimo Moratti ha speso nell’ultimo decennio tre o quattro volte più di Berlusconi, ma sul piano internazionale (quello del grande calcio) è rimasto a titoli zero.

La storia dell’ultima campagna acquisti è esemplare. Ci sono le tre grandi (Inter, Juve e Milan) di fronte alla necessità di rinnovarsi. Perché alcuni giocatori vogliono andar via o per esigenze di bilancio. Compiono scelte opposte: Inter e Juve decidono di spendere molto, e comprano molti giocatori forti. Il Milan decide di risparmiare, non compra praticamente nessuno e addirittura vende il suo grande asso Ricardo Kakà, considerato, assieme a Cristiano Ronaldo e a Messi, uno dei tre giocatori più forti del mondo. I giornalisti e i tecnici, interpellati (ma anche senza essere interpellati) sentenziano privi di dubbi: Inter e Juve si giocheranno lo scudetto e la coppa dei campioni, il Milan va verso il declino, evidentemente perché Berlusconi ha deciso di “dismetterlo”.

Tutto sbagliato. L’Inter rimpinza le sue file già ricchissime; la Juve si assicura due delle perle del mercato (i brasiliani Diego e Melo). Il Milan invece punta sui suoi brasiliani, anche se di scarto: Dida, Thiago Silva, Pato e Ronaldinho, tutti esclusi della nazionale. Perché questa scelta? Perché Berlusconi ritiene che Ronaldinho sia il giocatore più forte del mondo, che Pato sia il futuro giocatore più forte del mondo, che Thiago Silva e Dida siano fortissimi. E siccome pensa anche che Pirlo, a centrocampo, non abbia rivali, decide di fidarsi della sua squadra. Vende Kakà perché ha bisogno di fare cassa, ma anche perché lo considera incompatibile con Ronaldinho, e pensa che questi sul piano tecnico sia più forte. Poi il capolavoro: via Ancelotti, stimato in tutto il mondo, dentro Leonardo. Ancelotti è un allenatore “ordinario”, capace di far fare un gioco pulito alla squadra (sempre lo stesso) ma privo di slanci di fantasia. Leonardo non è un allenatore, è solo un uomo che conosce bene il calcio ed è molto intelligente, fantasioso, carismatico. E siccome Berlusconi ritiene che gli allenatori di mestiere non esistono, meglio Leonardo di un professionista “pulitino”. Se avete visto le ultime tre partite del Milan potete dire tranquillamente che Berlusconi aveva ragione.

C’entra qualcosa tutto questo con la politica? Sì. Berlusconi guida il Milan come guida il suo partito. E il modo assomiglia a quello con cui seleziona la sua “classe dirigente”. Basato sulla fantasia, sull’imprevedibilità, sull’idea - arrogante - che esistono alcuni mestieri un po’ generici (come l’esperto di calcio o il politico) che si possono improvvisare se si posseggono intelligenza e qualità umane. E anche sull’idea che “deprofessionalizzare” (politica e sport) non ostacola l’efficienza e favorisce la modernizzazione. Un esempio? Mara Carfagna. È stata sbeffeggiata per mesi, da deputata e poi da ministra. Si è detto di tutto. Poi si è messa a lavorare. Sicuramente non è una ministra di sinistra, però non si può dire che sia stata inefficiente, o assente, o svampita. Non ha sfigurato, al ministero delle pari opportunità, a paragone di chi l’ha preceduta. È la prima esponente del governo ad avere promosso una massiccia campagna contro l’omofobia, e magari nessuno se l’aspettava da lei.

La prossima sorpresa? Mi aspetto, tra quattro o cinque anni, Leonardo al vertice delle imprese di Berlusconi. Non è un azzardo. Son quasi certo che finirà così.

sabato 16 gennaio 2010

Alcune strane amnesie dell'ex pm Di Pietro

Girovagando per il mare magnum internettiano ho trovato questo blog: lapulcedivoltaire.blogosfere.it
Vi potete immaginare quanto mi sia divertito, ma anche incuriosito, a leggere alcune storie italiche dimenticate sul ex p.m. Di Pietro, come l'ultima di questi giorni che lui stesso ha diffuso sui media. Ha dichiarato che c'è un dossier su di lui, ovviamente falso, che sta girando in tutte le redazioni giornalistiche per screditarlo, avvalendosi di vecchie foto che lo ritraggono insieme al  colonnello dei carabinieri Mori ed il questore della polizia di Stato Contrada. Insieme a loro nella foto ci sarebbero anche alcuni funzionari dei servizi segreti» spiega Di Pietro che, dal suo blog, aggiunge che «naturalmente un acquirente si è subito fatto avanti: il solito quotidiano che, pur di buttare fango sul sottoscritto, acquista qualunque cosa, anche a prezzi esorbitanti, costi che poi si sommeranno a quelli che dovrà pagare per la querela che farò, e che si aggiungerà alla denuncia che ho già provveduto a depositare alla magistratura, perchè questa volta sono venuto a conoscenza per tempo della trappola».



Clamoroso autogol dell'ex PM fatto eleggere deputato nel collegio blindato del Mugello. Uomo forse elevato agli altari della magistratura grazie a una scheggia impazzita (davvero, nel caso) dei servizi segreti "dalemiani".
Il romanzo celebrativo, un saggio scritto da un giornalista-scriba, secondo la definizione di Filippo Facci, è un autogol che dimostra che Tonino Di Pietro non è un Cincinnato né un Cicerone ma, al più un Viceré nello stile del romanzo di De Roberto splendidamente portato sullo schermo da Roberto Faenza.

Filippo Facci per "Il Giornale"

Nulla è più inedito dell'edito, e nulla è più falso di un falso ripetuto. È la morale che si trae dai primi stralci de «Il guastafeste», libro-intervista che Antonio Di Pietro ha realizzato con Gianni Barbacetto, un giornalista transigente come uno scriba col suo faraone. In questo libro ogni cosa appare già detta, già scritta e già sbugiardata: nei fatti, negli atti e nondimeno in «Antonio Di Pietro, Intervista su Tangentopoli» che è un altro libro realizzato dall'ex magistrato nel 2000 con Giovanni Valentini.Quindi nessuna novità: semmai, come direbbe lui, reiterazione del reato e ulteriore inquinamento delle prove. Con l'aggravante che per confutare un libro di Di Pietro non basterebbe neppure un altro libro, tante sono le omissioni e le semplificazioni. Ma divertiamoci un pochino lo stesso.

BERLUSCONI È COME IL FÜHRER
Prima però dobbiamo liquidare le parti di puro delirio: «Per Berlusconi i magistrati rappresentano ciò che gli ebrei rappresentavano per Hitler: razza infame da eliminare, anzi dementi da mandare nei manicomi. Non lo dico io: l'ha affermato lui stesso. Non credo che bisognerà aspettare molto. La soluzione finale è vicina». È vicino anche il sanatorio, se Di Pietro volesse sottoporsi a un comune controllo medico: neppure l'ignoranza può più assolverlo: parliamo dell'uomo che aveva appena paragonato Berlusconi a Videla, un dittatore assassino che fece fuori due generazioni di argentini buttandole dagli aerei. «Neanche sotto il regime fascista si era tentato di infinocchiare l'opinione pubblica con i soldati nelle città. Neanche Mussolini, con le sue otto milioni di baionette, aveva osato tanto». Aspettando approfondimenti, Di Pietro potrebbe cominciare con 20 gocce di Lexotan la mattina presto.

MA QUALE MERCEDES
«Dopo averla tenuta in prova per qualche giorno, mi resi conto che consumava troppo. Perciò non la comprai». Fine della spiegazione: peccato che a contraddirlo ci sia la realtà confortata da tre sentenze da lui inappellate. Leggiamo: si fa riferimento ai favori che un imprenditore inquisito per bancarotta, Giancarlo Gorrini, fece al magistrato, e si legge di «sistematico ricorso di Di Pietro ai suoi favori», dunque «Nel 1990 Gorrini aveva poi ceduto a Di Pietro (...) un'auto Mercedes 300 CE, provento di furto già indennizzato dalla compagnia assicuratrice Maa, per un importo di circa 20-25 milioni a fronte di un valore dell'auto di circa 60 milioni».

L'auto era stata rivenduta dopo 2/3 mesi da Di Pietro, il quale aveva trattenuto la somma percepita per la vendita. «I fatti si erano realmente svolti ed alcuni rivestivano caratteri di dubbia correttezza, se visti secondo la prospettiva della condotta che si richiede a un magistrato». La stessa sentenza spiega che l'auto fu rivenduta all'avvocato Giuseppe Lucibello per 50 milioni; i soldi furono restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre, poco prima delle dimissioni. Di Pietro si stava ripulendo.

IL PRESTITO, I PRESTITI
Di Pietro, nel libro, ammette di aver ricevuto un prestito da cento milioni ma precisa di non averli restituiti «con banconote avvolte in carta di giornale, li ho restituiti con assegni». Anzitutto: di quale prestito parla? Dei cento milioni senza interessi ottenuti dall'inquisito Gorrini? O degli altri cento senza interessi ottenuti dall'imprenditore inquisito Antonio D'Adamo? Senza contare le altre periodiche buste di contanti, le case, i vestiti, i lavori per il figlio e per la moglie, la Lancia Dedra per la moglie, i telefonini, una libreria, persino uno stock di calzettoni al ginocchio.
Anche questo è tutto a sentenza, e difficilmente il Csm l'avrebbe perdonato... segue

domenica 10 gennaio 2010

Il solito copioni di pochi urlanti

Come sempre, quando c'è di mezzo il comico urlante alla luna, i soliti "numerosi" contestatori appartenenti ai gruppetti o partitelli dello 0,x per cento, tutti rigorosamente democratici e ideologicamente a sinistra, sono capitanati da colui che ormai è il loro ideologo e sostenitore più acceso, l'ex poliziotto e già p.m. Di Pietro, che non si fa mancare occasione per essere presente e vomitare accuse a destra e a manca, ergendosi a paladino di valori che chiede sia rispettati da tutti gli altri ma che per se, sconosce.
Ogni occasione per loro è più che buona, anche quando di tratta di manifestare contro un defunto! 
Ecco il resoconto dell'ANSA di quanto accaduto a Milano ieri, 9 gennaio.



A dare manforte al centinaio di cittadini che questo pomeriggio, a dispetto della pioggia, hanno manifestato a Milano contro la proposta del sindaco Letizia Moratti di intitolare una via a Bettino Craxi sono arrivati anche il leader dell'Idv Antonio Di Pietro e il comico Beppe Grillo. 

In una piazza Cordusio tappezzata di ombrelli lo striscione a caratteri cubitali 'No una via a Craxi' ha fatto da coreografia ai numerosi cittadini e esponenti politici di Verdi, Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani (ma non del Pd) che si sono alternati su un piccolo palco per spiegare perché sia inopportuno che Milano tributi all'ex leader del Psi l'onore di una strada.

"Riteniamo che si stia facendo una violenza alla storia - ha riassunto per tutti Di Pietro - nel far credere che debba essere riabilitata una persona senza informare i cittadini che questa, sul piano politico, ha indebitato il Paese, su quello giudiziario ha fatto il latitante, e che ha usato le istituzioni per fregare i soldi ai cittadini". 



A rincarare la dose ci ha pensato il comico Beppe Grillo, impegnato a Milano anche per lanciare la campagna elettorale in Lombardia del suo Movimento cinque stelle. "Sono d'accordo a una vietta a Craxi - ha affermato sarcastico Grillo - purché corso Buenos Aires diventi corso Dell'Utri. E perché no un largo Mangano?". Di Pietro e Grillo si sono ritrovati a Milano a poche centinaia di metri da quella piazza Duomo dove il 13 dicembre scorso il presidente del consiglio Silvio Berlusconi è stato ferito e hanno sfruttato l'occasione per inscenare, all'uso delle telecamere, un siparietto sull'aggressione al premier. Grillo ha avvicinato Di Pietro e gli ha lanciato al volto un foglio di carta appallottolato. "Ecco - ha scherzato il comico, prima di abbracciare il leader dell'Idv - vedi che ti ho tirato anch'io qualcosa...".
 

All'happening contro una via a Craxi, organizzato a Milano dall'associazione Qui Milano Libera di Piero Ricca, il blogger che diede del buffone a Berlusconi, hanno preso parte anche il regista Moni Ovadia, l'attore Giulio Cavalli, il giornalista Gianni Barbacetto. "Intitolare una via a Craxi non è come portare una corona di fiori al cimitero - ha osservato Basilio Rizzo, consigliere a Milano per la Lista Fo - ma significa riabilitare un modo di fare politica che i milanesi non accetteranno". Contro l'iniziativa milanese per dire no a una via a Craxi si é subito schierato, da Hammamet, il figlio Bobo. "Di Pietro e Grillo sono un po' patetici - ha detto in una nota il leader dei Socialisti Uniti - fanno una manifestazione contro un uomo politico che non c'é più, un caso unico al mondo: c'é di che riflettere". Il portavoce del Pdl Daniele Capezzone ha invece preferito sottolineare la scarsa partecipazione alla manifestazione, giudicandola un "flop". "E' l'ennesima conferma - ha osservato - della differente statura tra un gigante politico come Craxi e due gnomi come Grillo e Di Pietro".


giovedì 7 gennaio 2010

Briatore assolto!


Ne scrissi anticipando quello che in questi giorni i Giudici francesi hanni deciso.


F1: Briatore assolto dalla corte di Parigi

Flavio Briatore ce l'ha fatta. L'ex team principal della Renault ha visto annullato dal tribunale di Grande Istanza di Parigi, la squalifica a vita inflittagli dalla Fia (la Federazione internazionale dell'automobilismo) per il cosiddetto «Singaporegate», contro la quale aveva presentato ricorso. La giustizia francese ha giudicato «irregolare» la decisione della Fia, presa lo scorso 21 settembre, di squalificare a vita l'ex direttore della scuderia Renault. Secondo la Fia Briatore organizzò proprio durante il Gp di F1 di Singapore del 2008 l'uscita di strada di Nelson Piquet jr, per far entrare in pista la safety car e quindi favorire l'altro pilota della Renault Fernando Alonso che avrebbe poi vinto la gara.

RICORSO - Briatore si era rivolto al Tribunale di Grande Istanza di Parigi lo scorso 24 novembre, chiedendo la sospensione della sua radiazione e un milione di euro di danni alla Fia. Per quanto riguarda però proprio la richiesta di un risarcimento di un milione di euro per danni alla sua immagine, il tribunale di Parigi ha assegnato a Briatore solo 15.000 euro a titolo di compensazione dei danni subiti. Oltre a Briatore, che come detto, si è rivolto con successo alla giustizia ordinaria, la Fia ha punito anche Pat Symonds: l'ex direttore tecnico della Renault è stato squalificato per 5 anni.

Le elezioni regionali sono vicine, quanto ci costano?

La prossima tornata elettorale amministrativa, le regionali, deve ancora svolgersi e già sappiamo quanto ci costano le "liquidazioni" di  loro singori, ovvero i consiglieri regionali uscenti.


Eccovi l'interessante articolo di Marcello Foa.



Le liquidazioni d’oro dei consiglieri regionali ci costano 33 milioni

 


Questa la spesa se dopo il voto del 2010 gli eletti non saranno riconfermati. In Piemonte la buonuscita è di ben 85mila euro.

Hanno anche la liquidazione, i consiglieri regionali. E che liquidazione: da decine di migliaia di euro. Un beneficio noto agli addetti ai lavori, ma di cui l’opinione pubblica non sempre è consapevole. Almeno fino a ieri. Goà, perché l’arcivescovo di Torino, Severino Poletto, ha avuto l’audacia di biasimare i politici che in tempi difficili come questi mancano di sobrietà. Al cardinale non è piaciuta la superindennità che i consiglieri uscenti della Regione Piemonte percepiranno fra tre mesi, quando si chiuderà la legislatura. Ben 85.770 euro, netti, per 5 anni di lavoro.
Il Tfr piemontese è il più alto d’Italia, seguito a poca distanza da quello pugliese, con un’indennità di 80.600 euro a legislatura. Una regione del nord e una del sud; la mappa delle liquidazioni stravolge la consueta geografia politica e civica. Infatti tra quelle virtuose troviamo al primo posto la Calabria con 21.920 euro, seguita dall’Emilia Romagna con 24mila euro e dal Veneto con 27.497 euro. Insomma: quanto a emolumenti non c’è differenza tra settentrione e meridione, come risulta dalle statistiche della Conferenza delle Assemblee legislative delle Regioni e dai dati che il Giornale ha raccolto interpellando i Parlamenti locali.
Il motivo? Semplice: ogni regione è libera di determinare l’entità degli emolumenti. La conseguenza? Intuibile. Le elezioni che si svolgeranno la prossima primavera costeranno parecchio alla collettività. La media delle indennità di fine mandato nelle tredici regioni che si recheranno alle urne è di 42.901 euro, sempre al netto delle tasse e dei contributi. Pur essendo molto difficile stimare il Tfr maturato complessivamente fino ad oggi, considerato che riguarda ben 709 consiglieri - alcuni dei quali di prima nomina, altri invece veterani - abbiamo tentato un calcolo indicativo. Ipotizzando che tutti i consiglieri avessero una sola legislatura alle spalle e che tutti venissero sostituiti, il costo complessivo ammonterebbe a 32.633.086 euro. Una bella somma in tempi di crisi, tanto più che il costo reale è di gran lunga più alto.
«Mi auguro che questi dati inducano l’opinione pubblica e i politici a definire con chiarezza e senza sperequazioni quanto debba guadagnare un consigliere regionale in Italia», dichiara al Giornale Monica Donini, numero uno del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna e presidente Conferenza delle Assemblee legislative delle Regioni. «Le retribuzioni dei consiglieri sono parametrati all’indennità dei parlamentari a Roma - spiega -. C’è chi è molto parco e si ferma al 60% e chi invece tocca il 100%, come la Sicilia che prende come riferimento addirittura il Senato, anziché la Camera dei Deputati».
La liquidazione di solito corrisponde a una mensilità per ogni anno di legislatura. Lo scandalo del Piemonte e della Puglia è presto spiegato: anziché un mese ne vengono considerati due. Quello di Torino è recente, fu approvato nel 2003 durante l’era Ghigo. La liquidazione è proporzionale al numero di anni trascorsi in Consiglio. Per intenderci: se un consigliere lasciasse dopo tre mandati incasserebbe 257.312 mila euro. Puliti, puliti. Una bella ricompensa, non c’è che dire, che si inerisce in una realtà molto variegata.
Alcune regioni si limitano a calcolarla sull’indennità di carica, dunque sullo stipendio base. È il caso dell’Emilia Romagna dove il Tfr è uguale per tutti. Ma altre regioni come la Toscana e la Campania considerano nel computo anche le altre indennità, come quella di funzione. E la liquidazione, di riflesso, aumenta.
In un’Italia che non è ancora federale, quando si tratta di stipendi ognuno decide per sé. La Lombardia accorda ai propri eletti 68mila euro, molto più del Lazio (31mila euro), dove però le voci extra sono molto numerose e variano a seconda della carica, dunque aumentano in proporzione alla carica.
L’Umbria calcola la liquidazione sulle base degli ultimi dodici mesi, ma con un tetto massimo: il Tfr è limitato a dieci anni in Consiglio, chi supera questo termine non ha diritto a maggiorazioni. Un meccanismo analogo è stato adottato dalla Liguria, ma il limite è fissato a tre legislature anziché due. Sia Umbria che Liguria risultano sotto la media (rispettivamente 28mila e 30mila euro). La Campania dove l’indennità è di 50mila euro ha tentato di arginare i costi, seppur minimamente. «Dal 2006 abbiamo bloccato gli scatti automatici», spiega il consigliere segretario Pasquale Marrazzo del Pdl.
In genere, comunque, la regione che decide di autogratificarsi con stipendi elevati raramente torna sui propri passi, come dimostra ancora una volta il Piemonte. La norma fu votata in pieno agosto su iniziativa del centrodestra, ma l’attuale maggioranza di centrosinistra in cinque anni non l’ha certa abrogata. Solo ieri dopo il richiamo del cardinale Poletto alcune voci si sono levate invocando un cambiamento. Voci da campagna elettorale. Il «salario di reinserimento», così si chiama tecnicamente la liquidazione, fu introdotto con lo Statuto Albertino, addirittura nel 1848. Da allora nessuno ha rinunciato a questo privilegio.

Dall'oro di Dongo ad oggi,

La fortuna monetaria dei comunisti italici iniziò così: quando alla fine della II guerra mondiale le squadre dei combattenti comunisti catturarono e poi l'assassinarono Mussolini in fuga verso la Svizzera , non restituirono agli italiani il "tesoro" che Mussolini stava portando con se, oltre agli innumerevoli carteggi riservati.


In questi primi giorni del nuovo anno, un grande giornalista di sinistra, Pansa, rievocando il tempo di "Manui pulite", ribadisce ancora una volta che i magistrati di quell'epoca si fermarono davanti la porta del PCI, poi PDS, Ulivo, DS ecc., lasciando l'amaro in bocca a moltissimi italiani, oltre ad un'inchiesta/rivoluzione monca, che se condotta a termine avrebbe scritto diversamente gli ultimi due-tre lustri di storia patria.

Possibile mai che uno dei pochi arrestati dell'epoca "Mani pulite" che abbia dimostrato d'avere i classici attributi sia stato il Signor G, il duro e puro comunista Primo Greganti che Pansa ci ricorda nel suo articolo?
A ricordar bene pochi altri con le palle ci fu,reono ma furono di palle di piombo, quelle dei proiettili usati per suicidarsi per la vergogna.






Bettino dannato per sempre?
di Giampaolo Pansa


Craxi dannato. Ma allora il più pulito aveva la rogna
Nelle prime settimane del 2010 si parlerà a lungo di Bettino Craxi, per il decennale della scomparsa. Si è già cominciato a farlo e in due modi opposti. Il primo considera il leader del Psi soltanto un ladro e un latitante. Il secondo sostiene che il giudizio su di lui deve essere più ampio, non limitato alla sola vicenda di Tangentopoli. Anche perché, insieme al Psi, altri partiti vissero sul sistema delle mazzette o del finanziamento illecito. A cominciare dall’avversario più tenace di Craxi: il Pci, poi diventato Pds.
È innegabile che lo tsunami di Mani Pulite iniziò in casa socialista, il 17 febbraio 1992. Il primo politico arrestato fu Mario Chiesa, 47 anni, ingegnere, presidente del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio per vecchi a Milano. Al momento di essere pizzicato in ufficio, Chiesa teneva nel cassetto una mazzetta appena incassata: 7 milioni di lire in contanti. Una seconda tangente più robusta, 37 milioni, riuscì a gettarla nel water presidenziale.

Per il grande pubblico, Chiesa era uno sconosciuto. Pochi sapevano che era uno dei padroni del Psi ambrosiano. Controllava intere sezioni del Garofano e possedeva un pacchettone di tessere. Craxi commise l’errore di definirlo soltanto “un mariuolo”. Poi fece subito un altro passo falso. Parlando a Milano il 27 febbraio, disse: «Di fronte a episodi di corruzione come questo, mi viene un gran sconforto. Il fatto è grave, ma non può deturpare l’immagine socialista. A volte i partiti si trovano in difficoltà proprio come certe famiglie quando scoprono che c’è un ragazzo poco di buono».

Ma il pool dei magistrati non si fermò. A Milano cadde il Muro di Bettino, come lo chiamai sull’Espresso. La Sacra Famiglia Craxiana andò a gambe all’aria. E l’inchiesta si allargò ad altri partiti. Alla metà del giugno 1992 i politici indagati o arrestati nell’inchiesta milanese erano già trentanove, così suddivisi: 16 socialisti, 14 democristiani, 7 del Pds, 2 repubblicani. Di questi trentanove, i parlamentari in qualche modo coinvolti risultavano nove: 4 democristiani, 3 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.
Il team giudiziario di Mani Pulite seguitò a marciare come un rullo compressore. Alla fine dell’agosto 1992, i politici arrestati o indagati erano diventati sessantuno. Ripartiti così: 26 democristiani, 23 socialisti, 8 del Pds, 2 del Pri e 2 del Psdi. Anche il numero dei parlamentari inguaiati crebbe a quattordici: 7 della Dc, 5 socialisti, uno del Pds e uno del Pri.

Già questi numeri ci ricordano quanto stava emergendo nella sola Milano, in un anno terribile segnato dagli omicidi di Lima, di Falcone e di Borsellino. Tangentopoli era il luogo della corruzione interpartitica. Alla fine, gli unici partiti estranei al sistema del finanziamento illecito risultarono il Msi e i radicali. Non certo il Partitone Rosso, ovvero il Pci-Pds, allora guidato da Achille Occhetto.
In seguito, per anni e anni, i dirigenti di quel partito, e i giornali che li sostenevano, si affannarono a convincerci che le Botteghe Oscure e le loro strutture periferiche erano più bianche del bianco. Ma non era vero. Il Pci aveva sempre vissuto anche di fondi neri. Non alludo soltanto ai continui finanziamenti dall’Unione Sovietica. Parlo di vere e proprie mazzette, spesso molto consistenti.
È un fatto storico che Enrico Mattei, il presidente dell’Eni, finanziasse anche il Pci. Lo stesso fece il suo successore, Eugenio Cefis. Per concludere con l’Urss una trattativa sulla fornitura all’Eni di gas siberiano, nel dicembre 1969 Cefis si accordò su una tangente per il Pci di 12 milioni di dollari. Dopo un versamento al Bottegone di un milione e 200 mila dollari, il resto fu pagato dall’Eni in rate annuali. Su un conto cifrato in Svizzera.

Come vedremo, la faccenda dei conti elvetici del Bottegone emergerà di nuovo con Mani Pulite. Ma prima vennero a galla le tangenti incassate dal Pds per la Metropolitana milanese, mazzette da centinaia di milioni. Poi quelle pagate dalla Calcestruzzi del gruppo Ferruzzi per ottenere un appalto che riguardava l’Enel. Un miliardo e 250 milioni alla Dc e idem per il Psi. A quel punto anche il Pds pretese lo stesso bottino. E ricevette una prima rata di 621 milioni. Versata in Svizzera su un conto cifrato, con un nome in codice dal sapore domestico: “Gabbietta”.
Antonio Di Pietro chiese al capo della Calcestruzzi chi gli avesse indicato la banca e il conto cifrato. Lui rispose: Primo Greganti, già segretario amministrativo della federazione torinese del Pci e poi funzionario dell’amministrazione centrale del partito. Greganti, “il signor G”, venne arrestato, ma negò sempre: il conto Gabbietta era suo, non del Pds.

In seguito si scoprirono altri conti elvetici cifrati, maneggiati da dirigenti del Pci-Pds: il conto “Idea” e il conto “Sorgente”. Ma il Partitone Rosso fece orecchie da mercante. Nel febbraio 1993 Occhettò gridò: «Smentisco nel modo più categorico. Non abbiamo mai avuto conti in Svizzera!». Lo stesso sostenne Max D’Alema il 28 febbraio: «Niente conti in Svizzera. E non ci risulta in nessun modo che noi abbiamo chiesto o fatto chiedere tangenti ad alcuno o che ne abbiamo intascate». Poi D’Alema, per una volta fantasioso, parlò di provocazione e tirò in ballo i sempiterni servizi segreti nostrani.

Potrei continuare, ma il Bestiario ha uno spazio obbligato. Spero che le pochissime cose qui raccontate ci rammentino un vecchio detto: il più pulito ha la rogna. E ci aiutino a dare di Bettino Craxi un giudizio sereno. Non possiamo ritenerlo dannato per sempre.
lunedì, 4 gennaio 2010

Intervista a Forattini, il genio delle vignette

Il quotidiano il Riformista ha intervistato, negli ultimi giorni dell'anno scorso, Giorgio Forattini, il genio della satira vignettistica.

Riporto l'intervista per intero perchè chiarisce molte cose sugli editori e giornalisti italiani e,  specialmente,  sui politici di casa nostra.





Giorgio, il precario di successo
di Andrea Di Consoli

Dice di essere senza contratto, «mi hanno fatto fuori da tutti i giornali», intanto “Satiromantico” è il suo 50esimo libro. L'esordio da tipografo a “Paese Sera”, ora disegna per Feltri, «sarà feroce ma vende». Re incontrastato delle querele, D'Alema gli chiese 3 miliardi, «però mi ha condannato solo Caselli». Principe a “Panorama”, cofondatore di “Repubblica” con Scalfari, «un grande, tagliava Bocca e Pansa». Mauro? «Non mi difese e me ne andai». Di Pietro? «Voleva le vignette in anteprima».
In occasione dell’uscita del suo nuovo, feroce e bellissimo libro Satiromantico (Mondadori), incontro Giorgio Forattini nella sua bella casa romana nel quartiere Prati (vive a rotazione quindici giorni a Parigi, dieci a Milano e cinque a Roma). È una casa-museo piena di oli, acquerelli, incisioni di volti anonimi antecedenti all’invenzione della fotografia. Parliamo dei suoi grandi amori: Bosch, Bruegel, Tolouse-Lautrec, Seurat. «Sai una cosa?» mi confessa, «l’arte moderna non mi piace. Ma è possibile che un artista non sappia fare un disegno? Ti sembra normale?».
Ci sediamo nel suo studio caldo di colori. Sul tavolo c’è una vignetta – l’ennesima – contro Di Pietro gerarca.

E’ molto deluso, Forattini, perché dopo quasi quarant’anni Panorama è stata costretta, per via della crisi, a sospendere il suo contratto. «Sono un disoccupato. Ah, non ci credi? Guarda che dico sul serio. Sì, faccio qualche vignetta per Il Giornale, ma sono senza contratto. Sono un precario come te, anzi, a te almeno ti telefonano, a me invece non mi chiamano neanche». Non c’è verso di fargli capire che la sua precarietà è una precarietà di lusso, che lui è uno che con i suoi libri (l’ultimo appena pubblicato, Satiromantico, è il suo cinquantesimo libro) ha venduto milioni di copie (milioni veri, non finti). Niente. Forattini, il re senza rivali dei vignettisti italiani, vorrebbe quasi quasi farmi credere che sto meglio di lui. «Mi hanno fatto fuori da tutti i giornali. Ho anche accettato di fare le vignette per il Quotidiano nazionale. Però una volta dicevano che erano troppo dure, un’altra volta non le pubblicavano, e certe volte le mettevano piccole piccole, tre centimetri per sei. No amico mio! Il vecchio Forattini vuole spazio, le mie vignette le devi mettere in alto, a tre colonne! Ma scherziamo?».

Forattini è un raffinato viscerale, un burlone che, nel mentre sbraita contro il potere vile, spalanca gli occhi e sembra sperduto, perso. Solo chi ha la fortuna di trascorrere una mezza giornata con lui scopre che il satirico che ha fatto arrabbiare i potenti d’Italia ha un pianto in gola che non riesce a dissimulare fino in fondo. «Mi hanno querelato sempre. Ma solo a sinistra! Solo i comunisti mi hanno querelato!». Gli faccio notare che la sua attività satirica è iniziata nel 1970 a Paese sera, giornale comunista; e, provocatoriamente, gli chiedo se quarant’anni fa era comunista. «Io comunista? Io non sono mai stato comunista in vita mia! Sono sempre stato un liberale. E a Paese sera lo sapevano. Ah, quel giornale era pieno di sessantottini. Che sciagura, il 68! E poi tieni conto che a Paese sera io lavoravo in tipografia, e che la prima vignetta la feci per Panorama. Poi, quando i compagni scoprirono che il Forattini di Panorama ero io, solo a quel punto mi chiesero di fare le vignette».

È un fiume in piena, Forattini: «I comunisti di Paese sera non li sopportavo perché nonostante guadagnassi due lire mi chiedevano sempre di sganciare soldi per il Nicaragua o per Sendero luminoso. Ma ti rendi conto?». A quel punto gli faccio notare che è tra i fondatori di Repubblica, e che il giornale di Scalfari non è mai stato un giornale di destra. «Guarda, ti dico una cosa. Nel 1975 accettai di lavorare con Eugenio Scalfari alla fondazione di Repubblica perché Scalfari è uno che i giornali li sa fare per davvero. Pensa che è stato lui a inventare gli articoli brevi. Sai che diceva a Pansa e a Bocca? Gli diceva che se sforavano, i tipografi avevano il diritto di tagliare i loro articoli. Mo’ invece è impazzito, scrive articoloni su Dio, ma è stato un grande direttore. E comunque Scalfari mi ha sempre difeso. Quando facevo qualche vignetta particolarmente dura contro De Mita o contro Craxi, Scalfari mi chiamava in tipografia con l’interfono e mi diceva: “Giorgio, ma perché devi attaccare gli unici amici che ho?” E io gli rispondevo: “A diretto', ma che gente frequenti?”.

Però la verità è che quando i politici lo chiamavano per protestare contro le mie vignette, lui diceva che lo spazio di Forattini era un porto franco. Scalfari è stato un grande direttore, mica come lo gnomo di Cuneo».
Lo gnomo di Cuneo? E chi è adesso questo gnomo di Cuneo? «Come chi è lo gnomo di Cuneo! È Ezio Mauro! I problemi di quel giornale sono nati con Debenedetti. Diceva Agnelli, riferendosi a Scalfari, che non si poteva dirigere un giornale che si era venduto. Quando nel 1999 D’Alema mi ha querelato chiedendo 3 miliardi di risarcimento per la famosa vignetta sul caso Mitrokhin, tieni conto che D’Alema ha querelato solo me, non Repubblica. Ezio Mauro faceva comunella con D’Alema, presentava i suoi libri. Siccome Ezio Mauro non mi ha difeso, ho deciso di andarmene, di licenziarmi senza chiedere niente. E guarda che ero redattore, potevo anche non andarmene. Quando ho comunicato a Mauro che me ne sarei andato, lui era tutto felice. Sì, perché ogni volta che gli mandavo una vignetta via fax lui si incazzava moltissimo. Ho tolto il disturbo, praticamente». E com’è andata a finire la querela di D’Alema? «L’ha ritirata non appena me ne sono andato da Repubblica».

Nella sua vita satirica Forattini è stato querelato molte volte. Gli chiedo se è mai stato condannato per diffamazione in via definitiva. Forattini si aggiusta i capelli pettinati alla francese, tanto da somigliare a uno dei tanti esponenti della borghesia settecentesca raffigurati nei quadri appesi alle pareti, e chiude gli occhi per ricordare meglio. «Mi hanno querelato in tanti. Mi hanno querelato Leoluca Orlando, Bettino Craxi, Ciriaco De Mita. E mi hanno creato problemi Paolo VI e Romano Prodi. Ma sai chi è l’unico che è riuscito a farmi condannare? Vediamo se lo indovini. No lo sai? Allora te lo dico io: è il giudice Caselli. Ah, la magistratura italiana! Ma è meglio che non mi fai parlare!». Forattini continua il racconto della sua vita. Mi parla bene dell’avvocato Agnelli, che lo volle a La Stampa con un contratto superlativo. E mi parla bene di Vittorio Feltri («sarà pure feroce, ma ha aumentato le vendite del Giornale di 50.000 copie. Speriamo mi faccia un bel contratto»).

E il centro-destra? Mai avuto problemi con Fini, Berlusconi, Schifani, Tremonti? E con Di Pietro? «Mai. Berlusconi è un signore. È un uomo libero. Ho fatto vignette sulla Carfagna e su Papi, ma lui non mi ha mai detto niente. Sarà anche un fijo de ‘na mignotta, ma è un uomo libero. Le querele arrivano solo da sinistra. Solo i comunisti querelano. Diverso invece è il caso di Di Pietro. Ora ti confesso una cosa. Quando c’era Mani Pulite io appoggiavo le inchieste di Di Pietro, e Di Pietro era felice del mio appoggio, tanto che a notte fonda mandava la polizia a casa mia per avere in anteprima le vignette. Adesso non mi può dire niente. Però no, non mi ha mai querelato».

Le fredde strade di Roma sono avvolte dal buio. Il pomeriggio è passato in fretta. «In questo paese se non sei comunista ti dicono che sei fascista. Mi ricordo che fui io a sdoganare Fini per la prima volta in un’intervista a Maria Latella. Fui costretto ad andarmene da Roma. Mi arrivavano le telefonate di notte, mi dicevano che ero un fascista, un fijo de ‘na mignotta. È un brutto paese, il nostro. La libertà è merce rara. Solo da noi la satira è considerata criminale. Ma la satira è un porto franco, nessuno la deve toccare. Mo’ però lasciami lavorare perché devo fare una vignetta per Feltri, anzi, aiutami a trovare un lavoro, perché sono disoccupato. E salutami Polito, perché quando me ne andai da Repubblica fu l’unico a telefonarmi insieme alla Palombelli. Queste sono cose non si dimenticano».

da il Riformista del 23/12/2009


domenica 3 gennaio 2010

Anno Nuovo, cose nuove ma...inaudite sentirle dire da un parlamentare!


AUGURI DI UN SERENO 2010 CARI CONNAZIONALI 


QUESTO E' L'INIZIO DI UN ALTRO ANNO POLITICAMENTE ORRIBILE E SENZA LE RIFORME PROMESSE IN CAMPAGNA ELETTORALE

Indubbiamente siamo un Paese realmente democratico che gode di un alto tasso di libertà dell'informazione se un parlamentare, anzi di più, un euro-parlamentare si può impunemente permettere di prendere per i fondelli la maggioranza degli italiani, ritenendoli degli inutili idioti.



Non sono pazzo, non ancora, sono semplicemente un già pre-giudicato, per dirla in terminologia giuridica che va tanto di moda, che dice come la pensa in questo mare magnum internettiano, ed il leggere quanto ha scritto nel suo blog - e riportato da tutti i media nazionali e non -  il già ex pm Luigi De Magistris (scusate quest'altra tautologia, ma necessita), ora euro parlamentare per conto del suo già ex collega ed ora sodale,  Di Pietro, patron dell'IDV..., m'impone di ripubblicare il fine pensiero del già ex magistrato napoletano in maniera che si possa leggere senza tema di smentite. 
Questo ex pm ha anche scritto: "Bisogna tornare ad essere una nazione civile".
Ecco una delle sue innumerevoli falsità. Quale nazione non civile avrenbbe permesso a lui ed al suo sodale di vituperare la maggioranza dei suoi cittadine che non la pensano come lor signori ...  che vorrebbero il ritorno del tintinnio delle manette, dei suicidi in carcere, delle fughe all'estero... e lor signori al Governo in maniera giuridico-democratica.

Con questo metodo:


IL LODO DE MAGISTRIS

Scappare dai tribunali e dalla legge ad ogni costo? Lodo Alfano, Lodo Alfano Bis, Lodo Costa, processo breve, ddl intercettazioni, riforma della Consulta, ritocco del concorso esterno? Basta, siamo stanchi e c'è da chiedersi, citando Cicerone, per quanto tempo ancora questo novello Catilina abuserà della nostra pazienza. Forse sarebbe saggio che qualcuno proponesse veramente un Lodo, ma per salvare il paese da Berlusconi. Qualche idea me la sono fatta e in osservanza alla prassi inaugurata dal governo, lo chiamerei "Lodo de Magistris". Pochi punti da definire insieme e non serve nemmeno cambiare la Costituzione , perché approvato in sua difesa, e se anche ci fosse un referendum, credo passerebbe con grande consenso. La proposta di fondo è questa: garantiamo a Berlusconi la possibilità di lasciare l'Italia senza conseguenze. Non c'è trucco e non c'è inganno: solo il bisogno di ritornare ad essere una nazione democratica e civile. Un volo di Stato -sembra gli piacciano tanto- con annesso Apicella e magari una graziosa signorina. Destinazione? Consigliamo le isole Cayman, che risultano affini persino ad uno dei tanti soprannomi che si è conquistato con anni di (dis) onorevole carriera: il caimano. Sarebbe per lui un modo per ritrovare, magari, anche qualche vecchio capitale messo in salvo all'estero. E se si annoia? Qualche cavallo e stalliere di fiducia li potrebbe trovare anche lì. Ci permettiamo di suggerire una sola accortezza: che non si chiamino Vittorio e non frequentino Marcello. Il rischio infatti è che anche alle Cayman la storia si ripeta: coppole e appalti nelle isole esotiche sarebbero indigeribili. Carta e tv liberate potranno riprendere a fare il loro dovere: informare sui fatti, gli stessi che da anni cerca di occultare perseguitando i giornalisti anche se pongono solo domande, cioè fanno il loro mestiere, ovviamente quelli che sopravvivono all'infezione dell' autocensura preventiva. Il Parlamento tornerebbe al proprio compito perché svincolato dalla sua agenda giudiziaria che oggi detta i temi, anzi il tema alle istituzioni: le necessità giudiziarie del fuggitivo da garantire prima di quelle degli italiani. La magistratura non più costretta agli assaliti quotidiani potrebbe dedicarsi senza timore alla missione che le spetta e le mafie non si sentirebbero più di poter spadroneggiare indisturbate. Per le casse dello Stato il guadagno sarebbe altissimo, per non parlare di quello dell'etica pubblica. Finito l'inquinamento di tutti gli ambiti economici e mediatici, il mercato finalmente alleggerito dalla cappa del suo conflitto di interessi, forse riprenderebbe a girare normalmente. E le somme ritrovate, anche con una lotta all'evasione certa, potrebbero essere investite nella formazione e nell'istruzione: una sorta di 8 per mille dell'antibelusconismo. Ma soprattutto noi non sentiremo più quel mantra che riecheggia dai contesti internazionali alle riunioni riservate e che vuole comunisti, bandiere rosse, manette impazzite accanirsi contro un solo uomo. Finalmente in questa patria liberata non ci saranno più scudi fiscali e lodi ad personam, decreti razzisti e leggi fondamentaliste, emendamenti che ridanno alle mafie ciò che lo Stato ha tolto loro. E noi? Noi semplicemente torneremo ad essere un paese normale, degno dell'Europa e della civiltà democratica. Fantascienza? Forse. Sicuramente la stessa a cui ci ha abituati con le sue dichiarazioni e le sue azioni politiche surreali: diciamo degne di un altro pianeta, se esiste.