giovedì 30 settembre 2010

Sbandierano sempre la loro diversità morale e commerciale. Tutte chiacchiere!

False Lacoste al centro commerciale: la Coop condannata a pagare i danni.
Le polo erano in vendita sottocosto all'Ipercoop di Perugia, ma erano «taroccate»: 30mila euro di risarcimento per la griffe francese.

Il coccodrillo verde era proprio uguale. La caratteristica maglia di cotone pure. Solo che con la famosa griffe francese le polo sugli scaffali avevano davvero poco a che fare. Soprattutto per il prezzo, troppo basso rispetto all'originale. Così la Coop dovrà sborsare oltre trentamila euro per risarcire il colosso francese Lacoste: contraffazione e concorrenza sleale le accuse.

FALSO IN VENDITA - Il Tribunale civile di Perugia ha infatti condannato la Coop Centro Italia che commercializzava false polo Lacoste nel centro commerciale Ipercoop di Collestrada, ai piedi di Perugia. La causa è stata intentata nel 2002 dalla Lacoste, rappresentata dagli avvocati del Foro di Milano Giovanni Iazzarelli e Giorgio Valli. La società francese, dopo alcuni controlli nel maggio del 2002, aveva notato che nel centro commerciale erano in vendita «sottocosto» maglie col coccodrillo prive «dell'abituale busta in plastica del prodotto originale». Una consulenza tecnica disposta dal giudice civile ha rilevato la «non autenticità del prodotto» con differenze riguardo al «titolo del filato (...) all'intreccio del tessuto, alle cuciture» e anche «alla grandezza» e alla «posizione del logo».

«CONDOTTA ILLECITA» - Il giudice ha riconosciuto la condotta illecita di Coop Centro Italia, accogliendo le istanze della Lacoste sulla «repressione della concorrenza sleale» e a «tutela del marchio». Coop Centro Italia dovrà pagare a Lacoste circa 12mila euro per il danno economico e 20 mila euro per il «danno da sviamento di clientela, discredito commerciale, deprezzamento del marchio». Il magistrato ha anche ordinato la distruzione delle magliette «taroccate». 



A questo punto tre domande nascono spontanee:

1a) Come mai una multa così bassa?
2a) Era la prima volta che succedeva?
3a) Soltanto questo capo d'abbigliamento era taroccato?

A voi le risposte. 

martedì 28 settembre 2010

Meglio le urne del caos

Conoscendo bene come vanno le cose in Italia e la memoria di noi italiani, il presidente della Camera, Gianfranco Fini, spera che si voti alla scadenza naturale della legislatura in maniera di avere tutto il tempo di ricostruirsi un partito che lo faccia entrare in parlamento a testa alta.
Il comico genovese, Beppe Grillo, spera l'esatto contrario, ovvero che si vada a votare al più presto in modo che il suo movimento a cinque stella possa mandare in parlamento una ventina di ragazzi coi quali cambiare, a suo dire,  la politica italiana.
Qui di seguito come la pensa Giampaolo Pansa, del quale condivido quanto scrive.

Meglio le urne del caos
di Giampaolo Pansa 

Se per Gianfranco Fini il futuro arriverà con la lentezza del suo messaggio video, non scorgo per lui un avvenire brillante. Pure in un’epoca dominata dal totem della velocità, avrebbe fatto meglio a usare la posta tradizionale e non le diavolerie di Internet. Non ci avrebbe imposto un sabato interminabile, reso logorante da un rinvio dopo l’altro. Come sarà successo a tanti, anch’io mi sono sentito nell’anticamera di un dentista che non rispetta gli appuntamenti e tarda a farsi vedere.
 Finalmente, dopo le sette della sera, il dentista Fini si è presentato. A mani nude e senza nessuna voglia di impegnarsi nel lavoro. Mi è parso spompato, frettoloso, per niente battagliero. Non ci ha rivelato nulla sulla proprietà della casa di Montecarlo. È del cognato Giancarlo Tulliani? Forse sì, forse no. Nella nebbia è apparsa soltanto una microscopica autocritica: ingenuità, arrabbiature senza esito. Più una scusa paradossale: a Montecarlo operare con società da paradisi fiscali «è obbligatorio». Anche un uomo di Stato come lui non poteva evitare la trappola dell’offshore.

Insomma, non è accaduto niente di niente. Fini si è limitato a una flebile difesa, come vittima di un “gioco al massacro” condotto da una Spectre di sconosciuti. Ha evitato di ripetere i giudizi pesanti che gli conosciamo: la democrazia italiana è «a rischio», prigioniera di una rete fatta di «ricatti e terrore». Non ricordo un'autorità istituzionale arroccata, almeno a parole, su una linea tanto sovversiva. In grado soltanto di generare conflitti sempre più pericolosi.

Per questo, come cittadino, provo paura. E mi domando se esista il modo per spegnere un incendio che può estendersi e incenerire tutto. Il Bestiario ne vede uno solo: ritornare alle urne prima che finisca questo maledetto 2010 o subito dopo. Bisogna lasciar sfogare gli istinti maligni in una battaglia elettorale. Pur sapendo che non sarà una prova facile. Dovremo affrontare l’inferno. Tuttavia non riesco a immaginare nessun’altra strada capace di ridare alla politica un minimo di normalità, di quiete, di dignità.

Del resto, le elezioni anticipate sono ormai un obbligo che sarebbe molto pericoloso non onorare. Guardiamoci attorno. Il governo Berlusconi è in coma. Non solo stenta a governare, ma non ha neppure la forza di decidere la nomina di ministri e di autorità pubbliche che mancano da tempo. Il Pdl, architrave della maggioranza, non è più quello che aveva vinto le elezioni del 2008. Dal suo interno è nato un nuovo partito, Futuro e libertà, un gruppo aspramente nemico della casa madre. Nessuno sa dire quale sarà la forza elettorale dei futuristi. Ma poca o tanta che sia, di certo strapperanno voti alla cassaforte del Cavaliere.

Anche il premier si trova in un mare di guai come non lo era mai stato dai tempi del primo ribaltone, quello del 1994. È anziano, stanco, sostenuto soltanto dall’ostinazione a durare. La Lega di Umberto Bossi viene ritenuta in ascesa, ma i voti che le accreditano sono per ora teorici e tutti da conquistare. Le opposizioni di centrosinistra si dibattono nel marasma. Il Partito democratico è squassato dalle divisioni interne e non sembra in grado di compattarsi attorno a un leader riconosciuto dall’insieme delle correnti. L’Italia dei valori avanza pretese da grande parrocchia, però Di Pietro si muove come un agitatore di piazza. Ogni volta che appare in tivù, la sua tribuna costante, urla, sbraita, lancia proposte ansiogene, rivolte a distruggere più che a costruire. Il capo di Sinistra e libertà, Nichi Vendola, è un illusionista avventato. Convinto di poter guidare un fronte in grado di battere il centrodestra.

Su questo caos incombe una data gonfia di rischi: il mercoledì 29 settembre. Quel giorno, Berlusconi presenterà alla Camera il programma di rilancio del governo. Tuttavia è ancora buio fitto sulla conclusione del dibattito. Ci sarà una mozione di fiducia? Oppure una semplice conta dei voti a favore del premier? La famosa quota 316 di cui tanto si parla verrà raggiunta o il governo cadrà? E se anche non cadesse, quanto potrebbe durare ancora? Venerdì il premier ha garantito che resterà in sella fino al 2013. Ma i cimiteri sono pieni di leader convinti di campare all’infinito.

Dunque non resta che affrontare la prova delle urne, anche con l’attuale legge elettorale. So bene che ha molti difetti e andrebbe migliorata. Però non credo che, in questo disordine avvelenato, sia possibile cambiarla con un confronto non sanguinoso. So altrettanto bene che al voto ci arriveremo attraverso un percorso di guerra. Segnato da tappe orrende che è facile prevedere. Una violenza verbale sempre più maligna. Scontri fra bande avversarie.

Conflitti sociali a ciclo continuo. La discesa in campo del ribellismo rosso e, forse, di quello nero. Gli assalti della criminalità organizzata, un potere politico nascosto che si rivela sempre quando i partiti mostrano la loro impotenza. E di proposito non metto in conto ciò che potrà emergere dalle sabbie mobili della crisi economica e finanziaria.
Certo, andare alle urne subito risulterà per tutti una prova del fuoco. Ma sarà sempre meglio rischiare che tirare a campare nella palude odierna. Sotto la luce livida dei televisori che, ogni sera, scaraventano nelle nostre case i dossieraggi di Bocchino, le acrobazie barocche di Vendola, le chiassate di Di Pietro, i brontolii di Bersani, i ruggiti faticosi di Bossi, le velleità sudiste di Casini. E per finire, i bla bla alluvionali del Cavaliere, premier senza più premierato.
[FONTE] 

domenica 26 settembre 2010

Iniziò a far danni allo Stato italiano Mussolini col suo concordato. Continuò Craxi. 
Poi i governi democristiani e infine quelli di destra e sinistra, ovvero Berlusconi e Prodi! 
Insomma tutti prodighi verso il clero con i soldi di pantalone al fine di accaparrarsi i voti di preti, suore e monache.
Speriamo che metta fine a tutto questo l'Unione Europea.
Per capire meglio la questione, un solo esempio, fra i mille possibili, vale più di mille parole:
un istituto di suore diventa un dormitorio per ragazze universitarie al costo letto di 200,oo euro mensili (i letti sono 50!). Non vederle pagare l'ICI ed in più ricevere i pacchi alimentari gratuiti del Banco Alimentare è uno dei più grossi scandali perpetrati in nome della carità cristiana. 

Sconti al Vaticano: la Ue processa l' Italia

Le esenzioni fiscali concesse alla Chiesa costano allo Stato italiano un'indagine formale dell'Ue per aiuti di Stato incompatibili con le norme sulla concorrenza. Dopo quattro anni di scambi di informazioni, due archiviazioni e una serie di contro ricorsi, Bruxelles mette in moto «uri indagine approfondita» sui privilegi 
fiscali attribuiti agli enti ecclesiastici in settori in cui "l'azienda Chiesa" (conta circa 100 mila fabbricati) è leader nazionale: ospedali, scuole private, alberghi e altre strutture commerciali che godono di un'esenzione totale dal pagamento dell'Ici e del 50% da quello sull'Ires. Con un risparmio annuo che si avvicina ai due miliardi dì euro e conseguenti vantaggi competitivi rispetto ai concorrenti laici.
La procedura per aiuti di Stato sarà aperta a metà ottobre dalla Commissione europea. La decisione è già stata scritta e al momento è soggetta alle ultime limature. Nell'introduzione del documento redatto dal commissario alla Concorrenza Joaquin Almunia si legge: «Alla luce delle informazioni a disposizione la Commissione non può escludere che le misure costituiscano un aiuto dì Stato e decide quindi di indagare oltre». In poche parole, da scambi di informazioni informali il dossier diventa ufficiale e fa scattare quella procedura di 18 mesi al termine della quale la Ue dovrà emettere un verdetto. La procedura contro lo Stato italiano si articolerà su tre fronti: sotto accusa verranno subito messi il mancato pagamento dell'Ici e l'articolo 149 (4 comma) del Testo unico delle imposte sui redditi che conferisce a vita la qualifica di enti non commerciali a quelli ecclesiastici (non svolgete un'attività di impresa a prescindere e quindi pagate meno tasse). I1 terzo filone riguarda lo sconto del 50% dell'Ires concesso agli enti della Chiesa che operano nella sanità e nell'istruzione: prenderà la forma di una richiesta di informazioni approfondita essendo risalente agli anni '50, prima della nascita della Cee.
L'esenzione totale dall'Ici è stata introdotta nel dicembre 2005, in campagna elettorale, dal governo Berlusconi e quindi rivista da quello Prodi (2006) che messo sotto pressione dalla Ue aveva ristretto i privilegi solo alle attività "non esclusivamente commerciali". Intervento aggirato da ospedali o scuole che al loro interno hanno una piccola cappella. Le norme erano state portate a Bruxelles da una denuncia promossa dal radicale Maurizio Turco e del fiscalista Carlo Pontesilli (segretario di anticlericale.net} assistiti dall'avvocato Alessandro Nucara.
L'allora commissaria Neelie Kroes aveva però archiviato due volte il caso e a Bruxelles in molti raccontano le fortissime pressioni ricevute da entrambe le sponde del Tevere. Di fronte all'ennesima archiviazione i denuncianti si sono rivolti alla Corte di giustizia e i legali dì Bruxelles hanno convinto Almunia ad aprire la scomoda procedura (andare contro il Vaticano e un Paese fondatore non è mai consigliato) per evitare una condanna per inazione da parte dei giudici del Lussemburgo. Condanna difficile da scampare leggendo le "conclusioni preliminari" contenute nel documento dello stesso Almunia: l'esistenza dell'aiuto di Stato è resa chiara dal «minor gettito per l'erario» e la norma viola la concorrenza in quanto i beneficiari degli sconti Ici «sembrano» essere in concorrenza con altri operatori nel settore turistico-alberghiero e della sanità. Insomma, le condizioni dell'esistenza dell'aiuto e della sua incompatibilità con le norme Ue «sembrano essere soddisfatte». Analisi curiosamente opposta a quella contenuta nelle due precedenti archiviazioni (2008 e 2010) quando non c'erano timori di una sconfessione da parte della Corte. Con l'apertura dell'indagine formale le parti avranno un mese per presentare le proprie ragioni. Quindi entro 18 mesi Bruxelles dovrà decidere se assolvere o condannare l'Italia, con conseguente fine dei privilegi e inevitabile rimborso all'erario delle tasse non pagate dagli enti ecclesiastici.

Articolo di Alberto D'Argenio pubblicato su la Repubblica, il 24/09/10, via rassegna stampa radicale 

sabato 25 settembre 2010

Queste due frasi sono le più esilaranti e comiche dell'anno.

Quelle che evidenzio in giallo sono le frasi più esilaranti e comiche dell'anno, alle quali ogni commento è superfluo.
Così come lo è il video pubblicato oggi dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. 

Sulla manifestazione organizzata dal comico Beppe Grillo, questo è il commento dell'ex tutto, Antonio Di Pietro, con la risposta del comico e capopolo genovese.  

Antonio Di Pietro: "Non mi divideranno da Beppe". Di Pietro ha annunciato che trasmetterà sul suo blog la diretta in straming della kermesse sostenendo che quanti voglio dividerlo da "Beppe", "non ci riusciranno". "L'Italia dei Valori appoggerà sempre iniziative come Woodstock 5 Stelle, perché servono a dimostrare che sempre più cittadini italiani stanno storcendo il naso verso Berlusconi ed il suo Governo: stanno aprendo gli occhi! Ci dicono che facciamo troppa opposizione, caro Beppe, ma tu sai bene che è anche troppo poca! Bisogna farne di più, e più faremo opposizione, più riusciremo a risvegliare le coscienze". La risposta di Grillo, a margine della kermesse, : "Non parlo di Di Pietro, è una persona per bene, io lo stimo, lui è un partito politico, noi un movimento".

Perché Di Pietro non fa i nomi di coloro che lo VOGLIONO DIVIDERE DA BEPPE? 

Questo è  il link per vedere il video pubblicato dal presidente della Camera, Gianfranco Fini.
Sono nove minuti e pochi secondi che il presidente della camera si poteva risparmiare, considerato che non ha detto nulla, se non farci sapere la sua impotenza nel conoscere la verità dei comportamenti del cognato, ma anche la conferma che fu il cognato a fargli vendere la casa di MonteCarlo.

giovedì 23 settembre 2010

Vittorio Emanuele: assolto per la vicenda videopoker!

Questa la notizia che capeggiava ieri sulle prime pagine di tutti i giornali della penisola. 
Adesso, naturalmente, ci sarà la sua richiesta di danni con risarcimento milionario, come fece Andreotti, e a pagare sarà,  come sempre, lo Stato, ovvero noi, il popolo bue, anziché chi sbagliò a farlo arrestare con accuse inesistenti per come ha sancito la sentenza di un Giudice.
Chi fu, dei pubblici ministero mediatici, a compiere l'errore?
Il principe finì in carcere su iniziativa del pm Henry John Woodcock.
Perché Woodcock non paga personalmente il suo sbaglio? 
La risposta è più che ovvia, ma occorre un altro post per dettagliarla. Mi limito a riportare l'articolo dell'ANSA sulla vicenda del principe.

E' stato assolto, con la formula "perché il fatto non sussiste" , Vittorio Emanuele di Savoia e con lui gli altri cinque imputati nel processo per la vicenda dei nulla osta legati ai videopoker, caso scoperto nel 2006 dalla magistratura di Potenza tanto che il principe finì in carcere su iniziativa del pm Henry John Woodcock. La sentenza di proscioglimento è stata pronunciata dal gup Marina Finiti.

Secondo l'accusa, a partire dal 2004, i sei avrebbero messo in piedi un'associazione per delinquere "impegnata nel settore del gioco d'azzardo fuori legge, attiva nel 'mercato illegale dei nulla osta' per l'istallazione di videopoker procurati e rilasciati dai Monopoli di Stato attraverso il sistematico ricorso allo strumento della corruzione e del falso".

A sollecitare, nella capitale, il processo per il figlio dell'ultimo Re d'Italia, e per le altre cinque persone, era stato il pm Andrea De Gasperis, oggi procuratore capo di Latina. Una vicenda approdata a Roma dopo che il tribunale di Potenza si spogliò del caso invocando la propria incompetenza territoriale. Accusati oltre a Vittorio Emanuele, erano anche Rocco Migliardi, Nunzio Laganà, suo stretto collaboratore, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca. "L'esito assolutorio di oggi conferma definitivamente - afferma l'avvocato Vincendo Dresda, legale di Bonazza - quanto già statuito nelle archiviazioni precedenti in ordine alle imputazioni connesse e consente di ribadire con maggior forza che gli arresti eseguiti quattro anni fa si fondavano su accuse inconsistenti".



N.B:

Anche se a chiedere il processo a febbraio, quando il fascicolo era stato trasferito da Potenza a Roma per competenza territoriale, era stato il pm Andrea De Gasperis, il “Savoiagate” era stato comunque opera di Henry John Woodcock. 

Ma in aula il pm Giancarlo Amato ha preferito sollecitare l'assoluzione

Se le accuse di Woodcock, soprannominato “il mastino”, erano inconsistenti, quanti tir di faldoni ha collezionato un’inchiesta durata quattro anni, come il Savoiagate e che si conclude con un «il fatto non sussiste»? Quante le persone utilizzate, la carta consumata, i cellulari impegnati e gli uffici occupati. Con Vittorio Emanuele di Savoia erano sotto accusa altre cinque persone: l’imprenditore messinese Rocco Migliardi, Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca. 

Carriere interrotte e reputazioni a pezzi. Chi pagherà? 


[Fonte]

mercoledì 22 settembre 2010

Lo sperpero dei nostri politicanti è, purtroppo, incommensurabile.

La notizia riportata oggi da Repubblica ci lascia, come sempre, l'amore in bocca. Noi, popolo bue, che non sappiamo ribellarci nel leggere queste porcherie. 
E poi, lor signori, i nostri politicanti, si permettono di fare anche i moralisti in momenti così gravi continuando a sperperare il rimborso elettorale che gli italiani non hanno mai voluto, negando con un referendum plebiscitario ogni sovvenzione ai partiti. Ma questa è altra storia.

 
L' affitto d'oro della Camera da 150mila euro al giorno


La scoperta sa di acqua calda. Ma la cifra al dettaglio è una novità e soprattutto ha del clamoroso.
I 630 deputati non costano solo i 14 mila e passa euro al mese tra indennità (ridotta di mille euro, sì, ma solo dal prossimo gennaio), diaria e rimborsi spese. Ma 22 mila euro. Non il doppio ma giù di lì.
E se la denuncia, confermata da tabelle e dati ufficiali, non ha suscitato clamore, è perché avvenuta in una sala di Montecitorio deserta, lunedì pomeriggio, quando solo una manciata di parlamentari si sono presentati in aula per discutere il bilancio interno 2010 della Camera.
Come sempre un affare tra intimi, come sempre quando l'anno in esame sta quasi per terminare. Che il re è nudo lo ha proclamato la radicale Rita Bernardini. E anche i deputati questori, guidati dal pidiellino Francesco Colucci, non hanno potuto fare altro che ammettere la debacle.
«Vi rendete conto o no, colleghi, che tra palazzi e uffici, Montecitorio spende ormai in affitti 54 milioni di euro l'anno, ovvero 147mila euro al giorno?
E sapete questo cosa vuol dire? Che ciascun onorevole, ciascuno di noi, costa 8 mila euro al mese. È evidente che qualsiasi italiano, con quella cifra in mano, si affitterebbe una stanza perfino più grande e comoda rispetto a quelle che concedono.
E soprattutto si pagherebbe anche la segreteria».

Già, la segreteria. Perché invece ai deputati, come ai senatori, viene pagata a parte, con tanto di voce mensile da 4 mila euro. Soldi com'è noto affidati direttamente all'onorevole che poi li gestisce a proprio piacimento. Non l'ennesima trovata dei radicali, stavolta. Quando ieri pomeriggio il bilancio interno è stato approvato, è passato anche l'ordine del giorno del pidiellino napoletano Amedeo Labocetta che così lo ha commentato in aula:
«Con l'approvazione dell'ordine del giorno si potrà finalmente porre fine allo scandalo che riguarda l'affitto degli immobili della Camera e che rende sempre più ricco l'imprenditore Sergio Scarpellini (titolare della società unica titolare della decina dei immobili affittati da Montecitorio, ndr).
Che ha sin qui ricevuto negli anni, dalla presidenza Violante ad oggi, oltre trecento milioni di euro per immobili che valgono al massimo centocinquanta milioni senza che nessuno dei suoi successori, Casini, Bertinotti e Fini, intervenisse per porre fine a questo enorme sperpero di denaro pubblico». La sua tesi è che spendendo meno di un terzo di quanto oggi paga per l'affitto, la Camera potrebbe diventare proprietaria degli immobili. Ma che il vento fosse cambiato lo si è capito quando a prendere la parola è stato il questore (da più legislature) Colucci, anche lui espressione della maggioranza. «Può essere ancora valido il principio a suo tempo approvato secondo cui la Camera deve garantire un ufficio a ciascun deputato?» ha chiesto rivolto ai pochi colleghi in aula. Da qui, la rescissione dei contratti di affitto di palazzo Marini, tanto per cominciare. E a seguire gli altri. Ma per ottenere risparmi a sei zeri, bisognerà attendere anni. Mentre è stato bocciato ieri un altro ordine del giorno firmato Idv che prevedeva la cancellazione, tranchant, del vitalizio degli onorevoli. Per il momento, il bilancio comunque virtuoso 2010 certifica risparmi da 315 milioni di euro consolidati nel periodo 2006 2011, che aumenteranno fino al 2013, quando si sentiranno gli effetti della "sforbiciata" di 1.000 euro dalla busta paga dei deputati, e del 5% sulle retribuzioni dei dipendenti che guadagnano tra 90mila e 150mila euro, fino al 10% degli stipendi sopra i 150mila euro, oltre a un taglio delle spese non vincolate, per un totale di 60 milioni di euro. Nel 2010 la Camera costerà quasi un miliardo di euro, con un tasso di crescita della spesa dell' 1,3%0: il più basso negli ultimi 10 anni. Disco verde ieri anche ai conti di quest'anno del Senato, che il presidente Schifani ha definito "virtuosi". Tutto all'insegna dell'austerity anche lì. Scure sul ventre molle delle pensioni dei dipendenti. La pianta organica di Palazzo Madama sarà ridotta del 20% rispetto al limite massimo previsto, sarà bloccato il turnover per due anni e innalzato il limite per la pensione. Che finora consentiva, come alla Camera, scivoli shock già a 57 anni.

Articolo di Carmelo Lopapa pubblicato su La Repubblica, il 22/09/10

martedì 21 settembre 2010

Se ne accorgono adesso che l'ex tutto Di Pietro predica bene e razzola malissimo.

Riporto quanto pubblicato dalla stampa nazionale sulla fuoruscita dal partito IDV dell'ex tutto Antonio Di Pietro di due suoi parlamentari europei.



Pino Arlacchi il 5 settembre ha fragorosamente annunciato la sua autosospensione dal partito: una decisione, ha spiegato l'eurodeputato dell'Italia dei valori, assunta in diretta polemica contro Antonio Di Pietro e contro "la sua deriva estremista"

L'addio non è rimasto isolato: l'indomani Vincenzo Iovine, un altro parlamentare europeo dell'Idv, ha lasciato il partito denunciando "autoritarismo e assenza ri regole democratiche" al suo interno. Per Iovine il motivo scatenante ha la faccia di un terzo deputato eletto con l'Idv: "Qui a Caserta" ha sostenuto Iovine "il partito è tutto nelle mani dell'onorevole Americo Porfidia, inquisito per fatti di camorra. Antonio di Pietro non può sempre predicare bene e razzolare male". 

Anche per Arlacchi il motivo dell'uscita dal partito, in qualche modo, ha avuto a che fare con un'accusa di mafiosità. Quel motivo è arrivato il 4 settembre, con l'appoggio offerto dall'Idv ai contestatori che avevano cercato di zittire Schifani, invitato a parlare alla festa nazionale del Pd. "Vattene mafioso" gridavano i facinorosi al presidente del Senato, e subito Di Pietro proclamava: "Noi siamo con loro". 
Polemicamente,  Arlacchi  ha dichiarato: "Ai contestatori suggerisco di leggere meno atti giudiziari e più libri. Tonino non capisce che inseguire Beppe Grillo sulla strada dell'estremismo non paga". Assennatamente, ha aggiunto: " Non mi piace questa antimafia intollerante e demagogica, direi primitiva". Ed ha concluso: "Un merito del movimento antimafia italiano è quello di avere sempre rifiutato ogni forma di protesta violenta e incivile; mai nessuna concessione alla violenza, né fisica né verbale".
In realtà, non sempre è stato così. Nel dicembre 1993, in un'intervista e in due articoli pubblicati sulla Repubblica, proprio Arlacchi pronunciò e scrisse parole di fuoco contro Leonardo Sciascia, probabilmente reo ai suoi occhi di avere acceso anni prima la storica (e meritoria) polemica sui "professionisti dell'antimafia": magistrati e intellettuali (soprattutto "progressisti") che facevano veloce carriera solo in virtù del ruolo che ricoprivano.
Arlacchi, che sul suo sito web si descrive come "uno studioso e un uomo pubblico che ha dedicato la sua vita alla lotta per la giustizia", in quel 1993 attaccò Sciascia con violenza inaudita.
Lo aggredì usando parole come pietre.
Accusò i suoi libri di contenere "segni di qualunquismo e codardia civile".
Arrivò a esprimere perfino il "dubbio sulla consistenza e sulla qualità dell'impegno antimafia di Sciascia".
Il titolo dell'articolo? "Stregato dalla mafia".
E a esserne soggiogato sarebbe stato (assurdamente) il grande scrittore di Racalmuto.
Rispetto alla querelle sugli squadristi dipietreschi che oggi gridano a Schifani, c'è una sola differenza: 17 anni fa, contro Arlacchi, Sciascia non poteva nemmeno difendersi. Era morto nel 1989.

di Maurizio Tortorella, Panorama 16/09/2010 pag. 45 

domenica 19 settembre 2010

Milano, la lotteria della pena: invece di 5 anni finisce all'ergastolo

Continuo questa piccola saga dedicata alla gIUSTIZIA italiana.

Va bene che la giustizia è bendata, almeno per come la si rappresenta da quando nel 1494 un'incisione simile illustra un poema di Brant, ma così è un po' troppo: processato come «palo» di un omicidio in una guerra tra bande giovanili, l'imputato 19enne esce da un giudice che boccia il patteggiamento a 5 anni appena accordatogli dal pm, ed entra da un altro giudice che lo condanna invece all'ergastolo su richiesta di un altro pm della stessa Procura. Da 5 anni al carcere a vita: e per lo stesso fatto per il quale agli autori materiali erano stati inflitti 18 anni. Già capo della banda di Latin King denominata New York, David Betancourt Noboa, «reo» il 13 maggio 2009 di aver lanciato in un'intervista a Sky (guarda il video) un appello a cessare la spirale di vendette tra gang, viene accoltellato dai rivali Chicago alle 5 del mattino del 7 giugno all'uscita dalla discoteca «Thini Cafè» a Milano, quando dopo 20 minuti di appostamento gli aggressori gli piantano nella schiena 16 centimetri di lama di un coltello e lo prendono a calci mentre è già a terra rantolante.

Arrestati anche per il ferimento di due rivali, davanti alla giudice Micaela Curami gli imputati chiedono tutti il rito abbreviato tranne il «palo» Adrian Tubetano Pesantes, che dal pm Mario Venditti si vede prestare il consenso a un patteggiamento 5 anni per aberratio delicti, cioè per un omicidio colposo in cui un errore nell'uso dei mezzi d'esecuzione del reato abbia prodotto un evento diverso da quello voluto. Ma il sì del pm non basta, perché la giudice Curami non trova sostenibile la qualificazione giuridica e l'entità della pena, e respinge il patteggiamento: divenuta così incompatibile per legge a giudicare il «palo», prosegue il processo agli autori materiali che condanna a 28 anni e 3 mesi, ridotti a 18 anni e 6 mesi dallo sconto di un terzo dovuto al rito abbreviato, più 100mila euro di risarcimento ai familiari della vittima assistiti dai legali Donata Coluzzi e Daniela Figini.

La «vedetta» viene dunque giudicata da un altro giudice, Andrea Salemme, in un'altra udienza nella quale la Procura è rappresentata da un altro pm, Maurizio Ascione. E qui cambia tutto, perché il nuovo pm propone e il nuovo giudice ravvisa due elementi in più e uno in meno: in più due aggravanti come la premeditazione e il movente futile e abbietto (che la giudice degli altri coimputati non aveva ritenuto configurabili), in meno le attenuanti generiche negate all'imputato (e concesse invece dall'altra giudice a taluni coimputati). Il risultato nell'algebra giuridica è la pena non dell'ergastolo, che lo sconto del rito abbreviato abbasserebbe a 30 anni, ma dell'ergastolo con isolamento, che la riduzione del rito può abbassare solo in ergastolo semplice. In Appello, dove il difensore Veronica Raimondo ora chiede siano riuniti i due processi, si ridiscuterà della premeditazione, che per la prima giudice non c'era perché incompatibile con il concorso in un omicidio a dolo eventuale (cioè con l'accettazione del rischio che nell'aggressione ci scappasse il morto); e che invece c'era per il secondo giudice in virtù del «persistere del programma criminoso» dalla sera precedente fino alle 5 del mattino, con provvista di coltelli e bastoni, appostamento di 20 minuti e aggressione alle spalle di ragazzi in fuga. Allo stesso modo l'Appello dovrà esprimersi sui motivi futili e abbietti del delitto, che il secondo giudice individua nell'«unica regola di reagire alla violenza per la violenza, gratuita manifestazione della capacità di ledere l'altrui integrità fisica», e che la prima giudice riteneva invece dovessero essere contestualizzati (e esclusi nel caso specifico) nei «fattori ambientali, connotazioni culturali e contesto sociale che possono aver condizionato la condotta criminosa». E se la diversità di valutazione tra giudici può essere fisiologica qualora in entrambi i casi adeguatamente motivata, colpisce soprattutto la forbice della difformità di richieste da parte di pm appartenenti al medesimo ufficio di Procura. «Giusta» o meno si vedrà, ma un po' troppo «bendata».

Quando la malagiustizia diventa quotidiana

“Piccole” questioni di "ordinaria" giustizia. Dedicate a quanti non credono che quelle relative alla giustizia siano questioni urgenti: l'emergenza più drammatica di questo paese; emergenza che non riguarda solo la comunità penitenziaria: i quasi settantamila detenuti e le decine di migliaia di agenti di polizia penitenziaria costretti a vivere in condizioni che sono un insulto per un paese civile.
Si tratta anche delle migliaia di processi che giacciono in attesa di definizione, la maggior parte dei quali è fatalmente destinato a morire per prescrizione: come ci ricorda tutti i giorni Marco Pannella, una quotidiana, silenziosa, amnistia di classe; una denegata giustizia di massa, come ci diranno fra qualche mese, anche quest'anno i procuratori generali nelle loro relazioni di apertura dell'anno giudiziario: reati da una parte impuniti, dall'altra processi che non si riescono a celebrare: con persone che non riusciranno a vedersi riconosciuti quei diritti di cui hanno diritto. A rimetterci sono sempre e solo i poveri cristi, perché chi ha denaro e potere per potersi permettere un buon avvocato, o dispone delle amicizie giuste, se la cava sempre. Ci sono tre storie che possono essere prese a paradigma della situazione che abbiamo cercato dì descrivere. Tre storie, come si dice, emblematiche.
Enna, entroterra siciliano. Il procuratore di quella città si chiama Calogero Ferrotti, ha 67 anni, è in magistratura da trenta. Ha chiesto di andare in pensione, il dottor Ferrotti; poi però ha ritirato la richiesta. Lo ha fatto per "senso delle istituzioni". Cosa c'entra il senso delle istituzioni con la pensione? Il fatto è che il dottor Ferrotti è l'unico magistrato della sua città: se lui se ne va, al palazzo di giustizia restano solo gli uscieri. Erano in due, fino a qualche giorno fa, a dividersi i 7mila procedimenti che arrivano ogni anno: trecento circa al mese, dieci a testa ogni giorno, domenica e feste comprese. Il sostituto qualche giorno fa è andato via, ha ottenuto di essere trasferito nelle Marche. Ora il dottor Ferrotti è solo. Una mano la danno i vice-pretori onorari, che però si possono occupare di vicende minori. Il grosso, però, fatto di fermi da convalidare, sequestri, inchieste sulla mafia da coordinare, interrogatori e udienze ricadono sulle sue spalle.
Restiamo in Sicilia, a Barrafranca. 
C'è uno spacciatore, è sotto controllo, gli hanno piazzato microspie e lo incastrano con le intercettazioni. Un cliente dice: "Digli che ti manda Salvatore"; e Salvatore viene messo sotto inchiesta. Solo che non è il Salvatore buono, è un commerciante di giocattoli, sposato con un bimbo, che con la droga non ha mai avuto a che fare. Gli perquisiscono l'abitazione; non trovano nulla. Non importa: c'è quella intercettazione: rinvio a giudizio, interrogatori... passano ben dieci anni. Alla fine completamente prosciolto. Depone a favore anche un carabiniere, e un consulente fonico. Assicura che la voce del Salvatore intercettato non è quella dei Salvatore sotto processo. Ci hanno messo dieci anni per riconoscere l'errore, perché l'incubo avesse fine.
Terza storia, a Palermo: la storia del bandito Salvatore Giuliano ucciso in circostanze mai troppo chiarite a Castelvetrano il 5 luglio del 1950 immagino sia abbastanza nota. Di certo, scriveva in una sua celebre inchiesta Tommaso Besozzi su "l'Europeo", si sa solo che è morto. Morto ammazzato. Perché ormai era scomodo anche ai suoi protettori, perché si ribellava a certe logiche, perché a Cosa Nostra non serviva più. Bene: qualche giorno fa la procura di Palermo ha aperto un fascicolo, per cercare di capire come stanno le cose. Sono state già ascoltate delle persone la cui testimonianza è ritenuta utile, e insomma: sessant'anni dopo, si cerca di capire chi ha ucciso il bandito Giuliano. Come dire: "non è mai troppo tardi". Chissà, forse prima o poi apriranno un fascicolo per accertare se davvero il signor Abele è stato ucciso dal fratello Caino.

Articolo di Valter Vecellio pubblicato su L'Opinione delle Libertà, il 14/09/10

Una questione ridicola la riduzione dello stipendio dei parlamentari

La questione dello stipendio dei parlamentari è fumo. L'arrosto è altrove. 

A conferma della esattezza di tale analisi, arriva la denuncia dei Radicali sugli affitti e servizi, e loro tipologia, pagati dalla Camera dei deputati: 586 milioni di euro (più di mille miliardi delle vecchie lire), in 10 anni. Spese consistenti a fronte delle quali la riduzione dello stipendio dei parlamentari è ridicola. Serve solo ad accontentare gli ingenui. 
Così come analizzato dai radicali per i locali della Camera, si potrebbe fare per tutte le spese pubbliche: si scoprirebbe, per esempio, che per cambiare una lampadina si spendono 17 euro quando al negozio costa 1 euro
Nella sanità, se venissero applicati i criteri della logistica moderna, si potrebbe risparmiare fino al 20 per cento della spesa, vale a dire qualche migliaio di miliardi. Non siamo noi a dimostrarlo, ma esperti tedeschi di logistica e pianificazione aziendale. 
Lo spreco dipenderebbe dai troppi fornitori, dai volumi delle giacenze, da ritardi contabili, eccetera. E se lo dicono i tedeschi, che sono maniaci della organizzazione, non possiamo che crederci. Invece, da noi, si fa fumo. Tanto.

Articolo di P.M. pubblicato su Liberal, il 14/09/10 

mercoledì 15 settembre 2010

Sempre da Giampaolo Pansa...

Prima o poi ci scappa il morto
di Giampaolo Pansa
 
Un mazzo di rose alla petardista di Torino. Dovrebbe mandarlo Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl, per ringraziare la ragazza di aver sbagliato mira nel lanciargli addosso un fumogeno alla festa nazionale del Pd. Se la guerrigliera Rubina Affronte, anni 24, una bella figliola bruna, si fosse rivelata più abile nel getto del petardo, Bonanni, non sarebbe qui a raccontarla. Invece di fargli soltanto un buco nel giubbotto, il proiettile ricevuto in piena faccia lo avrebbe sfigurato per sempre. O magari accoppato.
Non è vero che “un fumogeno non ha mai ucciso nessuno”. A sentire il Corriere della sera del 10 settembre, è questa la sentenza lapidaria e bugiarda emessa dalla stessa Rubina e dai suoi compagni. Tutti insieme formano una boriosa squadra antagonista che, invece di stare in galera da un pezzo, concede interviste ai giornali. Al Corriere hanno spiegato: «Di giacche Bonanni se ne può comprare altre. Non piangiamo certo per un pezzo di stoffa». Sono parole avventate perché non tengono conto di un’ipotesi molto realistica che tra un istante descriverò.

C’è un fatto che stupisce nella sequenza di aggressioni violente attuate fra la fine di agosto e questo inizio di settembre. Sempre per mano di antagonisti rossi contro obiettivi ritenuti forcaioli, reazionari, fascisti e dunque da aggredire. Vogliamo rammentarli? Una festa leghista nella Bergamasca con tre ministri, un dibattito a Como con il senatore Dell’Utri, una seconda missione a Milano sempre contro Dell’Utri, il presidente del Senato Schifani, il vecchio cislino Marini (soltanto fischiato) e infine Bonanni, questi ultimi tre a Torino.

Un ciclo offensivo attuato da gruppi collocati tutti nella sinistra antagonista. Svelti di mano, però lenti di testa. Infatti, a stupire è che non mettano in conto una violenza uguale e contraria. Sono convinti di avere il monopolio dello scontro fisico. E non immaginano la discesa in campo di bande capaci di fare peggio di loro. Lanciando ordigni ben più pesanti dei petardi torinesi. Con guasti irrimediabili al bel faccino di Rubina.

Ecco un’ipotesi molto realistica. Tanti media fanno finta di niente, come gli struzzi. Senza rendersi conto che si rischia l’inizio di un conflitto coperto di sangue, uno scontro già visto in altri momenti della storia italiana. Le condizioni ci sono tutte. Una casta politica screditata. Un governo debole. Una maggioranza e un’opposizione incerte sul da farsi. Una crisi economica che indebolisce i ceti meno protetti. Un’immigrazione che si espande incontrollata. Una criminalità capillare. Infine i famosi giovani senza avvenire, troppo coccolati dalle famiglie, dai media, dai preti.
E mai educati a guardare al proprio futuro con realismo, senza sogni da paese dei balocchi.

Questa è l’Italia del 2010, signori dei partiti. Il Bestiario vi rammenta che siete seduti su una polveriera. E vi consiglia di evitare le prediche fatte in questi giorni. Qui ne citerò due. La prima è di Piero Fassino, uno dei big del Pd. Intervistato dalla Stampa, ha spiegato le aggressioni di Torino così: «Chi ha fischiato lo ha fatto indignato per l’arroganza con cui la destra governa, per l’affarismo di cui ha dato tante prove in questi anni. Quei fischi sono anche la conseguenza dell’imbarbarimento della vita politica, dell’incanaglimento della destra e per capirlo basta guardare che cosa è Il Giornale…».

Insomma è tutta colpa di Silvio Berlusconi e di Vittorio Feltri. Pensavo che il purgatorio di Fassino, messo nell’angolo da Bersani & C, non avrebbe distrutto il suo acume. Mi sbagliavo. Se davvero ha parlato in quel modo, Fassino si è bevuto il cervello. Auguri di pronta guarigione, anche per essere pronto in caso di nuovi assalti.

Ma ben più da Bestiario di lui è un capo partito: Antonio Di Pietro. Subito dopo la prima aggressione contro Dell’Utri a Como, ha lanciato un proclama di guerra: «Iniziamo a zittire quelli come Marcello Dell’Utri in tutte le piazze d’Italia, perché non è lì che dovrebbero stare, ma in galera… I fischi sono segnali positivi. Se personaggi come Dell’Utri vengono cacciati a suon di fischi dalle piazze, forse il risveglio sociale non è poi così lontano. C’è ancora un’Italia pronta a indignarsi».

Ignoro se Di Pietro, un ex magistrato, si sia reso conto delle pericolose conseguenze delle sue parole. Forse no. Perché, come succede spesso ai big della casta, ritiene di essere un Premio Nobel della furbizia. In altri tempi, molti avrebbero provato ribrezzo per un parlamentare di prima fila che incita a compiere reati. Ma oggi non esistono più regole. Il Cavaliere si sarà perduto dietro le escort raccolte a Palazzo Grazioli. Eppure mi sembra meno colpevole di un Di Pietro che spera di vincere a furia di linciaggi. Sarebbe perfetto con il cappuccio razzista del Ku Klux Klan.

Sapevo che la Seconda Repubblica sarebbe affondata nel disonore. Ma non la credevo capace di suicidarsi, eccitando l’estremismo. Aldo Moro venne rapito e ucciso dalle Brigate rosse, però non gli aveva mai strizzato l’occhio, dicendogli: colpite duro noi dei partiti. Oggi assistiamo a questo paradosso stomachevole. Con il risultato che, prima o poi, ci scapperà il morto. Se accadrà, speriamo che gli irresponsabili come Di Pietro non abbiano la faccia di presentarsi ai funerali.

Da il Riformista del 13/09/2010 

giovedì 9 settembre 2010

L'ultimo valzer di Fini

Come sempre riporto quanto scrive Giampaolo Pansa:

L'ultimo valzer di Fini
 
La storia che si conclude questa sera a Mirabello (due sere fa per chi legge, NdB) è vecchia quanto il mondo. È quella dei due galli nello stesso pollaio: non possono convivere e sono condannati a combattersi. Quando nasce il Pdl, sembra esserci un gallo solo: Silvio Berlusconi. Lui si ritiene il padrone assoluto del pollaio, ma non è così. Al suo fianco c’è un altro gallo, Gianfranco Fini. È molto più giovane, di ben diciotto anni. Inoltre è ambizioso, vuole fare carriera e prendere il comando delle galline. Succede sempre in politica. E fin qui la storia non presenta nulla di eccezionale.

La faccenda inizia a complicarsi quando il gallo giovane decide di fare le scarpe al più anziano. Fini comincia ad alzare la cresta e dà il via a un’incessante guerriglia interna, picchiando duro tutti i giorni. Sulle prime Silvio sopporta perché ritiene di essere il più forte. Ma le circostanze esterne, a cominciare dalle crisi dei pollai di paesi vicini, giocano contro di lui. La sua autorità si incrina. Il governo è nei guai. E sull’orizzonte si staglia un incubo: perdere il controllo del pollaio e, di conseguenza, il controllo della maggioranza in Parlamento.

A quel punto accade l’inevitabile. Il gallo ribelle viene espulso dal pollaio, con qualcuno dei suoi gallinacci. La storia potrebbe finire lì, ma c’è un intoppo insuperabile. Il gallo Fini è anche il presidente della Camera e non esiste niente e nessuno che possa privarlo di quel potere. Per questo motivo, la guerra dei due galli si estende all’esterno del pollaio. E diventa al calor bianco quando il gallo messo fuori decide di costituire due nuovi gruppi parlamentari alla Camera e al Senato, che obbediranno soltanto a lui.

Oggi, domenica 5 settembre, la storia arriva a una nuova svolta, forse cruciale. Come avvenne tanti secoli fa a un signore che si chiamava Giulio Cesare, anche Fini si trova di fronte al suo Rubicone. Non l’ha per niente varcato, come invece sostiene Alessandro Campi, il più acuto tra i consiglieri del presidente della Camera. Deve oltrepassarlo, ossia fondare un nuovo partito concorrente del Pdl, o deve aspettare ancora? La maggior parte degli indovini che scrivono sui giornali, sostengono che in quel di Mirabello, un comune in provincia di Ferrara, il gallo ribelle non annuncerà la nascita di una sua parrocchia politica. Si limiterà a spiegare, con più chiarezza del solito, quale nuova destra intende creare e per quali obiettivi.

Andrà davvero così? Confesso di non saperlo. L’unica cosa che credo di sapere è la seguente: questa sera a Mirabello si concluderà la carriera di Fini come leader. Ha due strade davanti a sé, entrambe molto insidiose per lui. La prima è di non fare nessuna mossa definitiva. Il suo giro più stretto sostiene che il partito nascerà soltanto “fra molti mesi”. Nel frattempo, Fini resterà nella trincea odierna. Seduto al vertice di Montecitorio, una poltronissima che non ha alcuna intenzione di lasciare. Circondato e protetto da un piccolo gruppo di fedelissimi in grado di continuare all’infinito la guerriglia contro Berlusconi.

La seconda strada è di fondare il tanto annunciato partito nuovo, con tutti i rischi connessi. Ne elenco alcuni. Una parrocchia politica fatalmente molto piccola. Una struttura organizzativa da inventare. Una ricerca di alleati per niente facile, al di là delle promesse di qualche esponente del Partito democratico. Una strategia complicata da attuare, nello schema bipolare ancora dominante in Italia. Un futuro politico, anche personale, tutto da costruire.

Sarà proprio quest’ultimo il problema dei problemi. A mio parere, Fini è ormai un politico senza futuro, anche se la sua nuova insegna, Futuro e libertà, suggerisce il contrario. Non guiderà mai più un governo di centrodestra, perché in quell’area elettorale verrà sempre ritenuto uno sporco traditore. E nel centrosinistra, un approdo obbligato, sarà appena uno dei tanti partner della Grande Ammucchiata Anticavaliere. Però non il Numero Uno. Insomma, per dirla in soldoni, come leader Fini è arrivato all’ultimo valzer.

Infine, a rendere accidentato il nuovo percorso di Fini rimane la questione della casa di Montecarlo. Venerdì, in un talk show della 7, Italo Bocchino, capo di uno dei pensatoi finiani, Generazione Italia, ha sostenuto con granitica sicurezza che il suo gruppo «non ha nessun nervo scoperto». E attende con tranquillità l’inchiesta giudiziaria su quel maledetto appartamento. Ma come i politici fanno spesso, il pasdaran Bocchino ha dimenticato l’origine del terribile pasticcio.

Questa origine è molto chiara. La casa in ballo era un bene di An, ricevuto in eredità. Su diretto incarico di Fini, il tesoriere del partito l’ha venduta a un prezzo stracciato, e non a un privato cittadino o a una società immobiliare, come sarebbe stato normale. No, l’ha ceduta a una società off-shore collocata in un paradiso fiscale, nei Caraibi. Questa l’ha ceduta a un’altra società dello stesso tipo, anch’essa al riparo dal fisco. Che l’ha poi data in affitto al cognato di Fini, Giancarlo Tulliani.

Più di un quotidiano, a cominciare dal Giornale e da Libero, hanno chiesto e chiedono a Fini di spiegare questo percorso anomalo. L’ha domandato persino Repubblica, testata mai ostile verso gli avversari di Berlusconi. Ma Fini non ha mai risposto. Lo farà stasera a Mirabello? Mi piacerebbe, però penso che non lo farà. Mia nonna Caterina diceva: se hai la rogna, non grattarti e spera che ti passi. Chissà se la nonna di Fini ha dato al nipote il medesimo consiglio.

[FONTE

 

La prova che Fini è smemorato!

Riporto quanto pubblicato oggi senza alcun commento, la notizia è più che bastante.

Quando Fini disse: "La Pivetti fa politica, lasci"
di Paolo Bracalini


Dopo il ribaltone che rovesciò Berlusconi l'allora leader di An insorse contro l'esponente leghista, presidente della Camera, per una frase pronunciata alla festa del Carroccio: "Così dimostra di non essere super partes"

«La terza carica dello Stato deve es­sere super partes, non può dire “ora non parlo come presidente della Ca­mera” » e dire quel che le pare, so­prattutto se poi «è stata eletta da co­loro che ritiene irresponsabili, tradi­tori e persino attentatori della demo­crazia », e se poi esprime «giudizi net­ti e così polemici senza mettere in dubbio il fatto che parla come singo­lo parlamentare o privato cittadino e non più come presidente della Ca­mera ». Insomma una terza carica del genere, se proprio vuole fare po­litica e dare giudizi sugli altri leader, forse dovrebbe «prendere in consi­derazione anche l’ipotesi di rimettere il manda­to ». Ma chi parla qui? Brunet­ta? Cicchitto? Bossi? Capezzo­ne? Nessuno di loro, è Gian­franco Fini, anzi era, perché il tempo è galantuomo ma an­che malandrino quando si cer­ca una linea di coerenza nelle parabole di certi politici. Per catapultare Fini in una si­tuazione diametralmente op­posta a quella di oggi, con le parti esattamente invertite, bi­sogna tornare indietro di quin­dici anni, all’inizio del 1995. Si è appena consumato il «cosid­detto » ribaltone della Lega, il primo governo Berlusconi è fi­nit­o con le dimissioni del Cava­liere, un nuovo governicchio di transizione, guidato da Lam­berto Dini, è alle porte. Nel mentre, sulla poltrona più alta di Montecitorio siede ancora una deputata della vecchia maggioranza, la leghista Irene Pivetti, che lì rimarrà fino alle successive elezioni del ’96. Qualcuno però, in quel febbra­io, chiede con forza le sue di­missioni, dopo un discorso molto partigiano della Pivetti a una festa della Lega a Milano. La fotocopia di quel che sta ac­cadendo in questi giorni, con lo strappo di Fini a Mirabello e il suo discorso da leader politi­co, contro la maggioranza che lo ha eletto, ma sempre da pre­sidente «super partes» della Camera. Anche quella volta, molti di coloro che chiedono le dimis­sioni di Fini adesso invocaro­no l’incompatibilità dell’allo­ra presidente della Camera in quel ruolo di garanzia. France­sco Storace, a quel tempo por­tavoce di An, spiegò come fos­se «gravissimo che la terza cari­ca dello Stato si agitasse come un capo di partito», Forza Ita­lia chiese un atto di responsabi­lità alla Pivetti, un avvocato mi­l­anese addirittura la denunciò per «tradimento del giuramen­to prestato». Tra i sostenitori delle dimissioni - scherzi del tempo - c’era anche Fini, che ora liquida come analfabeti­smo costituzionale i rilievi sul­la sua incompatibilità, da lea­der di un nuovo partito, con quella carica. Fu proprio Fini, in una lunga nota, a spiegare perché un pre­sidente della Camera part ti­me è inaccettabile, soprattutto dopo un’esternazione molto polemica su un partito politi­co (la Pivetti quella volta criti­cò Forza Italia, così come l’al­tro giorno Fini ha dichiarato morto il Pdl attaccandone il leader). «Dovrebbe rendersi conto - ammonì Fini - che il giorno dopo aver detto cose co­sì incredibili e gravi, torna ad essere presidente della Came­ra, determinando un clima che non è in sintonia con la se­reni­tà che tutti reputano neces­saria ». Anche perché, ad aggra­vare l’anomalia, c’era il fatto che l’attacco della Pivetti era ri­volto a quella stessa maggio­ranza che l’aveva eletta presi­dente della Camera. Curiosa­mente, l’identico paradosso che ora investe Gianfranco Fi­ni, che pure - adesso - non ci trova nulla di anomalo. In quindici anni cambiano mol­te cose, in certi casi anche le idee. Poi, a Fini, l’indignazio­ne per quello sfregio al ruolo super partes di presidente del­la Camera passò. Alla fine, do­po aver sollecitato le dimissio­ni, Fini adottò per quell’ano­malia la battuta che fece Sgar­bi: «È come se il Papa, per anda­re a donne, si spogliasse del suo ruolo spiegando che c'era andato come Wojtyla e non co­me pontefice ». Un paradosso, come quello di un presidente della Camera che fa il capopar­tito contro la maggioranza che l’ha messo lì.Comunque,la Pi­vetti restò incollata lì per un al­tro annetto, fino allo sciogli­mento delle Camere. Lo stesso progetto, tanto per fare l’en plein delle analogie, che ha in mente Fini.

domenica 5 settembre 2010

Lo smemorato di Mirabello ha parlato!

Gianfranco Fini, terza carica dello Stato, ha detto e non detto. Ha puntualizzato ma non  deciso cosa farà da grande. Continuerà la sua personale guerra di logoramento al Governo e a Berlusconi in  particolare con la speranza che non si vada a votare prima della fine della legislatura e se, in tale attesa, qualche giudice di parte non condanni il Berlusca o, peggio, se qualche acciacco non  porti il Berlusca via dalla scena senza tanti preamboli. 
Lui aspetta, è giovane. Cucinerà Berlusconi ogni giorno a fuoco lento con l'aiuto dell'intellighezia di sinistra. 
Ma gli italiani glielo permetteranno? 
Fini ha detto:  «La mia espulsione un atto degno del peggiore stalinismo. «Governare non vuol dire comandare, bisogna rispettare le opinioni altrui e le istituzioni, a iniziare dal Colle». 
Ma quando era segretario di AN lasciava spazio alle opinioni altrui?

Fini risponda alle due domande di Donna Assunta Almirante: "

"Io, in questo momento, da Fini voglio soltanto due cose. La prima è che si assuma le responsabilità della faccenda di Montecarlo, salvando l'onore di due galantuomini come Pontone e La Morte, che hanno soltanto obbedito ai suoi ordini. E poi voglio che sia fatta chiarezza su tutti i beni che appartenevano al Movimento sociale. Voglio sapere che fine hanno fatto i cento miliardi di lire che c'erano in cassa nel 1988, quando morì Almirante. Perché può darsi pure che Gianfranco sia stato messo in difficoltà dai nuovi parenti. Ma ha un'età, ormai è grandicello, deve sapersi assumere le proprie responsabilità."

Il  direttore di Libero ha fatto bene a mettere nell'home page questo video:
Clicca per vederlo
A sinistra e sotto la nuova compagna di Fini, Elisabetta Tulliani, che si mostra compiaciuta per quello che sta dicendo il suo ultimo uomo dal palco di Mirabello. 

 

 Che non sia lei la ghost writer della traccia del discorso di Fini.