sabato 31 luglio 2010

Nessuno avrebbe mai immaginato che la metamorfosi dell'ex fascista Fini giungesse a tal punto. Adesso va strombazzando che Berlusconi non è uomo d'istituzione, ma d'azienda, dimenticando quello che lui è stato, ed è tuttora. Il "padrone" di AN, non il segretario superpartes che avrebbe dovuto fare gli interessi degli iscritti. Basta leggere la storiaccia dell'appartamento di Monte Carlo, lasciato in eredità al partito AN dalla contessa Colleoni, che il novello moralista ha dato in uso (o forse venduto, a che prezzo?) a Giancarlo Tulliani,  fratello della sua attuale convivente.

Gianfranco Fini Illuso da Bocchino esploso su Granata

È finita male, inutile nasconderselo, il PdL ne uscirà pure rotto e interrotto e il ricambio del vertice del quale si sente infinitamente il bisogno sarà ritardato in nome dell'arroccamento, ma Gianfranco Fini più che un leader dimezzato rischia di essere un leader vanificato e probabilmente questo non se lo meritava nonostante i marchiani errori, le grossolane sottovalutazioni, gli imperdonabili snobismi dei quali in prima persona si è reso responsabile, primo l'aver voluto la presidenza della Camera per usarla come trincea avanzata, cosa che non si fa, non ultimo il moralismo un tanto al chilo, quando un appartamento a Montecarlo e vistose raccomandazioni in Rai si potevano rimproverare anche a lui. Dico ugualmente che non si meritava di finire travolto dai pasdaran perché alcune delle questioni delicate che negli ultimi anni è andato ponendo sono autentiche per un partito che nacque liberale e tale non è più, perché tra i finiani, come ormai si usa, chiamarli, ci sono fior di galantuomini e bravi politici, ne cito due, Silvano Moffa e Nino Lo Presti, il quale ieri ha ottenuto all'elezione dei membri laici del Csm cento voti alla, faccia degli anatemi di Ignazio La Russa, e se avesse ascoltato loro il presidente della Camera, invece dei bulli da strapazzo, oggi non si troverebbe nella situazione in cui si trova. Invece ha ascoltato non tanto Italo Bocchino, che, come si dice proprio a Napoli, non mette e non toglie, ma. Briguglio e Granata, quest'ultimo personaggio veramente inquietante, e alcuni futuristi della domenica come Filippo Rossi con parte dell'allegra banda di Fare Futuro, del genere "che ce frega a noi, più si fa casino, meglio è", che va, bene per una rivista scapigliata, non per un movimento politico. Così le cose sagge che andava dicendo sulla partecipazione delle donne alla vita politica, sul diritto delle stesse ad essere scelte per merito, a scegliere di abortire secondo legge di Stato strasancita da referendum, i distinguo avanzati sulla fecondazione artificiale, sul testamento biologico, insomma l'intero corpo di obiezioni etico sociali in nome dell'individuo che non andrebbero lasciate mai solo a radicali e vendoliani, che a un grande partito di destra dovrebbero appartenere, si sono infrante in una guerricciola per bande, e la banda piccola di solito non ce la fa, inutile che sfidi il capo strizzando l'occhio a quello avversario. Infine Gianfranco Fini ha spiaggiato, proprio come un animale perduto nel mare grande, sul giustizialismo, sulle alleanze volgari con certa magistratura, sulla legalità che fa da schermo alle ansie forcaiole, ai pruriti giustizialisti. Non una novità per un ex missino, ma una vera stranezza per un neo liberale. Come pensava Fini di conciliare quote rosa e antimafia professionale, i richiami sugli immigrati ai furori dipietristi? Come ha potuto dare udienza a un personaggio oscuro nella storia, chiarissimo nella traiettoria, come Fabio Granata, uno che le ha fatte tutte sbagliate, dal terrorismo ecologista alla passione per Leoluca Orlando? Davvero tra cosiddetti poteri forti e magistratura d'assalto ha creduto che gli fosse stata costruita una scorciatoia ad hoc verso il potere a costo zero? Non la vedo. Soprattutto come ha potuto pensare che questa deriva giustizialista, e le frasi sull'avvisato di indagine che deve lasciare gli incarichi, non suonassero come un ultimatum per Silvio Berlusconi? Si è visto. Fatto sta che è inutile, mi sbaglierò ma non credo, che ora i finiani gonfino i muscoli e si contino tra una Camera esigua e un Senato inesistente, percentuali lilliput nel Paese. Alcuni di loro tiravano le monetino al Raphael contro uno statista straordinario che li aveva tirati fuori dalle fogne in epoca maleodorante, questa fu la loro gratitudine. Oggi mi auguro che magre soddisfazioni simili non gli siano offerte, una volta all'Italia è bastata.

"Articolo di Maria Giovanna Maglie pubblicato su da Libero, il 30/07/10

[Fonte


Sul personaggio Fabio Granata è utile segnalare quanto scrive sul suo blog:

"Per questa nostra incompatibilità in Parlamento si apre oggi una nuova pagina della storia repubblicana attraverso la formazione di gruppi parlamentari che si sentono ancora fortemente incompatibili con una visione proprietaria della politica e ne hanno invece una legata al bene comune, alla legalità repubblicana, al rispetto dei diritti civili, alla coesione sociale e al grande patrimonio dell’Unità nazionale."

 Chiediamo all'ancora onorevole siciliano (ci auguriamo per poco) se ha letto la storiaccia dell'appartamento di Monte Carlo gestita dal suo capo-corrente-partito,  Fini. Non è questo modo di fare una visione proprietaria della politica?
Ma è così che va la vita. Se ha fare una scorrettezza o un'irregolarità o un reato è un amico, si chiudono gli occhi (come anche nel caso del governatore delle Sicilia). Se, invece, è un nemico, gli occhi si spalancano e si diventa moralisti all'ultimo sangue. 

giovedì 29 luglio 2010

La scoperta dell'acqua calda!

Il direttore de Il Giornale ha scoperto l'acqua calda, cioè che i nostri politicanti fanno politica esclusivamente per interesse personale.
L'ultima scoperta (si fa per dire) è quella che anche il presidente della camera dei deputati, l'ex fascista Gianfranco Fini, non sfugge alla regola generale. 
Pubblico i due articoli che fanno luce sulla vicenda del grande giustizialista-moralizzatore in cravatta rosa.

"Lascio la casa (di MonteCarlo) ad An" per sostenere la battaglia del partito (AN),   disse la Contessa Colleoni nel suo testamento.
E Fini ci mette il "cognato", Giancarlo Tulliani, fratello della sua convivente.
La contessa Colleoni regalò a Gianfranco l'appartamento monegasco per sostenere la "battaglia del partito". Ora ci vive il fratello della Tulliani. La casa dei misteri faceva gola a tutta Monaco. Tulliani rinchiuso a finestre sprangate minaccia querele. Storace: "Faremo causa"

Da Monterotondo a Montecarlo. Il gran premio immobiliare Colleoni-Fini-Tulliani durato undici anni, corso a milletrecento chilometri di distanza, accende il verde ai semafori nel lontano 1999 allorché la contessa Anna Maria Colleoni, discendente del celebre capitano di ventura, il 12 giugno muore nella sua tenuta di Monterotondo, a venti chilometri da Roma. Dieci giorni dopo la dipartita, aperto il testamento, si scopre che Alleanza nazionale erediterà beni per due miliardi e mezzo di lire, ivi compreso l'appartamento del Principato di Monaco attualmente occupato da Giancarlo Tulliani, «cognato» di Gianfranco Fini.

La città di Monterotondo dalla fine della guerra è sempre stata amministrata dalla sinistra, da cui il soprannome di Stalingrado del Centro Italia. È qui che la nobildonna coltivava i suoi interessi e l'amore, sviscerato, per la politica. Da sempre fervente fascista, figlia di fascisti, Anna Maria Colleoni non faceva mistero delle sue simpatie destrorse tant'è che gli esponenti locali di Alleanza nazionale la adottarono e ne difesero le istanze nei confronti del Comune contro il quale, di tanto in tanto, la signora si confrontava per problemi di confinato, vincoli e di potenziali espropri della sua terra ricca di albicocche. Tanto era il trasporto per la fiamma di Giorgio Almirante che quando, a metà degli anni '90, le si prospettò l'occasione di incontrare a tu per tu Gianfranco Fini in una saletta riservata del ristorante Villa Ramarini prenotato per festeggiare l'elezione dell'allora consigliere comunale Roberto Buonasorte (oggi alla Regione con la Destra di Storace) non si fece pregare due volte.
Scortata dal futuro consigliere Marco Di Andrea, la contessa andò incontro a colui che riteneva il degno erede della sua antica fede e stringendogli le mani gli sussurrò che quando sarebbe morta il partito avrebbe ereditato ogni suo avere: «Caro Gianfra', se te comporti bene quando me moro te lascio tutto. Da camerata a camerata». Gianfranco Fini, molto carinamente, fece gli scongiuri. «Stia serena, camperà cent'anni». Lei ricambiò l'augurio mantenendo gli impegni. A dicembre del 1997 prese carta e penna e stilò un testamento olografo, che poi recapitò, via pony express, al notaio Giuseppa Spadaro. Un unico foglio, ventidue righe scritte personalmente a penna.

Chissà, forse immaginando quel che Fini avrebbe combinato nel tempo, aggiunse una postilla tutta da leggere. «Io sottoscritta Anna Maria Colleoni dichiaro liberamente di nominare erede universale dei beni mobili e immobili che mi appartengono al momento del mio decesso, il partito Alleanza nazionale nella persona del suo attuale Presidente on. Gianfranco Fini come contributo per la buona battaglia».

La «buona battaglia» a cui la contessa si riferiva sicuramente nel 1997, e fors'anche nel 1999, probabilmente non era quella che Fini sta ancora finendo di combattere. Ne sono convinti i vecchi camerati di Monterotondo che alla Colleoni intestarono il circolo di An in via Fratelli Bandiera (ex Santucci), in gran parte transitati con Storace, il resto confluiti nel Pdl. Talmente convinti che, alla luce di quel che sta emergendo in queste ore, rileggendo attentamente le volontà della nobildonna sta maturando l'idea di portare in tribunale l'erede universale.

Come fare? Gli ex aennini Marco Di Andrea e Roberto Buonasorte sono i capofila di questa «rivolta» anche perché si sentono traditi dal loro vecchio partito che mai si preoccupò di consultare i politici locali sull'opportunità di utilizzare in loco parte dei proventi delle vendite degli immobili ereditati per realizzare opere sociali a cui la stessa contessa teneva tanto. «Un dato è certo. Tra il ’97 e il '99 la Colleoni donò tutto al partito, e a Fini in subordine, in nome della buona battaglia. Una buona battaglia che Fini ha condotto sino ai giorni della morte della contessa, tant'è che la signora non ha mai revocato il testamento del ‘97. Dai primi anni 2000, però, Fini ha cambiato pelle a partire da certe, plateali, prese di distanza di valori storici della destra». Ecco il punto. Il punto della «buona battaglia», sul piano giuridico, sarebbe un «onere» ineludibile, interpretabile ai sensi dell'articolo 647 del Codice civile che testé recita: «Onere: tanto all'istituzione di erede (in questo caso il partito, ndr) quanto al legato può essere apposto un onere». Come dire: io ti lascio questo patrimonio e tu lo devi utilizzare per la «buona battaglia» voluta dalla contessa. «L'onere impossibile (…) rende tuttavia nulla la disposizione se ne ha costituito il solo motivo determinante», e in questo caso la «buona battaglia» lo è.

Ma c'è di più. Di Andrea e Buonasorte fanno notare come l'articolo successivo, il 648, offre un'indicazione importante su come avviare la pratica per l'annullamento dell'atto. «Leggete bene. Si dice che “per l'adempimento dell'onere può adempiere qualsiasi interessato”, dunque qualunque iscritto di An può rivolgersi alla magistratura. E si legge anche che nel caso di inadempimento dell'onere, quindi laddove tu Fini non fai la buona battaglia che stava a cuore alla contessa, l'autorità giudiziaria, e dunque il tribunale, può pronunziare la risoluzione della disposizione testamentaria. Che vuol dire? Che se ti levo la qualifica di erede, tu Fini o tu partito, mi ridai tutto indietro». Il ragionamento, a sentir loro, si chiude a meraviglia: «Letto il codice, letta la storia politica di Fini ai giorni nostri, letto l'articolo del Giornale sulla casa di Montecarlo, qualunque iscritto ad Alleanza nazionale può recarsi in tribunale e dire: siamo venuti a conoscenza di questa problematica, chiediamo formalmente che tutti i beni della contessa Colleoni vengano tolti al partito», con ovvia eccezione per alcuni legati che la contessa ha riservato ad alcuni nipoti non avendo avuto figli.

«Rispetto a tutto questo enorme patrimonio – attacca Di Andrea – avremmo potuto piantare una grana infinita ma abbiamo voluto evitare per rispetto del partito di cui facevamo parte. E che anziché prendere tutto e scappar via avrebbe potuto lasciare qualche briciola al circolo monterotondese di An. L'intera gestione dell'eredità della contessa non c'è piaciuta. Siamo rimasti molto male». Buonasorte incalza: «Al senatore Pontone, l'amministratore dei beni di An, dicemmo che non era nostra intenzione speculare su questa eredità ma che almeno ci dessero una giusta riconoscenza delle grandi battaglie combattute in questo paese. Non volevamo toccare palla, non ci interessava lucrare. Tant'è che quanto il senatore Pontone ci rispose che il partito aveva bisogno di fare cassa per le elezioni e quindi doveva vendere al miglior offerente, alzammo le braccia rassegnati». S'intromette Di Andrea: «Va poi tenuto conto che sul terreno della contessa noi presentammo un progetto per una edilizia che andasse un po' incontro al sociale, contemplasse pure un dopolavoro e un parco giochi per bambini intestato alla contessa. Il fondo fu venduto a un costruttore della zona. Niente di quel poco che chiedevamo ci è stato dato».

di Gian Marco Chiocci 

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La redazione de Il Giornale ha tentato di sapere qualcosa di più telefonando agli amministratori di AN, il vecchio partito di Fini. Questo il resoconto quasi surreale!

"Quell'immobile venne venduto due o tre anni fa: non si sa a chi..."

Onorevole Donato Lamorte. Relativamente all'eredità Colleoni cosa sa?
«So che è stata donata al partito una eredità da parte di una signora».
E poi?
«Per quanto è di mia conoscenza una parte è stata venduta, altra parte, ora… non saprei dirle».
Chi potrebbe saperlo?
«Sicuramente il senatore Pontone che è l'amministratore ne sa più di me».
Sa se è stata venduta la parte di eredità che fa riferimento all'appartamento di Montecarlo?
«Ho seguito questa cosa all'inizio, poi non più. Parli con Pontone, vedrà che lui saprà essere esaustivo».
(Chiamiamo il senatore Francesco Pontone)
Senatore Pontone, qui è «il Giornale». Si ricorda la vicenda legata all'eredità della contessa Anna Maria Colleoni?
«La ricordo benissimo, trattai io quella cosa lì».
L'appartamento a Montecarlo fu venduto? A chi?
«Sì, fu venduto, ma non ricordo a chi».
Non rammenta se era un privato o una società?
«Sinceramente no. Per natura sono smemorato».
Almeno il periodo in cui è stato venduto lo ricorda?
«Due o tre anni fa».
Senatore, provi a fare mente locale sull'acquisto dell'immobile di Montecarlo. Si trattava di una società o di una persona fisica?
«Non saprei dire…».
Non ricorda se era una Ltd, una società off shore, se era straniera…
«Ha importanza sapere se dietro la società che ha acquistato la casa ci sono tedeschi, inglesi o neozelandesi?».
Potrebbe averla, poiché questo appartamento, oggi, è occupato da un certo Giancarlo Tulliani.
«E chi sarebbe?».
Il fratello della compagna del presidente Fini.
«Ah, certo. A questa domanda non so dare una risposta e non saprei dargliela nemmeno per altri giorni qualora me lo chiedesse di nuovo. È una cosa che mi giunge nuova».
Non può cercare nelle carte in ufficio, nei prossimi giorni potrà dirci qualcosa?
«Non credo, è passato tanto tempo, non lo so… Vediamo».

GMC

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mercoledì 28 luglio 2010

Secondo post su Fini e le sue truppe sfasciavolontà degli elettori del PDL



Meglio un bel duetto con l'ex tutto

Prevedo un ticket fasciocomunista Gianfranco-Nichi

  

Alla fine avrà avuto ragione Antonio Pennacchi, l'autore di "Canale Mussolini", il bel romanzo che ha vinto lo Strega. L'hanno sempre definito uno scrittore fasciocomunista. O forse è lui stesso a essersi dato quell'insegna. In tanti devono aver pensato: il fasciocomunismo non esiste. È una contraddizione in termini. È un ossimoro, l'accostamento di due concetti contrari. Tutto sbagliato. L'ossimoro eccolo qua. Ha il volto abbronzato e le cravatte rosa di Gianfranco Fini: il primo, vero fasciocomunista d'Italia. Gli scribi che frugano nella politica, a cominciare dal sottoscritto, debbono essere grati al presidente della Camera. Lui è la prova vivente che le vicende dei partiti possono essere appassionanti. Tanti anni fa, un grande direttore come Gaetano Afeltra mi disse: «Tu sei un cronista politico che se la cava sempre. E sai perché? Rendi giallo l'ovvio». In quel modo, Afeltra riconosceva i miei sforzi per rendere avvincenti le cronache di un congresso di partito, di una crisi di governo, di un litigio fra correnti. Se oggi stessi ancora sul fronte del giornalismo d'intervento, sarei disoccupato. Nessuna ricerca del giallo potrebbe essere all'altezza dei colpi di scena che Fini prepara per noi. Da molti mesi, sulle prime pagine dei quotidiani, campeggia una mossa, una trovata, un exploit del presidente della Camera. Tanti direttori si augurano che l'ex capo di Alleanza nazionale rinunci alle ferie d'agosto. Senza di lui sarebbe impossibile offrire ai lettori la sorpresa, la scossa, l'imprevisto che aiuta la vendita della carta stampata, ne attenua i passivi, allontana lo spettro dei licenziamenti. Ma la sorpresa più grande deve ancora venire. E non la vedremo domani, né dopodomani. La mutazione di Fini ha ritmi veloci, però non fulminei. Chi lo conosce da vicino, lo descrive come un ottimo tattico, più che uno stratega o un ideologo. Sa che bisogna marciare con un ritmo deciso, ma senza correre a rompicollo. E sa altrettanto bene che, cammin facendo, il traguardo si precisa. Sino a diventare sempre più nitido quanto più è vicino. Me ne sono accorto nel marzo dell'anno scorso, quando scrissi un lungo ritratto di Fini. A cominciare dai primi passi, quelli che a molti sembrarono azzardati: il distacco dal mondo fascista in cui pure era cresciuto. Sto parlando del fascismo condotto sino al suo tragico epilogo: la Repubblica sociale italiana e la sconfitta nella guerra civile. Il padre di Fini, Argenio, classe 1923, era stato un volontario della Divisione "San Marco". Un marò del generale Farina, il comandante di una delle quattro grandi unità addestrate in Germania e poi condotte in Italia per combattere i partigiani. Argenio Fini era scampato alle mattanze dei vincitori comunisti nel dopoguerra. Chi non aveva avuto la stessa fortuna era stato un suo cugino. Quel parente si chiamava Gianfranco Milani e aveva vestito la divisa della Guardia nazionale repubblicana a Bologna. Il 26 aprile 1945 venne sequestrato dai partigiani rossi a Monghidoro, un comune della provincia. Da allora sparì nel nulla, come tanti altri militi fascisti. Aveva compiuto vent'anni da pochi giorni. E quando il futuro presidente della Camera nacque a Bologna, il 3 gennaio 1952, venne chiamato Gianfranco in memoria di quel ragazzo assassinato. Senza interrogatori, senza processo, senza niente di niente. Le mie ricerche sulla guerra civile mi hanno insegnato che, nel mondo dei vinti, non succede quasi mai che le vicende famigliari vengano annullate. E una costante che vale non soltanto per i genitori, i fratelli e le mogli di chi ha perso la vita, ma anche peri figli, i nipoti, i pronipoti. Il sangue versato e il silenzio imposto dai vincitori rendono la memoria uno scudo infrangibile. I vinti non dimenticano. E quasi mai cambiano campo, anche quando arrivano a pensare che i loro morti abbiano sofferto per una causa sbagliata. Fini non appartiene a questa etnia. Da leader politico ha imparato presto a conoscere due verità: il cinismo è una virtù e la gratitudine un peccato. Lo conferma il suo rapporto con Silvio Berlusconi, l'uomo che lo aveva sdoganato, avviandolo sulla strada del successo. Anche qui siamo nella preistoria del presidente della Camera. E vale la pena di spendere qualche riga su quanto accadde la bellezza di diciassette anni fa. Era il martedì 23 novembre 1993. Due giorni prima, a Roma si era votato per il sindaco. Fini, in quel tempo leader del Msi, aveva raccolto 6l9mila voti, il 35,8 per cento, un record per il suo partito. Ma il candidato di centro-sinistra, Francesco Rutelli, l'aveva superato, sia pure di poco: 684mila voti, il 39,6 per cento. Dunque si doveva andare al ballottaggio. Quel martedì arrivò a Casalecchio di Reno, siamo sempre nella provincia rossa di Bologna, un signore che di nome faceva Silvio Berlusconi. Doveva inaugurare un supermercato, roba sua. Il Cavaliere aveva compiuto da poco i 57 anni e vantava un fisico asciutto, non inquartato come oggi. Un cronista gli chiese per chi avrebbe votato al ballottaggio fra Rutelli e Fini. Silvio si aspettava la domanda. Non per nulla, erano presenti i tre telegiornali della Fininvest e un pattuglione di giornalisti. Senza esitare rispose: «Se abitassi a Roma voterei per Fini. Il segretario del Msi rappresenta bene i valori del gruppo moderato nei quali io credo: il libero mercato, la libera iniziativa, la libertà d'impresa. Insomma, il liberismo». Subito dopo, Silvio preannunciò la propria discesa nel campo della politica: «Se le forze moderate non si uniranno, dovrò bere io l'amaro calice». Cominciò a Casalecchio di Reno la seconda vita politica di Fini. Sempre meno fascista, sempre più antifascista. Grazie a una sequenza incalzante di strappi successivi che ho già rievocato più volte, anche per i lettori di "Libero". Li ho visti rammentati ieri sul "Sole 24 Ore" da un eccellente storico, Miguel Gutor. Lui osserva, con ragione, che Fini ha cannibalizzato più di un'idea guida della cultura progressista italiana. 
Gli solletica il cervello?
Dall'immigrazione all'integrazione degli extracomunitari,dall'antifascismo alla Resistenza. Nel marzo 2009, quando pubblicai il lungo ritratto di Fini, lui mi cercò al telefono per farmi un rilievo cortese. Allora gli dissi: «Non capisco, presidente, dove stia andando, strappo dopo strappo». Fini mi diede una risposta che mi lasciò di stucco: «Le confesso che non lo so neppure io». Ma adesso forse lo sa: verso un approdo fasciocomunista. La mia è soltanto un'ipotesi, però non credo sia campata in aria. Proviamo a fare due più due. Neppure un tattico astuto come lui, potrà restare a lungo fra i rottami del PdL. Prima o poi, volente o nolente, sarà costretto ad andarsene. La rottura sarà traumatica, ci ha avvertito il suo aedo del momento, Italo Bocchino. Da dove verrà il trauma? Non credo dalla fondazione di un altro partitino, sarebbe un misero traguardo. Fini ha ambizioni assai più alte: guidare la coalizione che cercherà di battere il Cavaliere, nel caso di elezioni anticipate. Il nuovo blocco non sarà più di centrosinistra, ma avrà un'altra insegna che richiami la legalità, la giustizia, la questione morale. Tuttavia le truppe saranno soprattutto quelle del Partito democratico. E forse anche più rosse. Velo immaginate un ticket Fini-Vendola? Io sì. Sarà il trionfo del fasciocomunismo, alla faccia degli orfani della Balena democristiana. Che tuttavia ci staranno, nella speranza di liquidare il Caimano. Del resto, perché stupirsene? Anche in politica, spesso gli estremi si toccano. E a chi non è d'accordo non resterà che toccare un altro aggeggio: un robusto ferro di cavallo.


Articolo di Giampaolo Pansa pubblicato su da Libero, il 28/07/10

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Primo di due post sulla querelle di Fini e delle sue truppe sfasciavolontà elettori

Fini ha dimenticato la storia d'Italia

Fini convertito alla legalità. Ma di cosa parla il Presidente della Camera dei Deputati? Parla di legalità, una conversione al nuovo che avanza, una inutile contumelia sull'ovvio. Sfugge all'acuto Fini che si parla di legalità da prima della seconda guerra mondiale. Ne parlava anche il socialista Mussolini. Fini sposa la bandiera dei radicali di Pannella, con la differenza che Pannella la legalità la pratica nei fatti, nei comportamenti, nelle azioni politiche. La legalità di Pannella, con tutti i distinguo possibili, è scritta nel DNA dell'uomo politico, che con coraggio, senza opportunismi e da oltre 30 anni difende il valore della legalità contro tutti. Lo dimostra il fatto che il partito è allo 0,7%, mentre una pletora di chiacchieroni della legalità si colloca tra il 5 e l'8%. Il segno che il coraggio non paga, altro indicatore della finta libertà di stampa che da una parte e dall'altra risponde alle esigenze dell'interessato datore di lavoro. Peccato che Fini sia arrivato con decenni di ritardo. Dopo le intemperanze del fido apripista Granata, i vassalli del Presidente Fini, Bocchino e Buongiorno, eletti in Parlamento con i voti di Berlusconi, assurgono ad eroi della domenica illustrata, applauditi da quegli irriducibili dementi della sinistra, che ormai sanno solo essere la brutta fotocopia del ruvido Di Pietro, la nuova stella polare degli irriducibili nemici del Maligno (Berlusconi). Invece di porsi come vero uomo della provvidenza (ne avrebbe la qualità), abbandonando le improvvisazioni sui grandi temi del Paese, percorrendo le vie dettate dalla scienza della politica, dell'economia, della sociologia, della psicologia sociale, della scienza della comunicazione, il Presidente Fini, come qualsiasi pessimo scolaretto, copia maldestramente i suoi colleghi, nemici di Berlusca, ripercorre stancamente le ormai fallimentari vie delle sconfitte del Pd, delegittimando il Suo leader. Non la storia che sarebbe complicato capirla per gli odierni nemici del Premier, ma la cronaca degli ultimi 15 anni non ha insegnato alcunché. Di Pietro, D'Alema, Fassino, Letta , Bindi, Bersani, Casini, ora Fini, tutti uniti verso la sconfitta, tutti uniti verso il muro del pianto, che ci invita a piangere sulla pochezza di coloro che aspirano a governarci. Pannella, come dimostra da oltre 30 anni si trova sempre oltre l'orizzonte, peccato che non ha alcuno che possa capitalizzare in voti il suo indiscusso talento. Fini e i suoi fedeli soldati hanno senza discernimento acquistato l'intero pacchetto "turistico" di tutte quelle idiozie che i tamburi della propaganda sinistrorsa lanciano ad una parte dell'ignaro popolo rosso, viola, che stancamente ripete il rito antico della lotta contro l'oppressore, il potere, i padroni, i nemici dei poteri forti, i servizi deviati. Le grida "no al bavaglio, no alla dittatura berlusconiana, non vogliamo essere sudditi, no allo strapotere della maggioranza, si alle avanguardie rivoluzionarie", lanciate dai finti intellettuali di sinistra, si pensava fosse un fisiologico residuo, in via di estinzione, dello stupidario nazionale che allieta le pagine dei giornali dai tempi del mitico '68. Forse il Presidente Fini si è svegliato da un lungo sonno e di colpo ha pensato utile parlare di legalità. Il problema della legalità è vecchio come la Repubblica italiana. L'osannato sindaco di Roma Petroselli, bontà sua, ne sapeva qualcosa. A via dei Frentani epurava, radiava, stroncava la vita politica di compagni poco ubbidienti. Vendola, Bassolino, la Iervolino, secondo il principio intermittente del pool di mani pulite, non potevano non sapere. Veda Presidente Fini la mia famiglia ha dato tre morti alla seconda guerra mondiale, voluta da Mussolini. Due in Russia ed uno in Africa (fratelli di mia madre); mio padre è stato nel direttivo dell'Anpi; è stato il cofondatore del Psup di Vecchietti; io ho avuto la tessera del Pci fino al 1977, poi sono passato al Psi di Craxi e Martelli; dal 1994 voto il partito di Berlusconi. Tante cose non vanno. Mi creda per trovare un po' di spazio politico perduto non si affidi ai logori siparietti di Anno Zero e Ballarò. Cambi tema, non perché non sia importante la legalità, ma lasciamola a Pannella. Bene pubblico, ente pubblico, azienda pubblica, gestione pubblica, lavoro pubblico, posto pubblico, immigrazione, sicurezza. Abolire tutto, tutto privatizzato, tutto dovrebbe funzionare come l'azienda privata. Il privato non è il demonio, il padrone, lo speculatore; il privato siamo sempre noi, noi cittadini di questo Paese. Dare al privato significa dare ai cittadini singoli o associati che lavorano e fanno funzionare le aziende, gli enti, con produttività e con redditività. Non è difficile verificarlo. Poco al pubblico, molto al privato. Chi è bravo e lavora va avanti, chi è somaro resta indietro. Il resto sono chiacchiere, slogan, banalità che generano il nulla. Ovviamente ho semplificato. Se poi il tema della legalità deve proprio essere il suo nuovo argomento, prima di agire si consulti con Pannella, lui se ne intende. Non me ne voglia, diffidi di quelli che gli tributano applausi e ieri la disprezzavano, chiamandolo fascista.

 Articolo di Carlo Priolo pubblicato su L'Opinione delle Libertà, il 28/07/10
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martedì 27 luglio 2010

Faide intramoenia nel PDL

Dal blog dell'on. Gianfranco Miccichè riporto questa "cantilena-rap" che descrive quanto sta succedendo nel PDL in questi giorni.

 BATTAGLIA NAVALE

Nel PDL è scoppiata una Granata

come Lupi, i berluscones azzannano i finiani

ma un Bocchino al mattino e comincia il Bongiorno

mentre gli altri stanno lì, con le facce un po’ Verdini

a osservare i colleghi che fan gioco, tipo battaglia navale

“P3: colpito e affondato!”, esclamano a gran (porta)voce

“Ma è un imbroglio o è un Briguglio?” Non ci si racCapezzone più’

“No, non è un imbroglio, sono solo giochi, giochi eccelsi, giochi Fini

[FONTE]

Il lupo rosso perde il pelo ma non il vizio!

Tempo addietro ho pubblicato come consiglio di letura il libro Falce e carrello, una storia di soprusi e vessazioni, ma anche di sperpero di denaro dei soci delle COOP che adesso si ripetono, ancora una volta,  contro il loro concorrente-nemico per eccellenza: l'ESSELUNGA dell'imprenditore Bernardo Caprotti.

GUERRA ALL’ULTIMO ’FALCE&CARRELLO’ – DOPO MODENA, LE COOP BLINDANO ANCHE LIVORNO – L’ESSELUNGA OFFRE 40 MLN€ PER UN TERRENO MA I PROPRIETARI NE INCASSANO DIECI IN MENO PUR DI CEDERLO ALLA COOP ROSSA – CAPROTTI SI SFOGA SUI GIORNALI E BONDI ACCORRE IN DIFESA (“SE LA MAGISTRATURA SE NE OCCUPASSE SI RIVELEREBBE UN SISTEMA DI ILLEGALITÀ IMPRESSIONANTE”)…
Per la seconda domenica consecutiva, il patron di Esselunga Bernardo Caprotti ha comprato pagine di pubblicità sui principali quotidiani per spiegare come funzionano le cose in materia di «concorrenza e libertà» nelle regioni rosse. La settimana scorsa, il caso Modena: prima le Coop pagano un terreno cinque volte il suo valore commerciale per ostacolare l'insediamento di un supermercato Esselunga, poi il comune completa l'opera decidendo di trasformare l'area da commerciale a residenziale.
Così il supermercato non verrà mai costruito, né a marchio Coop ma soprattutto non a marchio Esselunga. E chi ci rimette di più? Per capirlo basta osservare lo specchietto pubblicato ieri mattina: a Modena le catene legate a Legacoop possiedono l'88,1 per cento della superficie di vendita, Caprotti appena il 3,4.
Ora si apre un capitolo inedito del fortunatissimo Falce e carrello: il caso Livorno. Che presenta varie analogie con Modena. Anche sulla costa toscana ci sono giunte rosse, le Coop monopoliste (il 72,2 per cento degli spazi commerciali della grande distribuzione è dei marchi Legacoop) e un terreno commerciale conteso. Il proprietario è il cavaliere del lavoro Marcello Fremura, 80 anni, armatore e spedizioniere marittimo.
La superficie fa parte di un grande lotto in cui verranno realizzati 700 appartamenti, uffici, servizi e appunto un ipermercato (unico sito cittadino disponibile per una nuova apertura) con annesso centro commerciale e megastore non alimentare. Due anni fa Fremura trova l'accordo con il Comune per avviare i lavori.Partono i contatti per rivendere i 41mila metri quadrati dell'area commerciale. Lo scorso aprile sul tavolo di Fremura si trovano tre proposte. Le Coop propongono 30 milioni di euro, qualcosa in più la Airaudo costruzioni, mentre Caprotti ne mette sul piatto 40. Vincono le Coop.
Faccenda «inconsueta e singolare» osserva Esselunga senza eccepire la regolarità delle procedure. Perché rinunciare a un'offerta più alta di un terzo? Fremura, attraverso la nipote Antonella Boccardo (che guida la società Le Ninfee creata per gestire l'operazione), fa sapere che l'offerta di Caprotti è giunta in ritardo.
Strano, replica Esselunga, visto che è stata presentata il giorno dopo un colloquio a Livorno tra i due imprenditori, e non è ipotizzabile che Fremura abbia ricevuto Caprotti avendo già chiuso l'affare. «Delle sue buone maniere non è dato dubitare», si legge in una nota di Esselunga. D'altra parte, il rogito con le Coop è stato firmato davanti al notaio Poma di Firenze il primo luglio scorso mentre la lettera di Esselunga è del 9 aprile. Il tempo per trovare l'accordo c'era tutto.
Ma Caprotti punta il dito sul clima nel quale è avvenuta la compravendita. Due anni fa Sergio Costalli, amministratore delegato di Unicoop Tirreno, aveva dichiarato: «Siamo determinati a non lasciare spazio a nessun concorrente in Toscana». Un anno dopo aveva ripetuto: «L'importante è che non si insedi la concorrenza».
Lo scorso febbraio, nei giorni cruciali delle trattative con Fremura, il presidente della società Marco Lami aveva lanciato l'ennesimo avvertimento: «Livorno è nostra». Segnali, messaggi, avvertimenti. E infatti Antonella Boccardo ha spiegato così la scelta di incassare 30 milioni di euro targati Coop invece che i 40 di Caprotti: «C'è stata una riunione di famiglia ed è stata presa una decisione. Ma soprattutto abbiamo deciso che non saremmo più tornati indietro.
Ed è quello che faremo: noi a Livorno ci viviamo e lavoriamo». Caprotti non ci vive e non riesce ancora a lavorarci, con buona pace di centinaia di livornesi che su Facebook hanno aderito al gruppo «Vogliamo l'Esselunga a Livorno» con tanto di indicazioni stradali per arrivare al supermercato di Pisa. E poi Caprotti non ci sta a passare per bersaglio di false accuse, come l'agnello nell'apologo di Fedro che viene citato nella pubblicità sui giornali.
In difesa di Esselunga è sceso il coordinatore del Pdl e ministro Sandro Bondi: «Qualcuno raccolga l'ennesimo appello-denuncia. In una parte d'Italia, che grossomodo coincide con le regioni rosse, l'intreccio tra potere politico ed economia raggiunge livelli impensabili. Se la magistratura se ne occupasse si rivelerebbe un sistema di illegalità impressionante».


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Che cosa mi aspetto da Santoro

Anche questa settimana pubblico Il Bestiario di Giampaolo Pansa. Piacevole da leggere, incisivo, lucido e  pacato nel descrivere la realtà delle cose italiane.

Che cosa mi aspetto da Santoro
di Giampaolo Pansa
 
Il Bestiario. Santoro faccia un programma diverso, equilibrato, fondato più sul ragionamento che sull'urlo.

Comunque vada l'agonia dei partiti italiani, ci sarà una sorpresa nell'autunno politico. Su una rete RAI tornerà Annozero di Michele Santoro. Non si sa ancora su quale canale, ma il più famoso dei talk show nazionali riprenderà il giovedì 23 settembre. Qualche lettore del Bestiario potrebbe chiedermi: che sorpresa è? Domanda legittima. Adesso proverò a rispondere.

Santoro (Salerno, 1951) sta in televisione da ventitré anni. Le sue prime trasmissioni, sulla Rete 3, furono Samarcanda, iniziata nel 1987, e Il Rosso e il Nero, del 1992. Le ricordo bene perché Michele mi invitava spesso come ospite. Lui era alto e magro, già bravissimo come televisionista, astuto e ambiguo il giusto che occorreva. Era di sinistra, ma allora in tanti lo eravamo, sia pure in mille modi diversi. Però non mi sembrò mai un giornalista dimezzato a favore di un partito. Del resto, il partito di Santoro era uno solo: Santoro.

Poi Michele accettò di lavorare per Mediaset, dominio personale di Silvio Berlusconi. Se non sbaglio era il 1994 e la sua trasmissione si chiamava Tempo reale.

Ma neppure lì si inchinò al padrone di turno. Il Cavaliere non lo amava. Anzi, per dirla tutta, Santoro gli stava sui santissimi. Riuscì a metterlo fuori e Michele divenne il Grande Epurato dell'editto di Sofia. A quel punto, eravamo nel 2004, Santoro accettò di candidarsi al Parlamento europeo e venne eletto a furor di popolo.

Chi lo conosceva disse: Michele non resisterà a lungo nella tetraggine di Strasburgo, la televisione è la sua vita, ci tornerà non appena gli sarà possibile. Infatti, nel settembre 2006, eccolo iniziare la serie di Annozero. E presentare se stesso nelle vesti di un mattatore ben diverso da quello di Samarcanda e di Rosso e Nero. Adesso è un conduttore da battaglia. Contro Berlusconi, naturalmente: il nemico da sconfiggere, il demonio da scacciare, il caimano da uccidere.

In questa veste, Santoro non mi piace più. Quando m'invita come ospite ad Annozero, rifiuto. Lui capisce e da quel momento, com'è naturale, eviterà di chiamarmi. Confesso d'essere contento di star fuori dal suo teatro. Trovo Michele il più mussoliniano dei conduttori televisivi. Ogni giovedì, lui ci impone di credere, obbedire e combattere contro il Caimano. Il pubblico lo adora. Santoro diventa la prova vivente che il regime fascista di Berlusconi esiste, ma può essere battuto.
I tentativi di fermarlo, condotti dai tetri burocrati governativi della RAI, hanno un solo risultato: rafforzare Michele, ormai invincibile nel ruolo dell'eroe-vittima.Poi arriva l'estate e, in apparenza, tutto si calma. Ma tra un paio di mesi saremo al grande ritorno di Michele in tivù. Il Bestiario si augura di rivedere ogni giovedì lui e Annozero. Tuttavia nutre la speranza che ci venga offerta una trasmissione diversa da quella dell'ultimo ciclo. Quale senso avrebbe fare un altro talk show di guerriglia? E contro chi poi? Il sistema dei partiti è in coma. Il caos domina nel Parlamento. Lo stesso Berlusconi è ormai lo spettro di se stesso.

I media televisivi e la carta stampata sono il riflesso del disordine che stravolge il paese. Noi giornalisti non sappiamo più spiegare ai lettori che cosa sta accadendo. Lo constato ogni mattina nel leggere dodici quotidiani. Di fronte a molti articoli, mi propongo la stessa domanda che mi faccio nei confronti di tanti magistrati: staranno cercando la verità o combattendo una battaglia politica?

In questo clima sempre più pericoloso, il ruolo di Santoro e di Annozero potrebbe essere d'importanza cruciale. Per diverse ragioni. Prima di tutto non esiste nella tivù italiana, pubblica o privata che sia, un professionista bravo come lui. I suoi spettatori (6 milioni, 20 per cento di share) sono più numerosi di quanti leggono i quotidiani. Infine il mezzo usato da Santoro è l'arma numero uno nella guerra tra poteri che sta mandando al tappeto l'Italia. E tra i poteri metto al primo posto la corruzione politica e la grande criminalità organizzata, ormai fusi in un blocco mostruoso.

Tutti gli italiani si trovano di fronte a un tragico rebus: che cosa è diventato il nostro paese? Bene, Michele è tra quanti possono aiutarci a risolverlo. Per riuscirci, non serve riproporre l'Annozero della scorsa stagione. Santoro deve fare un programma diverso, equilibrato, fondato più sul ragionamento che sull'urlo, quasi pacato. Posso sbagliarmi, ma ho l'impressione che la rabbia non tiri più. Non sto dicendo che debba rinunciare a Travaglio e a Vauro. Il problema non sono loro, e neppure gli ipotetici anti-Travaglio e anti-Vauro di centro destra.

Il problema è Santoro. Il padre padrone di Annozero è lui. Tutto dipende dalla sua volontà, dalla sua intelligenza, dalla sua cultura. Vuole rendere un servizio agli italiani, che tra l'altro sono i suoi datori di lavoro e i suoi finanziatori, per lo meno quelli che pagano il canone Rai? Michele ha davanti a sé due strade. Continuare nel ribellismo televisivo, sempre più infuocato e inconcludente. Oppure diventare il maestro Manzi del Duemila. Manzi insegnava a leggere e a scrivere nel programma tivù “Non è mai troppo tardi”. Oggi siamo quasi tutti alfabetizzati. Ma non sappiamo più leggere la crisi italiana. E non sappiamo più scriverne le possibili soluzioni.

Certo, san Michele non fa miracoli. Ma può dare inizio a un'altra delle sue vite con la sorpresa che anch'io aspetto. Una seconda sorpresa, negativa, sarebbe la fine del suo Annozero. Mi auguro che la cricca imperante nella RAI non imbocchi questa strada suicida.
lunedì, 26 luglio 2010


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lunedì 26 luglio 2010

Ecco un metodo tutto italico per fermare (tentare) LA LIBERA INFORMAZIONE

Italia, sequestro è prevenzione

di Guido Scorza

Un blog intero reso inaccessibile perché sospettato di diffamazione: l'ha chiesto la Procura della Repubblica di Bergamo. Come per prevenire una presunta tendenza a delinquere.
 
È successo di nuovo. È stato disposto il sequestro di un intero blog nell'ambito di un procedimento penale volto ad accertare se attraverso un pugno di post sia o meno stata posta in essere una diffamazione.

Il Dr. Giancarlo Mancusi, lo stesso Pubblico Ministero in forza presso la Procura della Repubblica di Bergamo, già protagonista del rocambolesco sequestro della Baia dei Pirati, questa volta ha chiesto, ottenuto ed eseguito il sequestro de www.il-giustiziere-lafabbricadeimostri.blogspot.com, un blog di Stefano Zanetti, sociologo e blogger. Ancora una volta - esattamente come già accaduto nella vicenda di The Pirate Bay - il Giudice, accogliendo l'istanza del PM ha ordinato il sequestro preventivo del blog "disponendo che i provider operanti sul territorio dello Stato italiano inibiscano ai rispettivi utenti l'accesso all'indirizzo www.ilgiustiziere-lafabbricadeimostri.blogspot.com, ai relativi alias e collegamenti URL presenti e futuri rinvianti al sito medesimo, nonché all'indirizzo IP statico che al momento risulta associato ai predetti nomi e collegamenti URL ed ad ogni ulteriore indirizzo IP statico associato ai nomi stessi".

Il PM, tuttavia, questa volta, si è forse reso conto di aver esagerato nella richiesta e, rilevato che l'esecuzione integrale del provvedimento avrebbe potuto comportare "l'oscuramento dell'intera piattaforma blogspot con ogni conseguente ripercussione - di segno negativo - sui numerosi blog estranei alle condotte criminose contestate", nel dettarne le misure di attuazione, ha fortunatamente ritenuto di limitare l'esecuzione del sequestro "al momento - (n.d.r. quasi si riservasse, in un momento successivo di non accontentarsi ed andare oltre) all'oscuramento del blog interessato dal provvedimento cautelare".
Anziché ordinare a tutti i provider italiani di rendere inaccessibile il blog, quindi, il PM ha chiesto alla Guardia di Finanza di ordinare a Google di "inibire l'accesso al blog oggetto di sequestro e soltanto ad esso".
Detto, fatto. Il blog di Stefano Zanetti è attualmente irraggiungibile e chiunque provi ad accedervi si vede, semplicemente, rispondere da Google: "il blog che stavi cercando non è stato trovato".

Sarà il processo - come è giusto che sia - a far chiarezza sulla sussistenza o meno della diffamazione contestata al Dr. Zanetti ed ad accertare la sua eventuale responsabilità ma, ora, il punto è un altro. Il PM con il suo provvedimento - nonostante la nobile preoccupazione di risparmiare l'oscuramento all'intera piattaforma blogspot ed ai milioni di blog su di essa ospitati - ha reso inaccessibili centinaia di post già pubblicati sul blog oggetto di sequestro in anni di attività e, soprattutto, precluso a Stefano Zanetti di poter continuare a dire la sua e, quindi, manifestare liberamente il proprio pensiero salvo, ovviamente, rispondere di eventuali abusi.

Si tratta di una decisione inammissibile e di un episodio - purtroppo non il primo nel nostro Paese - di inaudita gravità.
L'art. 321 del codice di procedura penale, infatti, prevede che "Quando vi è pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati, a richiesta del pubblico ministero il giudice competente a pronunciarsi nel merito ne dispone il sequestro con decreto motivato".
La "cosa pertinente al reato" suscettibile, nel caso di specie, di "aggravare o protrarre le conseguenze di esso", tuttavia, sono evidentemente i singoli post che si assumono diffamatori e, certamente, non l'intero blog.
È un concetto semplice e, sorprende che sul punto continui ad esserci spazio per errori grossolani e fraintendimenti. Disporre il sequestro di un intero blog e mettere a tacere un blogger, precludendogli di continuare a scrivere e dire la sua ha più il sapore di una sanzione preventiva - rispetto al processo - che di una misura cautelare ed è un po' come se si stesse anticipando un giudizio addirittura sulla "tendenza a delinquere" del blogger ovvero a diffamare e, dunque, si ritenesse opportuno imbavagliarlo prima che offenda ancora.

Ancora una volta, l'informazione online è trattata da "figlia di un Dio minore": sempre più obblighi ed oneri sulle spalle di blogger e web tv e sempre meno diritti e libertà. Proprio negli ultimi giorni, infatti, si sono registrati almeno due inquietanti episodi sintomatici di tale tendenza.
Dapprima l'AGCOM nel pubblicare i regolamenti di attuazione del Decreto Romani ha manifestato l'intenzione di pretendere più o meno da chiunque diffonda contenuti audiovisivi online la richiesta di un'autorizzazione, il pagamento di un importo di 3000 euro e, quindi, l'adempimento di tutta una serie di stringenti obblighi burocratico-amministrativi nonché del famigerato obbligo di rettifica di cui alla vecchia legge sulla stampa.
Nei giorni scorsi poi, l'On. Bongiorno, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, dichiarando inammissibili gli emendamenti al comma 29 del c.d. DDL (anti)intercettazioni, ha reso ancor più attuale il rischio che la norma divenga presto legge e, che, di conseguenza, l'intera blogosfera italiana si ritrovi assoggettata all'obbligo di rettifica "sotto minaccia" di una sanzione fino a 12mila e 500 euro, ovvero, la stessa che la legge prevede per gli editori.

Sempre più obblighi, doveri e, dunque, disincentivi ad informare per passione e non per mestiere ed a dire la nostra e, ad un tempo, sempre meno diritti. Il sequestro anche di una sola pagina di un giornale è precluso addirittura dalla carta costituzionale mentre il sequestro di un intero blog si avvia a diventare nel nostro Paese la regola.
Occorre ripristinare senza ritardo quel principio vecchio ma immortale contenuto nell'art. 19 della dichiarazione Universale dei diritti dell'Uomo, secondo il quale "Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere" salvo, naturalmente, rispondere degli eventuali abusi.

Il punto è esattamente questo: non si tratta di sollevare la blogosfera da ogni responsabilità e riconoscerle il diritto di violare gli altrui diritti ma, piuttosto, garantire, senza esitazioni né incertezze, a tutti i cittadini italiani, il diritto di usare la Rete per dire la loro e diffondere le loro idee. Sembra facile e, forse, persino ovvio ma, sfortunatamente, dopo anni di TELE-COMANDO non è così ed in molti, forse troppi, continuano a pensare che la Rete possa accendersi e spegnersi con un pulsante come una TV e che la scelta dipenda debba dipendere dai soliti noti.

Guido Scorza
Presidente Istituto per le politiche dell'innovazione


sabato 24 luglio 2010

Un consiglio per una buona lettura estiva

Marsilio editore ha pubblicato un interessante libro a firma congiunta di Giovanni Fasanella e Giovanni Pellegrino dal titolo: 
IL MORBO GIUSTIZIALISTA
Per non essere di parte, vi trascrivo la recensione di Maurizio Tortorella
 

Questo è un pamphlet intelligente e coraggioso. Che lancia una critica, dura e giusta, dei mostruosi difetti del sistema giudiziario italiano e delle strumentalizzazioni politiche della giustizia intessute dalla sinistra postcomunista a partire dagli anni di Mani pulite,  quando i Ds di Achille Occhetto  cercarono la "via giudiziaria al potere". 
Il libro, equanimemente, contesta anche certe forzature legislative operate dalle maggioranze berlusconiane e della paura dei "giudici comunisti".
Dato che entrambi gli autori hanno però un'eccellente formazione culturale progressista, Il morbo giustizialista è da suggerire soprattutto ai lettori (e agli elettori) di sinistra. Perché devono capire per primi che quella che reputano essere l'anomalia berlusconiana si nutre soprattutto della linfa prodotta dall'antiberlusconismo giustizialista, "preconcetto, ideologico e quasi ossessivo".
Fino a quando la sinistra non arriverà, evitando gli errori (e gli orrori) del giustizialismo forcaiolo, non andrà da nessuna parte. 

IL MORBO GIUSTIZIALISTA, Marsilio editore, 122 pagine, € 12.50 

giovedì 22 luglio 2010

Privatizzate Viale Mazzini: Non si può esseri guidati dalle sentenze dei giudici?

Quello che fanno certi giudici con le loro sentenze può avvenire soltanto da noi. In qualsiasi altra nazione non potrebbe accadere e,  se accadesse,  lo scandalo sarebbe così grande da far intervenire le Autorità superiori in brevissimo tempo per porvi rimedio.
Da noi NO!

La parola d'ordine, al piano nobile di viale Mazzini, è «valutazione complessiva», che poi significa una sola cosa: «Non facciamo della faccenda Mineo un secondo caso Ruffini». Succede che i posti che contano, dentro la Rai, siano diventati sub judice. Letteralmente: almeno da quando il giudice ha disposto il reintegro di Paolo Ruffini al timone di Raitre e il Tribunale del Lavoro di Roma ha confermato la decisione respingendo il reclamo in senso opposto formulato dalla Rai. Risultato: tutto fermo, bloccato, paralizzato. Non si fa una nomina per timore di essere smentiti il giorno dopo, con conseguenti danni non solo di immagine e ripercussioni sulla gestione aziendale, artistica, produttiva. Così, riunitosi ieri mattina alle 10.30, il cda della Rai non ha potuto far altro che soprassedere sul fronte degli incarichi, rinviando tutto alla prossima settimana su indicazione dello stesso direttore generale Mauro Masi. All'ordine del giorno, tra le diverse pratiche aperte, c'è la sostituzione di Corradino Mineo, direttore di RaiNews24, con l'esterno Franco Ferraro, in arrivo da Sky e - si dice - gradito alla Lega. Masi non ha ritirato la proposta, ma nelle ultime settimane la situazione s'è ingarbugliata per bene. Fioccano le carte bollate: Giovanni Masotti, rimosso da Londra, ha fatto già recapitare un ricorso d'urgenza, ex articolo 700, e rilascia dichiarazioni di fuoco sul centrodestra che pure dovrebbe essergli amico («Non contano merito ed esperienza, vogliono solo dei maggiordomi); Antonio Caprarica, appena tornato nella capitale inglese, a sua volta ha messo in mezzo gli avvocati per essere stato destituito dalla direzione del Giornale Radio; perfino Antonio Di Bella, direttore di Raitre per poche settimane e dall'8 giugno a disposizione del direttore generale, si sarebbe rivolto a uno studio legale. «Fanno bene, ci sto pensando anch'io: una bella causa. Non vorrei essere l'unico rimasto fregato», confessa Carlo Freccero, a lungo direttore di Raidue, ora alla guida del piccolo ma combattivo canale digitale Rai 4. «Doveva andare a Ruffini prima del reintegro, ma a questo punto la direzione di Rai Premium spetta a me di diritto, non ci sono dubbi. Mica possono retrocedermi», rivendica l'estroso inventore di programmi. Se gli chiedi un parere sullo stallo alla Rai, anche alla luce del cda di ieri, la risposta è lapidaria: «Occorre privatizzare, solo così si potranno eliminare i guasti di una conduzione tutta politica e per nulla manageriale. La Rai usa la gestione delle risorse umane secondo logiche bizzarre. Vige la meritocrazia della fedeltà. Infatti le chiamano nomine, un termine che sa di vecchio, invece che scelte industriali». Non troppo diversamente la pensano due membri della Commissione di vigilanza Rai. Il radicale Marco Beltrandi avverte: «Dopo la bocciatura dell'appello contro il reintegro di Ruffini, il cda deve evitare di compiere il medesimo errore rimuovendo Mineo dalla direzione di RaiNews24. Sarebbe un caso di destituzione illecita e discriminatoria, ancora più grave ed emblematica del caso Ruffini». Mentre per Giorgio Merlo, del Pd, «la vicenda Ruffini, come quella di Santoro, di Caprarica e forse un domani di Mineo, ci portano ad una sola conclusione: un'azienda come la Rai non è credibile se ogni scelta che fa è sottoposta al giudizio della magistratura per via dei ricorsi che vengono puntualmente presentati». Dunque? «O si riforma subito la governance dell'azienda oppure si deve prendere amaramente atto che la Rai è ormai un'azienda a sovranità limitata». Saranno fischiate le orecchie a Masi, che già ha il suo bel daffare con lo scontento Berlusconi e la diffidenza del Pdl. Intanto i due consiglieri di opposizione, Nino Rizzo Nervo e Giorgio Van Straten, hanno spedito al presidente della Rai una lettera che prende spunto proprio dall'ordinanza del Tribunale del Lavoro. «In considerazione delle motivazioni del collegio giudicante, riteniamo sia doveroso, oltre che opportuno, sospendere qualsiasi procedura di nomina di competenza consiliare. Il monito che dobbiamo tutti - consiglio di amministrazione e direttore generale trarre da questa vicenda è che gli avvicendamenti di vertice sono legittimi se avvengono in un quadro di autonomia dell'azienda, se rispondono a reali interessi aziendali e se, nella giusta esigenza di tutela anche degli interessi dei singoli, non violano le norme di legge e dei contratti». In pratica, si chiede «una pausa di riflessione». Subito accordata, come s'è visto. D'altro canto, risulta che anche i consiglieri di centrodestra comincino a nutrire dubbi sul modo di procedere del direttore generale, considerato pasticcione, fonte di continui ripensamenti, di scarsa lungimiranza. E intanto i vertici della Rai saranno ascoltati il 27 luglio in commissione di Vigilanza, alle 14. La convocazione del cda, con il presidente Paolo Garimberti e il direttore generale Mauro Masi, fa seguito alla lettera inviata da Sergio Zavoli nella quale si esprimeva l'esigenza di un incontro tra Commissione e Rai per fare il punto «dei problemi risolti, di alcuni in attesa di esserlo, di altri in sofferenza e attorno ai quali va addensandosi una temperie non di rado affidata ai contenziosi legali e alle pronunce della magistratura».

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Bersani condizionato dalla sua armata Brancaleone

Chi mi legge sa come la penso: da quando Giampaolo Pansa ha rivisitato in chiave critica il passato degli ultimi sessantanni, provo grande piacere a leggere quello che scrive nella sua rubrica il Bestiario su Il Riformista.
Eccone un'ulteriore prova. 

Tremonti vs Bersani? Tre a zero
di Giampaolo Pansa

Di solito non guardo Annozero. Michele Santoro è bravo, ma la sua trasmissione mi annoia. Nonostante la varietà degli ospiti, è troppo faziosa, si capisce sempre da che parte tira. E la parte è una sola: Silvio Berlusconi è come il colera, o ci ammazza lui o lo ammazziamo noi, in senso figurato s'intende. È la stessa solfa che sento suonare da tanti media. La conosco a memoria e mi ha stancato. Per questo, quando sta per cominciare il talk show di Michele, cambio canale.
Giovedì ho fatto un'eccezione. Sapevo che ad Annozero ci sarebbe stato un faccia a faccia fra due big: Giulio Tremonti, il ministro dell'Economia, e Pierluigi Bersani, il leader del Partito democratico. Me lo sono goduto dal primo minuto all'ultimo. Ed è stato come assistere a una partita di calcio. Conclusa con un risultato netto: la vittoria per tre a zero di Tremonti su Bersani.

Perché Tremonti ha vinto? Prima di tutto, perché giocava in casa. Nel senso che il campo di gioco era quello che lui conosce meglio: la crisi economica e finanziaria, con la manovra decisa dal governo.
In materia Bersani non è uno sprovveduto, lo so bene. Ma il segretario del Pd ha dei problemi a muoversi su quel terreno. E tra un istante ne parlerò. Pure Tremonti ha dei vincoli politici, però è stato bravo a fingere di non averne.

In questo modo, il ministro dell'Economia ha saputo parlare con chiarezza. E mi ha fatto capire quattro cose essenziali, le uniche che il governo può fare e, soprattutto, deve fare. La prima è tentare di ridurre il nostro colossale debito pubblico. Poi salvare i depositi degli italiani nelle banche. Quindi difendere il valore dell’euro. E infine sostenere la cassa integrazione. Oggi come oggi, non è possibile fare altro.
Ho capito di meno quanto diceva Bersani. Non ho pregiudizi contro di lui. E meno che mai quelli acidi che gli ha scagliato addosso Carlo De Benedetti. Però il leader democratico non ha esposto la propria ricetta anticrisi con la stessa chiarezza di Tremonti. Ha parlato di sviluppo, di giovani senza lavoro, di tagli inutili fatti dal governo con l'accetta, di ceti deboli che non possono essere i soli a pagare. L'unica proposta che non ha osato esprimere in modo netto è l'aumento delle tasse per i redditi forti o ritenuti tali. Ma si capiva che a questo stava pensando.

La debolezza di Bersani è emersa quando ha rinfacciato a Tremonti, volendo rivolgersi soprattutto a Berlusconi, di aver strillato che tutto andava bene, che l'Italia non rischiava nulla, che bisognava dormire sonni tranquilli. Certo, è andata così. E il Cavaliere ha fatto la figura del cioccolataio. Ma ricordarlo a che cosa serve? E ha poco senso dire, come fa il Pd al centro-destra: riconoscete di aver avuto torto, di essere stati imprudenti, di aver venduto lucciole per lanterne, soltanto allora potremo metterci al tavolo con voi e trovare una via d'uscita dalla guerra fredda tra i due blocchi.
Tuttavia un'attenuante Bersani ce l'ha. Ha perso anche perché guida una squadra che, dal punto di vista della chiarezza progettuale, sembra la vecchia armata Brancaleone. Non abitando più a Roma, seguo le vicende della sinistra leggendo una dozzina di quotidiani. Il risultato è sconvolgente. Chi comanda nel Pd? Certo, Bersani è il segretario, ma a circondarlo c'è un gruppo dirigente pronto a scannarlo. Sto pensando a signori e signore come Veltroni, Franceschini, Marino, Bindi e il loro seguito. Un club che sta distruggendo il proprio partito. C’è da sperare che almeno D'Alema riesca a difendere il parroco e la parrocchia.
Anche a proposito della crisi, le ricette del Pd sono tante, forse troppe. Leggiamo opinioni radicalmente diverse. Ho l'impressione che Bersani non ne possa più di questa sarabanda. Quando Giulio, sornione, gli ha ricordato i nomi di due o tre democratici che non la pensano come lui, Pierluigi si è lasciato sfuggire un gesto di stizza, esclamando: “Lascia perdere, non nominarmi Tizio o Caio!”.

Come se non bastasse, Bersani è costretto ogni giorno ad alzare un muro sul fianco della sinistra radicale. L'implacabile Di Pietro va di continuo all'assalto del Pd, pur seguitando a proclamare la propria lealtà. Gli strali degli opinion maker anti-Caimano ormai si rivolgono anche contro Pierluigi. Persino i vignettisti se la prendono con lui. Venerdì 4 giugno, sul Fatto quotidiano, un grande disegnatore come Riccardo Mannelli lo ha fucilato con un ritratto al curaro. La faccia di Bersani era accompagnata da una didascalia che lo ribattezzava “Cacasonno”, ossia un leader che fa soltanto dormire. “E che parla anche a nome di Bertoldo e Bertoldino”.
Ma il dramma vero di Bersani è ancora un altro. Riguarda l'intera sinistra italiana, nelle sue diverse fazioni. E forse l'intera sinistra europea. La terribile bufera che ci avvolge l'ha paralizzata. La destra, nelle forme del centro-destra, tenta di arginare il caos, alza delle dighe, propone rimedi da lacrime e sangue. Anche se nessuno è in grado di dire quanto le difese serviranno. Però la destra si muove. Mentre la sinistra sta ferma, balbetta, propone vecchie ricette impossibili da applicare.

Ma per tornare al vincitore dello scontro ad Annozero, anche Tremonti un problema ce l'ha. Si chiama Berlusconi. Il Cavaliere odia le lacrime e il sangue. Vuole ottimismo, consumi, gioia di vivere, più libertà personali. Se potesse, farebbe a pezzi la manovra di Giulio. Adesso sembrano d'accordo su una grande riforma liberale, una deregulation destinata alle piccole imprese. Spero molto che non sia aria fritta.

Il Riformista di lunedì, 7 giugno 2010

[Fonte

 

Sempre sugli ex comunisti ora PD

Un lettore di questo blog mi ha segnalato la lettera di V. Nappin di Genova, inviata a Panorama e pubblicata sul numero 30 del 22/7/2010. 
Lettera che completa in maniera perfetta il mio post precedente.

Bersani e altri soloni

Bersani ed altri esponenti di sinistra dicono che il governo Berlusconi ha fallito. 
Non sono gli stessi che dicevano che l'URSS era il paradiso dei lavoratori e tessevano le lodi del comunismo?
Sappiamo come è andata a finire, quale credibilità hanno questi soloni? 

Da quale pulpito arriva la predica...

Il già comunista Massimo D'Alema, facendo affidamento sulla mancanza di memoria del popolo italico,  si permette il lusso di ergersi a moralista su tutto e contro tutti. Quest'ultima boutade, però, le supera tutte.
Ricordo al giornalista, onorevole e presidente del COPASIR che prima di parlare di morale dovrebbe leggersi il libro scritto dal proprietario dei supermercati Esselunga, di cui ho già scritto,  che racconta con dovizia di particolari, e con prove inoppugnabili,  il comportamento dei suoi sodali di partito che amministrano la cosa pubblica dal quale comportamento si evince che  il fine primario e agevolare i loro amici, nel caso di specie le COOP.
Infine, en passant, ricordo anche la famosa frase dell'ex segretario del suo partito, Piero Fassino, che ebbe a dire:  «Abbiamo finalmente una banca?» .

 LA POLEMICA

«Con Berlusconi corruzione da anni '90»

D'Alema: non si tratta di casi singoli, è una rete.


Berlusconi «ha riportato il paese agli standard di corruzione della vecchia Italia, della tanto vituperata prima Repubblica». Lo ha detto Massimo D'Alema arrivando alla festa dell'Unità di Roma commentando le ultime notizie emerse dall'inchiesta sulla cosiddetta P3. «Emerge intorno al potere berlusconiano una rete di interessi, una rete affaristica che appare come un vero e proprio sistema di potere - dice il presidente del Copasir - non si tratta di casi singoli come dice il premier ma di qualcosa che assomiglia alla rete degli anni '90». Secondo D'Alema «Berlusconi ha sottovalutato» la vicenda e «ho trovato incredibile la sua battuta sul fatto che certe cose accadono anche a preti e carabinieri. Questa vicenda fa venire alla luce la crisi di un sistema di potere, la crisi di un governo, la crisi di un leader che ha riportato il Paese agli standard di corruzione della vecchia Italia, della tanto vituperata prima Repubblica». (fonte Apcom)
 
[VIA]

21 luglio 2010