domenica 21 novembre 2010

Ma 'o governatore che fine ha fatto?

Per lustri 'o governatore è stato il "padrone" assoluto della Campania, perfino Commissario straordinario per il problema della "monnezza" che portò Napoli sulle prime pagine di tutta la stampa internazionale. 
Che cosa fece Bassolino come sindaco di Napoli prima e governatore della Campania poi?  Nulla!!!
Per non parlare dell'attuale sindachessa Rosa Russo Iervolino!
Nulla di nulla anche lei! 
I risultati  di quello che (non) ottennero con il loro (non) fare sono evidenziati  in questo bell'articolo di Giampaolo Pansa: 

 I rifiuti? Napoli si arrangi

Non vorrei vedere Napolitano in camice bianco, almeno lui le corna non le farebbe.


Che cosa aspettano i napoletani? Il bis di quanto accadde nell’estate 1973? Attenzione, non ho sbagliato a scrivere la data. Parlo di un’epoca non troppo lontana. Me la rammento bene perché allora ero uno degli inviati del Corriere della sera. All’inizio di luglio, il dicì Mariano Rumor varò il suo quarto governo, un quadripartito. E una decina di giorni dopo si trovò alle prese, lui che era di Vicenza, con un problema mai risolto in Italia: i guai di Napoli.
Per prima emerse la rivolta del pane. Un giovane di oggi si chiederà, incredulo: una sommossa per il pane nel 1973? E invece ecco come andò. Il comitato provinciale dei prezzi aveva fissato a 160-190 lire il costo di un chilo. I panificatori napoletani lo ritennero troppo basso e decisero una serrata totale. Il pane cominciò a scarseggiare, quindi mancò del tutto.
Lo si trovava soltanto alla borsa nera, venduto a cifre folli, che arrivavano a 1200 lire al chilo. Ci furono tre giorni di durissime proteste. Poi si trovò un rimedio, non ricordo quale, e in città ritornò la calma.
Fu una tranquillità di breve durata. Alla fine di agosto del 1973, sempre a Napoli, esplose il colera. La causa era una sola: il degrado igienico-sanitario della città. Nei giorni successivi, l’epidemia si sviluppò anche a Bari, in altri centri del Mezzogiorno e in Sardegna. Alla fine i morti di colera risultarono una trentina. In tempi più lontani sarebbero stati centinaia, forse migliaia.
Non ricordo se a Napoli, nell’estate 1973, le strade fossero coperte di rifiuti come accade oggi. Penso di no. Ma il colera è una brutta bestia e soltanto a nominarlo incuteva paura a tutti. Fece paura anche al presidente della Repubblica, Giovanni Leone, napoletano. Lo scrivo con molto rispetto per lui, un politico democristiano preso a calci in faccia dalla stampa cosiddetta democratica, come succede oggi a Silvio Berlusconi.
Tuttavia Leone, insediato al Quirinale da meno di due anni, non poteva esimersi dal visitare i colerosi della sua città. Il 7 settembre 1973 arrivò a Napoli e andò nell’ospedale dove erano ricoverati i malati di colera. Credo fosse il Cotugno. I medici gli fecero indossare un lungo camice bianco, completo di cuffia e di mascherina. Leone fece il giro dei reparti. Con una mano salutava i degenti. Con l’altra, tenuta dietro la schiena, faceva un gesto di scongiuro: le corna.
I direttori dei quotidiani esclamarono: «Impossibile! È soltanto una calunnia, un falso inventato da un avversario del presidente». Invece era vero. Un settimanale, il Candido di Giorgio Pisanò, pubblicò la fotografia di Leone, ripreso di spalle mentre si aggirava per il Cardarelli. Un cerchio rosso metteva in risalto le corna del presidente, una misura anti-iella che Leone riteneva efficace. E infatti le aveva già mostrate, con entrambe le mani spinte in avanti, agli studenti di Pisa che lo contestavano.
Che cosa dovrebbero fare, oggi, gli abitanti di Napoli, con le strade invase da tonnellate di rifiuti? Limitarsi agli scongiuri nella speranza che il pattume non gli porti di nuovo il colera? No, penso che dovrebbero fare cose assai diverse. Avverto i lettori che sto per scrivere parole spiacevoli. Ma non posso evitarlo, perché la mia educazione di ragazzino del dopoguerra è stata dominata da un verbo: arrangiarsi.
È stato l’imperativo categorico che risuonava di continuo in casa nostra. Mio padre, mia madre, e soprattutto la mia nonna analfabeta, cercavano di aiutare noi bambini, ma soltanto fino ad un certo punto. Poi ci dicevano: arrangiati! Prova a fare da solo, non chiedere sempre soccorso, datti una mossa e cerca di risolvere il tuo problema senza chiamare sempre la Crocerossa. Nel nostro caso, era la nonna che, tuttavia, si mostrava anche più dura. Aveva un motto crudele: ricordatevi che il piatto di minestra non si riempie da solo.
Perché i napoletani non provano ad arrangiarsi? Cominciando a non fare quanto stanno facendo da settimane. È da suicidi gettare la spazzatura per le strade, sperando che qualcuno la raccolga. Almeno gli scatoloni di carta o i rifiuti non deperibili potrebbero essere conservati nella cantine, sui balconi, nei garage. Invece i telegiornali ci mostrano materassi sfondati, vecchie poltrone, lavatrici e frigoriferi rotti, mobili inservibili: tutto scaraventato sulla pubblica via.
Non riesco a immaginare in che modo Napoli riuscirà a guarire dal gigantesco cancro del pattume. E come lo risolveranno altre grandi città del Sud, come Palermo, dove pare stia emergendo la stessa crisi. Da solo, nessun governo ce la farebbe mai. Mi sembra anche difficile sperare nell’aiuto dell’Italia del nord. Con i tempi che corrono, non vedo la Lega del Bossi precipitarsi al soccorso. I rifiuti di Napoli se li smazzi Napoli: questo è il pensiero delle gente dalla Toscana in su.
La verità è che siamo diventati un paese di menefreghisti. E con la vocazione all’autolesionismo. È sufficiente entrare a Roma dalla via Nomentana per vedere, in piccolo, lo spettacolo desolante di Napoli. Uno sfasciume circondato dai rifiuti e reso grottesco da un’infinità di vecchi manifesti elettorali, strappati e ricoperti da schizzi di fango o di altre sostanze immonde. Ecco il biglietto da visita della capitale d’Italia.
Dobbiamo rassegnarci ad aspettare di nuovo il colera? Non vorrei proprio vedere Giorgio Napolitano visitare gli ospedali, difeso da una tuta bianca. Certo, il nostro presidente non farebbe mai le corna, pur essendo anche lui nato sotto il Vesuvio. Ma è una magra consolazione.
 
di Giampaolo Pansa, sabato, 20 novembre 2010

venerdì 19 novembre 2010

Ancora una condanna per Marco Travaglio!

Alcuni giorni addietro è arrivata per Marco Travaglio un'altra condanna per diffamazione.
Travaglio, che si ritiene d'essere l'unico vero giornalista libero italiano, oltre ad essere editore di se stesso per aver fondato il quotidiano il Fatto, si ritiene anche il depositario della verità assoluta e della morale italica.

In una delle sue ospitate ben pagate ad Annozero  sbandierò compiaciuto il suo certificato penale da "incensurato", negando di essere stato condannato per diffamazione, per poi inventarsi la parola soccombente invece di usare quella corretta di condannato.

Queste condanne per diffamazione, che fra l'altro obbligano il soccombente  Travaglio a risarcire il danno causato al diffamato, lo condannano sempre a pochi euro di risarcimento! 
In quest'ultima sentenza di condanna il risarcimento è di soli 15.000 euro, più gli interessi e le spese legali! 
Cifra irrisoria. Mai quanto dovrebbe risarcire realmente per le vite morali che ha distrutto e continua a distruggere.
Se il Giudice avesse usato, come metro di giudizio del danno - utilizzando il metodo proporzionale -,  quello utilizzato contro Berlusconi, condannato a risarcire Carlo De Benedetti per la causa sul lodo Mondadori, con la modica cifra di 750 milioni di euro, circa 1500 miliardi delle vecchie lirette, Travaglio avrebbe finito da un bel po'  di diffamare le persone.

Ovviamente, trattandosi dell'unico "giornalista-editore-libero" diffamatore, l'Ordine dei giornalisti (al quale dovrò dedicare un post) si guarda bene dall'intervenire per radiarlo dall'ordine, senza considerare il fatto che è un pregiudicato per diffamazione  che continua imperterrito a reiterare il reato.

In un Paese civile, e democratico non a chiacchiere, gli avrebbero già impedito di continuare la sua opera diffamatoria, visto che la magistratura lo condanna a risarcimenti irrisori. 
E per di più viene pagato con i nostri soldi per fare il  solone in trasmissioni televisive della TV di Stato.
Se, invece, degli otto mesi di carcere gli avessero inflitto un milione di euro di risarcimento, il signor "unico-giornalista-editore-libero" diffamatore non avrebbe più diffamato nessuno.    

Ma l'ordine, che ha avuto il tempo e la voglia per giudicare e sospendere Feltri per un errore, non troverà mai il tempo e la volontà per il punire come merita Travaglio, "giornalista-editore-libero" italico, pregiudicato per diffamazione*, salvaguardando così la vita a molte persone. 

Ecco cosa disse Marco Travaglio durante la puntata del 16 novembre 2006 di Annozero:

"C'è David Costa, assessore regionale arrestato perché considerato il figlioccio del boss Bonafede. In una telefonata dice di essere pure il pupillo di Casini."

Se Travaglio avesse messo in pratica il principio costituzionale di considerare innocente l'indagato/imputato fino all'emissione dell'eventuale condanna definitiva, non sarebbe incorso nell'ennesimo caso di diffamazione.
L'ex assessore Cosa è stato riconosciuto innocente in tutti i gradi di giudizio, ma il motivo principale per il quale il tribunale di Marsala ha condannato Travaglio è scritto molto chiaramente nella sentenza di condanna ( o dovremmo dire soccombenza):
"Ha utilizzato un'espressione ("figlioccio") evocativa di uno scenario cinematografico certamente suscettibile di maggior presa sul pubblico televisivo; espressione tale da insinuare nel telespettatore la percezione che Costa fosse accusato di essere affiliato -per di più in posizione apicale, atteso lo strettissimo legame di protezione e appoggio intercorso fra padrino e figlioccio - a Cosa nostra." (...) (Travaglio) ha travalicato l'impianto accusatorio delineato nell'ordinanza di applicazione della misura cautelare, violando così il canone della verità della notizia, per come rescrittivamente inteso dalla Suprema corte."  

Il tribunale di Marsala, nel condannare Travaglio, ha invece assolto Michele Santoro e Claudio Fava.  
Qui di seguito i link ai media che hanno riportato la notizia delle condanne del pluripregiudicato infraquinquennale e  reiterante Marco Travaglio,  "giornalista-editore-libero" diffamatore.

1a) -  Previsti -Travaglio, anche con la condanna ad otto mesi di reclusione e pena sospesa e 20.000 euro di risarcimento oltrer alle spese legali;
2a) -  Confalonieri -Travaglio, condannato a risarcire 12.000 euro oltre alle spese legali; 
3a) - Mediaset-Travaglio, condannato a risarcire 14,000 euro oltre alle spese legali;
4a) - Schifani-Travaglio, condannato a risarcire 16.000 euro oltre alle spese legali; 
Come avrete notato non vi è alcun personaggio di centro-sinistra che lo abbia citato per diffamazione! 

A chiusura, per togliere eventuali dubbi sulla "correttezza" professionale del pluripregiudicato infraquinquennale e reiterante Marco Travaglio,  "giornalista-editore-libero" diffamatore, riporto quanto scritto da Gianluca Perricone di Giustizia giusta:

"Prendere esempio? Una delle condanne per diffamazione inflitte al Travaglio riguarda Cesare Previti e un articolo scritto dallo stesso Travaglio per l’Espresso nel quale veniva citata una parte del verbale reso nel 2001 dal colonnello dei Carabinieri Riccio (a sua volta coinvolto in un processo su presunti blitz antidroga “pilotati”, n.d.r.). Si leggeva, tra l’altro, nell’articolo in questione, citando il contenuto del verbale e facendo riferimento alla specifica vicenda giudiziaria: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». Bene. In realtà quel verbale conteneva questa, intera, frase: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Cambia, a vostro giudizio (signor Mimmo Manna compreso), il senso della situazione specifica? Secondo me sì, quanto meno perché nell’articolo del Nostro (Travaglio, NdB) viene omesso (forse colpevolmente) un pezzo importante: si stravolge il senso del contenuto del verbale."  

Infine, date un'occhiata alla classifica dei diffamatori: in testa c'è il gruppo la Repubblica-L'Espresso! 

* Riporto, da Wikipedia, quanto previsto dal nostro Codice per il reato di diffamazione:
 
La diffamazione, in diritto penale italiano, è il delitto previsto dall'art. 595 del Codice Penale secondo cui:
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1032.
Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2065.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516.
Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

[VIA

Da quale pulpito viene la difesa col predicozzo...

Riporto l'incipit della difesa d'ufficio dell'ex tutto, Antonio Di Pietro, in favore del suo ex collega pm Luigi De Magistris per il fatto che quest'ultimo è stato rinviato a giudizio e che, secondo lo statuto del loro partito avrebbe dovuto dimettersi iniziando con lasciare il seggio di deputato europeo.
Ma alla sfacciataggine non c'è alcun limite, purtroppo!
 "Oggi vi parlo di Luigi De Magistris, voglio fare una scelta di campo senza se e senza ma: sto dalla sua parte e da quella di Sonia Alfano. Lo dico con chiarezza a coloro che ci attaccano al di fuori del partito e a quelli che ci contrastano all’interno dell’Italia dei valori, senza capire che proprio in questo momento serve unità e compattezza. Dobbiamo fare come i tre moschettieri: “uno per tutti, tutti per uno”. Luigi è accusato per quello che ha fatto nella sua attività da magistrato, per spirito di vendetta e proprio noi, suoi compagni di partito, dobbiamo fare squadra e non possiamo andargli contro, magari per toglierci qualche sassolino dalla scarpa. Viene preso di mira per aver fatto una mega inchiesta, Why Not, senza produrre risultati. Ma non è assolutamente vero. I risultati non ci sono stati perché gli è stata tolta l’indagine prima che fosse conclusa." 

Di Pietro dimentica, però, che ad accusarlo non è il "nemico" Berlusconi, bensì una Giudice della Repubblica italiana.
I tre moschettieri
Questa l'accusa mossa al suo pupillo: "  Indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissati dal GIP" .
Quale accusa più grave di questa può essere addebitata ad un pubblico ministero che si vantava e si vanta si essere un  paladino della giustizia?

Questo rinvio a giudizio che per Di Pietro sembra essere stato fatto per ragioni politiche,  fa il paio con la sentenza in cui il giudizio  espresso sull'inchiesta Why not  dal giudice per le indagini preliminari, Abigail Mellace, che in una lunghissima motivazione della sentenza,  ha descritto con queste dure parole l'operato di De Magistris:  "un metodo di indagine profondamente distorto, volto alla ricerca dell'effetto politico e pubblicitario, privo di ogni serietà e professionalità."  

domenica 14 novembre 2010

Scalfari lo smemorato fa l'avvoltoio con Feltri

Riporto senza alcun commento quanto scritto da Perna, del quale condivido tutto quello che scrive sul calabrese Eugenio Scalfari, il "fondatore" del quotidiano la Repubblica, che ha perso un'altra occasione per stare zitto, considerato il suo passato anche politico.
Il decano della nostra categoria-l'ottantaseienne Eugenio Scalfari - ha fatto l'altra sera uno scivolone. Si è forse rotto il femore? 
Peggio: ha scritto una brutta pagina di giornalismo. Scritto si fa per dire, perché il vanitosone ha voluto pavoneggiarsi in tv con la barba sapiente, i capelli color neve, le proverbiali gote rosa. Ha impettito il busto davanti alla telecamera e se n'è uscito, all'incirca, così: «Che Vittorio Feltri non sia stato radiato, mi ha stupito ». Ha omesso di aggiungere, «dolorosamente », preferendo esprimere il risentimento con l'indignazione del viso, l'aggrottare delle sopracciglia e gli altri accorgimenti che ne fanno da decenni la coscienza della Nazione. Per lui, dunque, il collega imputato del caso Boffo avrebbe dovuto dare l'eterno addio alla professione. E questo, francamente, non fa onore al paladino di tutte le libertà quale da mezzo secolo è il Mae­stro. 
Da una personalità così ci saremmo attesi la stessa benevolenza per gli errori altrui che Egli ha generosamente dimostrato per i propri. 
Si dice che, con l'accumularsi delle primavere, si indebolisca la memoria del presente ma si rafforzino i ri­cordi del passato. Se Scalfari fa eccezione, può volere dire due cose: o che non ha mai avuto coscienza delle proprie porcherie o che ormai si è bevuto il cervello. O le due cose insieme. 
Chi è Gegè, come lo chiamavano in gioventù gli amici per le sue arie da gagà? 
Ri­sposta: uno che - se avessimo un Ordine dei giornalisti con la schiena dritta - sarebbe già stato fermato da lustri e la lista delle sue castronerie, giornalistiche e umane, sarebbe meno lunga. 

Scalfari è tra coloro che hanno indicato agli assassini di Lotta Continua il bersaglio di Luigi Calabresi, falsamente accusato dell'omicidio dell'anarchico Pinelli. 
Il commissario fu ucciso dai terroristi di Adriano Sofri nell'aprile del 1972. I mandanti morali furono i giornali di sinistra - tra i quali si di­stinse il settimanale L'Espresso , creatura del Maestro - che nei mesi precedenti si erano scatenati contro di lui. 
Gegè volle però da­re un'impronta più personale all'infamia. Promosse una sottoscrizione, alla quale aderirono ottocento «intellettuali » - tra cui lui e la sua redazione - di un manifesto che definiva Calabresi «commissario torturatore» e il «responsabile della fine di Pinelli». Benedì, inoltre, un'altra iniziativa con cui si intimidiva la magistratura che aveva denunciato i militanti di Lc per istigazione a delinquere. Una lettera aperta al procuratore di Torino, autore della denuncia, firmata da diversi redattori di Scalfari, tra i quali l'attuale moglie del Maestro, Serena Rossetti. I sottoscrittori si schieravano in difesa di Sofri & co., affermando orgogliosi di condividerne l'illuminata visione. Ecco un saggio della prosa: «Quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono ladri, è giusto andarci a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro». 
Questo erano Gegè e la sua cerchia. Pensare che qualche anno dopo, da direttore di Repubblica , il Venerando si scaglierà come un nume babilonese contro Bossi per l'iperbole da scolaretto degli «otto milioni di baionette padane». Tipica indignazione farlocca di un consumato ipocrita che rinfaccia la pagliuzza nell'occhio altrui e glissa sul tronco piantato nel suo cervello. Eugenio - nell'indifferenza dell'Ordine che oggi bacchetta per non avere radiato Feltri - ha usato il mestiere per calpestare la verità e farsi i propri interessi. 
Negli anni Sessanta, ha falsamente accusato il generale dei carabinieri, De Lorenzo, di tentato golpe. Per mettersi al riparo della condanna penale che la bugia gli aveva fruttato, grazie all'immunità che ora esecra, si è fatto eleggere in Parlamento col Psi di Pietro Nenni. Così pur essendo ricco come l'Aga Khan- si gode oggi anche la pensione frutto della menzogna che ha rovinato la vita di De Lorenzo. Che fosse una bidonata, è ormai assodato per ammissione di Lino Jannuzzi, il giornalista che fece con lui il finto scoop. Una ventina di anni dopo, Lino, rinsavito, rivelò infatti che avevano montato la panna sulla base di una documentazione manipolata del Kgb sovietico. Queste le fonti del disinvolto Maestro. 
Ritroviamo lo zampone dell'illustre decano anche nelle false accuse che costrinsero il presidente Leone a dimettersi dal Quirinale nel 1978. Furono i giornalisti dell’ Espresso, Melega e Camilla Cederna, a spargere i veleni. Gegè, dalle colonne di Repubblica , aggiunse batteri alla stricnina e, sempre con l'aria di portare pulizia nel Paese, distrusse un innocente. Con l'arma del giornalismo malandrino, perseguiva un fine politico: eliminare un ostacolo all'avvento del compromesso storico col Pci, a lui gradito e avversato da Leone. Il Vene­rato sperava così di plasmare a sua immagine l'Italia, scolpire il suo nome sulla pietra e passare - alla faccia del rivale Montanelli - per il superfico del bigoncio giornalistico. 
Vi sembra che abbia ono­rato la professione uno che è stato pappa e ciccia col tesoriere della mafia, Michele Sindona, prima di voltargli le spalle e affossarlo? Mentre era deputato, a Gegè venne l'uzzolo di fondare un quotidiano, la futura Repubblica . Si mise alla ricerca di finanziatori. Ci provò con Eugenio Cefis, ci riuscì con Carlo De Benedetti, Nell'intermezzo, cercò l’aiuto di don Michele che stava scalando con un’Opa la Bastogi. Una notoria truffa. Ma Scalfari, per sedurlo, ne divenne complice. Presentò, a nome del Psi, un'interrogazione di totale appoggio all'Opa. In un soffietto di quarantatré righe, il deputato affermò che «la serietà dell'offerta era comprovata » e che essa «favoriva una massa di oltre tremila piccolo azionisti». In sostanza, una meraviglia. Appena se ne accorse, Riccardo Lom­bardi, responsabile Psi per l'economia, lo convocò inviperito. «Scalfari, ricordi che prima di impegnare il partito deve chiedere l'autorizzazione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Messo alle strette, Gegè farfugliò: «Ne avevo parlato con Giacomo Mancini». Non era vero, ma Mancini che era il suo protettore - lo coprì. Don Michele si profuse in ringraziamenti e promise i soldi per Repubblica . Due anni dopo, però, fece fallimento. Il Maestro, per cancellare le impronte, cominciò ad attaccarlo furiosamente. Per l'eccelsa penna, l'ex amico in disgrazia divenne «il bancarottiere». Immemore delle untuose sviolinate di poco prima, accusò questo e quello - con particolare lena, Andreotti di complicità col finanziere sul lastrico. Ne chiese la galera e la ottenne. Si carezzò la barba e prese la posa del salvatore della patria. Le imprese del Nostro non finiscono qui, ma lo spazio a disposizione, sì. 
Vi chiedo: può un simile esemplare giornalistico fare la predica a chicchessia?

di Giancarlo Perna

[FONTE

Quale verità e quale gerarchia?

Sulla vicenda esplosa per le dichiarazioni dell'avvocata dello Stato, la pm Annamaria Fiorillo, intervistata anche dalla RAI durante la trasmissione di Lucia Annunziata, c'è un particolare di non poco conto che nessuno ha evidenziato.
Il 30 giugno, un mese dopo il fermo di Ruby la ragazza marocchina, il tribunale dei minori di Milano, formato da quattro magistrati presieduto dalla Giudice Anna Zappia, ha emesso una sentenza di diniego dell'affido alla famiglia di Lelel Mora. Nella sentenza si legge che in data 28 maggio il pm dei minori concedeva l'affido provvisorio alla consigliera regionale Minetti.
Se la Fiorillo non era d'accordo perché non fece ricorso alla Corte d'Appello, affermando in quella sede che lei quell'affido provvisorio l'aveva negato.
Adesso è troppo comodo, con il giornalismo italico, dire quello che si vuole e infischiarsene del superiore gerarchico che afferma il contrario, o di un ministro della Repubblica che la smentisce.
La pm Fiorillo deve smentire la sentenza di ben quattro giudici. 

[Fonte

venerdì 12 novembre 2010

Spazzatura, sprechi, clientele, sperperi e figuracce alla napoletana!

Bassolino & Russo Iervolino
Non è bastata la figuraccia fattaci fare a livello mondiale da lor signori con montagne di spazzatura dappertutto, tranne che vicino alle loro case. 
Ma la cosa che stupisce ancor di più è quella che le loro signorie siano sempre al loro posto come se nulla fosse.
Perché i napoletani fanno le barricate non volendo le discariche invece di andare da lor signori e cacciarli a pedate? (Ma la loro spazzatura e le loro ecoballe dove le mettiamo se non li vuole nessuno?)
Una motivazione, fra le tante, possibili:  perché i napoletani mantengono al loro posto loro signori è questa:
la sindaca di Napoli, Rosa Russo Iervolino, ha speso nel 2009, tramite la società Napoli sociale, di proprietà del Comune, la somma di 3.977.500,80 euro per il trasporto di 100 disabili, fra i quali anche bambini.
Una semplice divisione di fa conoscere la spese di trasporto per ogni disabile che è uguale a 39.775,08 euro.
Ma a Milano, la sindaca Letizia Moratti, nel 2008, per un servizio analogo ha speso 2.631.769,00 euro, ma per 692 disabili. 
In questo caso la semplice divisione ci fa sapere che la spesa pro-capite a Milano è stata di 3803,00 euro, ben 35.973,80 euro in meno per ogni disabile trasportato.
Forse a  Napoli li hanno portati con l'elicottero? 
E poi dicono che il Nord è più efficiente e per combattere questi sperchi Bossi vuole il federalismo. 
Come non dargli ragione di fronte a queste evidenze?
In pratica a Napoli hanno speso dieci volte di più per soli 100 disabili.
Non avrebbe risolto meglio dando ad ogni famiglia 1.000,00 euro al mese? 
Avrebbero anche risparmiato 2.777.500,80 euro con i quali smaltire la spazzatura! 
Viva l'Italia... di loro signori.

mercoledì 10 novembre 2010

Questo è il giornalismo italico...

Pur di cavalcare lo scandalo e dare addosso al nemico, sempre e comunque, ogni scusa diventa buona.
Il settimanale Oggi pubblica due video, (video fatti da chi e perchè?) coi quali dimostra l'ovvio: un amico insieme a delle ragazze va a cena da un suo amico. Ebbene, poiché l'amico che offre la cena è un tale che si chiama Silvio Berlusconi, allora tutto diventa lecito. Questa volta con la scusa della sicurezza.
Riporto testualmente quanto scrive Oggi:

"Il valore giornalistico di queste immagini è piuttosto quello relativo alla sicurezza del premier. Guardate e giudicate…"

Ebbene i due video li ho guardati attentamente e tutto quello il settimanale oggi scrive:

I video che vi mostriamo, però, mostrano un aspetto non secondario di questa frequentazione: i Carabinieri di stanza all'ingresso di Villa San Martino sono così abituati a veder entrare l'auto di Mora che non la fermano per i dovuti controlli. La vettura entra direttamente e raggiunge il cortile interno della villa.  

Non si vede nulla, neanche i Carabinieri! 
Il filmato è tagliato? E se non lo è perché non fanno vedere che l'auto entra senza i dovuti controlli?
Lo si da per scontato, si scrive l'articolo di colore e via. 
Questo è il giornalismo italico! 

Provate a dare un occhiata voi ai filmati. Questo il link

Soltanto sulla questione sicurezza sono d'accordo. 
Ma questo dipende dalle forze di Polizia che dovrebbero vigilare sul presidente del consiglio, e non da lui.
Il lancio della statuetta, le foto fatte in Sardegna o il microfono in faccia al premier sono stati le dimostrazioni più lampante.

domenica 7 novembre 2010

Casa di Montecarlo, Fini incastrato dal catasto


La rivelazione nell’ultimo libro di Vespa: il valore fiscale dell’immobile nel 2000 all’atto della registrazione era di 381mila euro. Molto più alto di quanto incassato dal partito nel 2008 dalla società off-shore Printemps. Che fa capo a Giancarlo Tulliani.

Per trovare il capitolo sulla casa di Montecarlo bisogna scollinare oltre pagina settecento, perché quest’anno un fluviale Bruno Vespa ha scritto una sorta di Guerra e pace, portandoci per mano attraverso centocinquant’anni di storia italiana, da Mazzini e Garibaldi alle convulsioni del Pdl e alla nascita di Futuro e libertà. Ma Il cuore e la spada, Mondadori, già in libreria, non delude: Vespa ricostruisce puntigliosamente tutta la storia e aggiunge anche qualche prezioso dettaglio, finora inedito. L’informazione più suggestiva e interessante è proprio all’inizio, quando il lettore inciampa «nel piccolo quartierino in un elegante palazzo all’interno del quadrato d’oro di Montecarlo, l’area più pregiata del principato di Monaco». Siamo nel 1999, la contessa Colleoni è morta e An ha ereditato l’appartamento di boulevard Princesse Charlotte 14. Il senatore Francesco Pontone scrive una lettera alla Dotta Immobilier, amministratrice del palazzo, la Dotta risponde valutando quei locali, pari a circa 70 metri quadri commerciali, 450 milioni di lire, ovvero 229.000 euro; Pontone e il suo collega di partito Antonino Caruso vanno a Montecarlo e per il disbrigo delle pratiche si appoggiano al notaio Paul-Louis Aureglia, un professionista di grande esperienza e tradizione. Ed è precisamente a questo punto che Vespa spara la sua rivelazione: «La cifra concordata per la denuncia ai fini fiscali fu sensibilmente più alta di quella indicata da Dotta Immobilier». Sorpresa: «Nell’atto - prosegue Vespa - si parla di 2 milioni e mezzo di franchi, pari a 381.155 euro». Dunque, 381.155 euro. Ovvero una cifra molto più importante dei trecentomila euro incassati da An otto anni dopo, quando il partito cedette l’immobile alla Printemps, una società off-shore dei Caraibi. Ma come mai si arrivò a quota 381.155 euro? «Il notaio - tira le fila Vespa - fece presente che il valore avrebbe dovuto avere un minimo di credibilità e che una cifra più bassa non sarebbe stata sostenibile».
Si sa, di solito il valore ai fini fiscali è più basso del prezzo al momento della vendita. Qui, in un’interminabile successione di paradossi, accadde il contrario e anche di più: perchè i 381mila euro sono più alti dei 300mila incamerati da An otto anni dopo. Una situazione davvero unica. Gestita in modo incomprensibile dal principio alla fine. «A cavallo fra la fine del 2001 e l’inizio del 2002 - riprende il filo Vespa - Caruso ricevette una telefonata da un sedicente inquilino dello stabile di boulevard Princesse Charlotte o, più probabilmente, dall’architetto dello studio Dotta che si era occupato delle pratiche relative all’appartamento e alla piccola manutenzione necessaria, il quale disse che c’era qualcuno disposto a comprarlo per 6 milioni di franchi, pari a cira 915.000 euro. Caruso si fece lasciare il numero di telefono dell’offerente e lo passò a Pontone, ma questi lo informò che non era ancora stata presa nessuna decisione circa la vendita dell’immobile».
Dunque, già fra il 2001 e il 2002 c’era qualcuno disposto a versare oltre 900mila euro. Ma non se ne fece nulla. «Improvvisamente, all’inizio dell’estate 2008, Fini chiamò Pontone e gli disse semplicemente: “Francesco, vendiamo Montecarlo a 300.000 euro. La segretaria ti farà sapere con chi prendere contatto”. E lui, uso a obbedir tacendo, non fece domande: la disposizione era chiara e il presidente aveva indicato anche il prezzo, chiarendo che la casa andava ristrutturata». Più chiaro di così.

Dopo aver lasciato cadere, contro ogni logica, un’offerta da 900mila euro e oltre, sei-sette anni dopo Fini ordina a Pontone di vendere e di vendere a trecentomila euro. Il senatore, come è evidente dal racconto, non sa nulla e s’inchina ad una decisione che il leader di An ha preso sopra la sua testa. E infatti l’11 luglio Pontone viene paracadutato a Montecarlo nello studio del notaio Aureglia. «Lì incontrò due persone che erano fiduciarie dell’acquirente, la società Printemps Ltd con sede a Santa Lucia, paradiso fiscale, come si dice, nelle Piccole Antille: Bastiaan Anthonie Izelaar e James Walfenzao, entrambi residenti nel principato di Monaco. Il notaio - chiosa Vespa - si meravigliò nel constatare che il venditore non conoscesse i compratori».
Insomma, il pasticcio di Montecarlo non quadra dall’inizio alla fine. Peraltro Vespa ci dà un’altra notizia, o meglio gliela gira lo stesso Pontone. «Interpellato, Pontone rivela che, al momento dell’elezione a Presidente della Camera, Fini si riservò il controllo dell’amministrazione del partito e del Secolo d’Italia: “Esiste un documento e La Russa lo sa”, sostiene». La Russa smentisce, ma Pontone sembra sicuro di sé. Stiamo parlando di un patrimonio che lo stesso Vespa radiografa con precisione: «Settanta milioni di euro in contanti e immobili per un valore di 400 milioni». Dunque, un portafoglio molto importante che Fini continua a gestire in prima persona.
Il caso è ancora aperto e Vespa, pur seguendolo in tempo quasi reale, deve ai primi di ottobre staccarsi dalla cronaca per consegnare il tomo alla stampa. Ma prima di congedarsi, il giornalista formula una domanda malandrina ritornando alla sua scoperta: «C’è un punto che resta, tuttavia, oscuro. Rifacendosi alla valutazione della Dotta Immobilier, Fini sostiene correttamente che l’appartamento fu venduto al 30 per cento in più, ma sapeva che il valore catastale dichiarato al fisco era di 381mila euro?». I conti non tornano, nemmeno per il conduttore di Porta a porta.

di Stefano Zurlo

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Soltanto un giornale calabrese ha pubblicato la notizia...



La notizia riportata ieri, 6 novembre 2010 dal quotidiano Calabria ora,  è passata sotto silenzio dalla "grande" stampa che ad ogni refolo di vento fa articolesse e fondi a non finire sulla giustizia negata. 
L'ex tutto Di Pietro ne è a conoscenza? 
Come si comporterà: dimetterà De Magistris dal suo partito? Il codice etico dell'IdV lo sancisce a chiare lettere. 

Quale accusa più grave di questa: " Indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissati dal GIP" può essere addebitata ad un pubblico ministero che si vantava e si vanta si essere un  paladino della giustizia?

Questo rinvio a giudizio fa il paio con la sentenza in cui il giudizio espresso sull'inchiesta Why not  dal giudice per le indagini preliminari, Abigail Mellace, che in una lunghissima motivazione della sentenza ha così descritto l'operato di De Magistris:  "un metodo di indagine profondamente distorto, volto alla ricerca dell'effetto politico e pubblicitario, privo di ogni serietà e professionalità."  
  
Cosa farà De Magistris adesso? 
Seguirà i dettami del codice etico del "suo" partito, l'IdV, che prevede, in teoria, le sue dimissioni da tuti gli incarichi che ha, ad iniziare dal seggio parlamentare europeo, per finire all'incarico di responsabile nazionale giustizia e sicurezza del partito? 
Di Pietro non appena veniva "indagato" di dimetteva. 
Ricordo a De Magistris che Di Pietro si dimise da ministro della Repubblica per essere stato inscritto nel registro degli indagati, non rinviato a giudizio come lui.
Si dimetterà da parlamentare, oppure continuerà a fare proclami sulla giustizia da applicare agli altri ma non a lui? 

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sabato 6 novembre 2010

L'ex tutto Di Pietro usa, come sempre, due pesi e due misure.

Quando Tonino disse: meglio le donne che i gay

Oggi definisce "battuta da bettola" la frase di Berlusconi, ma due anni fa diceva le stesse cose da vero macho mediterraneo: "Sono tombeur de femmes, non d’hommes". Una normale rivendicazione, nessuno lo accusò di discriminare gli omosessuali.

 «Meglio tombeur de femmes che tombeur d'hommes». Siamo tranquilli. Antonio Di Pietro, paladino dell'Italia dei Valori, ha il suo, personalissimo, valore aggiunto: gli piacciono le donne.
E per esternare la sua vocazione eterosessuale se la cava con quella battuta che riportiamo tra virgolette nel nostro incipit. Lo dice, anzi lo ha detto un po' di tempo fa, rispondendo ad una serie di domande rivoltegli da Klaus Davi, in una puntata di KlausCondicio - il canale internettiano inventato dal pubblicitario-scrittore su Youtube. L’illuminante video è naturalmente ancora visibilissimo ondine (http://www.youtube.com/watch?v=Jj-yGyRjpTY) e quindi può essere apprezzato in tutte le sue sfumature, risatine del leader dell’Idv comprese, quando, per esempio, Davi gli fa notare che pur essendo lui un macho, è stato votato ed è apprezzato anche dagli omosessuali.
Ma il punto non è questo. Il punto è che l'onorevole Di Pietro la pensa esattamente come Silvio Berlusconi, uomo con cui non ha, propriamente, un’identità di vedute e a cui non risparmia attacchi quotidiani, ma che, dopo questa sua sorprendente rivelazione, diventa uomo proprio come lui è uomo e macho. Quindi: con le sue stesse identiche e tanto deprecate debolezze in fatto di gusti sessuali. Di Pietro e Berlusconi uniti, almeno, dalla passione per le donne è già una notizia, ma un Di Pietro che, nell'armadio delle sue dichiarazioni, nascondeva anche una battuta simil-berlusconiana è una notizia che fa ancora più notizia.
Già, perché ancora l'altro giorno, dopo le vane detonazioni, innescate dall'opposizione sul caso Ruby, quando gli ortodossi lessicali d'ogni dove si scagliavano contro il premier per la sua uscita goliardica fatta all'inaugurazione del Salone del ciclo e motociclo («Meglio guardare le belle donne che essere gay») Di Pietro è stato subito fra i primi a sgomitare per dire la sua. Fra i primi a criticare severamente il presidente del Consiglio per quelle sue parole ironiche sui gay. Di Pietro ancora una volta nei panni del Grande Moralizzatore che arrivava prontamente a bacchettare il Cavaliere. A gridare allo scandalo. Ricordate? Suvvia, impossibile non ricordare. Le parole di Antonio Di Pietro, pronunciate con quel tono grave che la circostanza richiedeva, rimbombano ancora nelle orecchie di molti: «Il posto ideale per Berlusconi non è certo Palazzo Chigi ma una bettola di periferia. Oggi, infatti, abbiamo avuto l’ennesima prova dell’inadeguatezza del signor Silvio Berlusconi a ricoprire il ruolo di presidente del Consiglio. Berlusconi vive ancora nell’età della pietra, anzi, è peggio: vive nell’era delle discriminazioni razziali, sessuali, etniche e religiose», tuonava il leader di Italia dei valori. Che per l’occasione regalava al premier anche una lezioncina politica: «Bisognerebbe ricordargli che, nel frattempo, il nostro Paese ha ratificato il trattato di Lisbona che ha riconosciuto il diritto alla non discriminazione basata anche sull'orientamento sessuale. Essere gay è solo un diverso modo dell'essere e non una condizione di cui vergognarsi».
Mai parole più vere furono pronunciate. Solo che, evidentemente, la memoria ogni tanto fa, come dire, difetto al Grande Moralizzatore. Che, non da una bettola di periferia, ma dal salotto di casa sua, conversando con un giornalista e non con il vicino di pianerottolo, se ne era uscito con la battuta del «tombeur», di cui sopra, in cui esprimeva l'identico concetto espresso dal presidente del Consiglio, cioè: meglio guardare e frequentare le donne che essere gay. Forse onorevole Di Pietro, lei è convinto che - solo perché detta in francese - la sua frase abbia tutto un altro allure. Non si illuda. Tutt'al più possiamo concederle che, anziché da bettola, la sua venga considerata una battuta da bistrot. 

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venerdì 5 novembre 2010

Ancora sull'uso privato di incarico pubblico.

Dal sito Dagospia vi propongo questa piccola notizia: 
 
Flash! Riceviamo e pubblichiamo: 
"Oggi, 4 novembre, intorno alle ore 11 del mattino, ho visto la signora Elisabetta Tulliani lasciare l'auto nel parcheggio della Camera, affidando le chiavi ad un parcheggiatore, che ha premurosamente sistemato a dovere la macchina. Mi chiedo se le mogli o le fidanzate dei parlamentari ne abbiano diritto o se non si sia trattato di un imperdonabile abuso, a totale disdoro della terza carica dello Stato". (on. Giancarlo Lehner, Pdl)... 

La fonte di Dagospia non chiarisce che macchina abbia parcheggiato la Tulliani. Era questa della foto? 

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LA CASSAZIONE TIENE A MOLLO FINI

LA SUPREMA CORTE DÀ RAGIONE AL CODACONS E COSTRINGE ALLA RIAPERTURA L'INCHIESTA SUL BAGNETTO VIETATISSIMO CHE GIAN-ELISABETTO E LA SUA COMPAGNA FECERO NEL 2008 NELLE ACQUE DI GIANNUTRI (COL CORTESE SUPPORTO DEI VIGILI DEL FUOCO) - UN CLASSICO CASO DI “USO PRIVATO DI INCARICO PUBBLICO” CHE FINI TANTO AMA CONTESTARE AL CAINANO…

La Cassazione tiene a mollo Gianfranco Fini, e dai fondali del tribunale di Grosseto fa riemergere l'inchiesta sulle immersioni fuorilegge. Per capire di cosa si stia parlando occorre andare indietro nel tempo: a domenica scorsa e al 26 agosto del 2008. Tre giorni fa il presidente della Camera, infischiandosene del suo ruolo istituzionale, ha criticato la «disinvoltura» e il «malcostume» del presidente del Consiglio «nell'uso privato di incarico pubblico».

Disinvoltura e malcostume che, ad avviso dell'uomo di Montecarlo e delle raccomandazioni Rai, hanno «messo l'Italia in una condizione imbarazzante». Niente a che vedere, ovviamente, con l'imbarazzante condizione che nel 2008 portò lui e la sua compagna Elisabetta, scortati dai pompieri, a immergersi nelle acque vietatissime del parco nazionale dell'isola di Giannutri.
 
Incurante dei divieti noti anche al più profano degli appassionati di diving, il sommozzatore Fini venne beccato e fotografato - come si legge nelle carte dell'inchiesta - «con altre persone a passare da uno yacht all'imbarcazione dei vigili del fuoco, il tutto in un'area marina iper protetta, la costa dei Grottoni, zona uno, vale a dire un'area interdetta a qualsiasi attività che non sia di carattere scientifico».

La gita in barca immortalata dalle sentinelle di Legambiente autorizzò le associazioni ambientaliste a parlare sia di «utilizzo dei parchi naturali come piscine riservate alle alte cariche dello Stato» sia di vigili del fuoco distratti dal loro lavoro per consentire a Gianfranco e ad altre persone «di immergersi nelle acque vietate per fini ludici e vacanzieri in mancanza del nulla-osta dell'EnteParco».

Beccato in flagranza Fini mandò avanti il portavoce: «Non abbiamo alcuna difficoltà a commentare una colpevole leggerezza non conoscendo esattamente i confini dell'area protetta». Una leggerezza. Non conoscevano. Aggiunse, il portavoce, una cosa ovvia: se c'è da pagare una multa questa verrà doverosamente pagata. Così è stato.

Per l'immersione proibita con scorta di pompieri Gianfranco ed Elisabetta sono stati costretti a conciliare 206 euro a testa. Antonio Di Pietro liquidò la figuraccia istituzionale alla sua maniera: «La cosa più grave non è solo quella che (Fini, ndr) ha fatto immersioni in una zona proibita ma che ci stava con una barca dei vigili del fuoco spendendo soldi dello Stato per fare il bagnetto lui e l'amichetta sua. Aver impegnato mezzi dello Stato così è penalmente rilevante o no?».

Il 3 settembre 2008 se lo chiedeva il presidente del Codacons, Giancarlo Rienzi, che ai vigili del fuoco di Grosseto inoltrava formale richiesta affinché pure lui e la sua barchetta ancorata a Tarquinia fossero scortate nella medesima area off limits per tutti, tranne che per Fini: «Avendo saputo che il vostro comando è stato a tal punto disponibile e premuroso da scortare il presidente della Camera alla zona in questione, sono certo che non vi saranno problemi da parte vostra nel voler accompagnare anche me».

Il comandante dei pompieri Francesco Notaro, imbarazzato, rispose a Rienzi che l'autorizzazione ad accedere a Giannutri «non rientra nelle nostre competenze» e che al massimo lo avrebbe potuto ospitare in centrale per mostrargli «la professionalità del personale sommozzatore e le speciali attrezzature a disposizione».

Che Fini non avesse lo straccio di un permesso lo confermò anche Mario Tozzi, presidente del parco nazionale dell'arcipelago toscano («nessuno mi ha chiesto il permesso, lì non ci si può nemmeno fare il bagno, figuriamoci immergersi con le bombole»). Il Codacons decise così di interessare la magistratura, ma sia il pm che il gip chiesero l'archiviazione non ritenendo sussistente e documentata alcuna fattispecie penalmente rilevante.
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La terza sezione della Cassazione, però, il 4 ottobre ha accolto il ricorso del Codacons riconoscendolo «soggetto legittimato» a sollecitare chiarimenti ed ha riaperto il procedimento, accogliendo le rimostranze dell'avvocato Giuseppe Ursini che lamentava come il Codacons non fosse stato sentito dal gip come da procedura. Per questo motivo la corte di Cassazione ha annullato «senza rinvio il decreto impugnato» disponendo «di trasmettere gli atti al pm per l'ulteriore corso».

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La giustizia è uguale per tutti?

Si discute il "lodo Alfano" per il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. L'opposizione, in particolare quella persona integerrima di Di Pietro, ha cominciato a dire che non si può accettare questa norma perché "la legge deve essere uguale per tutti".
La legge "dovrebbe" essere uguale per tutti, ma non è così. Purtroppo!
L'ex presidente della Repubblica Scalfaro, quando volevano indagare su di lui per i 100 milioni di lire incassati mensilmente "per motivi istituzionali", andò in televisione a reti unificate e fece la famosa dichiarazione "Io non ci sto": le indagini vennero sospese, insabbiate. Non se n'è saputo più nulla!
Un cittadino che fa una denuncia deve aspettare, quando va bene, 15 anni per avere la sentenza.
Se però è un magistrato a fare causa a qualcuno (Di Pietro docet!), questa viene discussa entro brevissimo tempo.
E' questa la legge uguale per tutti?
Se un cittadino vince una causa contro un magistrato (raramente), viene risarcito con una cifra quasi sempre irrisoria.
Se invece è un magistrato che la vince, normalmente viene risarcito con cifre elevate.
Inoltre se è il cittadino che vince, non è il magistrato che paga bensì lo Stato.
Se è il magistrato che vince è lui che incassa e non lo Stato.
Quando un magistrato sbaglia non paga mai e viene giudicato dai suoi colleghi che hanno un "occhio corporativo di riguardo" e nessuno viene mai licenziato o fatto dimettere (accade rarissimamente, come le mosche bianche), anzi magari viene anche promosso in altre città.
Questa è la legge uguale per tutti che sta bene all'ex pm Di Pietro?
  

(lettera a Panorama di Felice Pelloni di Brescia, pubblicata il 4/11/2010 pag. 239)