domenica 14 novembre 2010

Scalfari lo smemorato fa l'avvoltoio con Feltri

Riporto senza alcun commento quanto scritto da Perna, del quale condivido tutto quello che scrive sul calabrese Eugenio Scalfari, il "fondatore" del quotidiano la Repubblica, che ha perso un'altra occasione per stare zitto, considerato il suo passato anche politico.
Il decano della nostra categoria-l'ottantaseienne Eugenio Scalfari - ha fatto l'altra sera uno scivolone. Si è forse rotto il femore? 
Peggio: ha scritto una brutta pagina di giornalismo. Scritto si fa per dire, perché il vanitosone ha voluto pavoneggiarsi in tv con la barba sapiente, i capelli color neve, le proverbiali gote rosa. Ha impettito il busto davanti alla telecamera e se n'è uscito, all'incirca, così: «Che Vittorio Feltri non sia stato radiato, mi ha stupito ». Ha omesso di aggiungere, «dolorosamente », preferendo esprimere il risentimento con l'indignazione del viso, l'aggrottare delle sopracciglia e gli altri accorgimenti che ne fanno da decenni la coscienza della Nazione. Per lui, dunque, il collega imputato del caso Boffo avrebbe dovuto dare l'eterno addio alla professione. E questo, francamente, non fa onore al paladino di tutte le libertà quale da mezzo secolo è il Mae­stro. 
Da una personalità così ci saremmo attesi la stessa benevolenza per gli errori altrui che Egli ha generosamente dimostrato per i propri. 
Si dice che, con l'accumularsi delle primavere, si indebolisca la memoria del presente ma si rafforzino i ri­cordi del passato. Se Scalfari fa eccezione, può volere dire due cose: o che non ha mai avuto coscienza delle proprie porcherie o che ormai si è bevuto il cervello. O le due cose insieme. 
Chi è Gegè, come lo chiamavano in gioventù gli amici per le sue arie da gagà? 
Ri­sposta: uno che - se avessimo un Ordine dei giornalisti con la schiena dritta - sarebbe già stato fermato da lustri e la lista delle sue castronerie, giornalistiche e umane, sarebbe meno lunga. 

Scalfari è tra coloro che hanno indicato agli assassini di Lotta Continua il bersaglio di Luigi Calabresi, falsamente accusato dell'omicidio dell'anarchico Pinelli. 
Il commissario fu ucciso dai terroristi di Adriano Sofri nell'aprile del 1972. I mandanti morali furono i giornali di sinistra - tra i quali si di­stinse il settimanale L'Espresso , creatura del Maestro - che nei mesi precedenti si erano scatenati contro di lui. 
Gegè volle però da­re un'impronta più personale all'infamia. Promosse una sottoscrizione, alla quale aderirono ottocento «intellettuali » - tra cui lui e la sua redazione - di un manifesto che definiva Calabresi «commissario torturatore» e il «responsabile della fine di Pinelli». Benedì, inoltre, un'altra iniziativa con cui si intimidiva la magistratura che aveva denunciato i militanti di Lc per istigazione a delinquere. Una lettera aperta al procuratore di Torino, autore della denuncia, firmata da diversi redattori di Scalfari, tra i quali l'attuale moglie del Maestro, Serena Rossetti. I sottoscrittori si schieravano in difesa di Sofri & co., affermando orgogliosi di condividerne l'illuminata visione. Ecco un saggio della prosa: «Quando i cittadini da lei imputati affermano che in questa società “l’esercito è strumento del capitalismo, mezzo di repressione della lotta di classe”, noi lo affermiamo con loro. Quando essi dicono “se è vero che i padroni sono ladri, è giusto andarci a riprendere quello che hanno rubato”, lo diciamo con loro. Quando essi gridano “lotta di classe, armiamo le masse”, lo gridiamo con loro. Quando essi si impegnano a “combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento”, ci impegniamo con loro». 
Questo erano Gegè e la sua cerchia. Pensare che qualche anno dopo, da direttore di Repubblica , il Venerando si scaglierà come un nume babilonese contro Bossi per l'iperbole da scolaretto degli «otto milioni di baionette padane». Tipica indignazione farlocca di un consumato ipocrita che rinfaccia la pagliuzza nell'occhio altrui e glissa sul tronco piantato nel suo cervello. Eugenio - nell'indifferenza dell'Ordine che oggi bacchetta per non avere radiato Feltri - ha usato il mestiere per calpestare la verità e farsi i propri interessi. 
Negli anni Sessanta, ha falsamente accusato il generale dei carabinieri, De Lorenzo, di tentato golpe. Per mettersi al riparo della condanna penale che la bugia gli aveva fruttato, grazie all'immunità che ora esecra, si è fatto eleggere in Parlamento col Psi di Pietro Nenni. Così pur essendo ricco come l'Aga Khan- si gode oggi anche la pensione frutto della menzogna che ha rovinato la vita di De Lorenzo. Che fosse una bidonata, è ormai assodato per ammissione di Lino Jannuzzi, il giornalista che fece con lui il finto scoop. Una ventina di anni dopo, Lino, rinsavito, rivelò infatti che avevano montato la panna sulla base di una documentazione manipolata del Kgb sovietico. Queste le fonti del disinvolto Maestro. 
Ritroviamo lo zampone dell'illustre decano anche nelle false accuse che costrinsero il presidente Leone a dimettersi dal Quirinale nel 1978. Furono i giornalisti dell’ Espresso, Melega e Camilla Cederna, a spargere i veleni. Gegè, dalle colonne di Repubblica , aggiunse batteri alla stricnina e, sempre con l'aria di portare pulizia nel Paese, distrusse un innocente. Con l'arma del giornalismo malandrino, perseguiva un fine politico: eliminare un ostacolo all'avvento del compromesso storico col Pci, a lui gradito e avversato da Leone. Il Vene­rato sperava così di plasmare a sua immagine l'Italia, scolpire il suo nome sulla pietra e passare - alla faccia del rivale Montanelli - per il superfico del bigoncio giornalistico. 
Vi sembra che abbia ono­rato la professione uno che è stato pappa e ciccia col tesoriere della mafia, Michele Sindona, prima di voltargli le spalle e affossarlo? Mentre era deputato, a Gegè venne l'uzzolo di fondare un quotidiano, la futura Repubblica . Si mise alla ricerca di finanziatori. Ci provò con Eugenio Cefis, ci riuscì con Carlo De Benedetti, Nell'intermezzo, cercò l’aiuto di don Michele che stava scalando con un’Opa la Bastogi. Una notoria truffa. Ma Scalfari, per sedurlo, ne divenne complice. Presentò, a nome del Psi, un'interrogazione di totale appoggio all'Opa. In un soffietto di quarantatré righe, il deputato affermò che «la serietà dell'offerta era comprovata » e che essa «favoriva una massa di oltre tremila piccolo azionisti». In sostanza, una meraviglia. Appena se ne accorse, Riccardo Lom­bardi, responsabile Psi per l'economia, lo convocò inviperito. «Scalfari, ricordi che prima di impegnare il partito deve chiedere l'autorizzazione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Messo alle strette, Gegè farfugliò: «Ne avevo parlato con Giacomo Mancini». Non era vero, ma Mancini che era il suo protettore - lo coprì. Don Michele si profuse in ringraziamenti e promise i soldi per Repubblica . Due anni dopo, però, fece fallimento. Il Maestro, per cancellare le impronte, cominciò ad attaccarlo furiosamente. Per l'eccelsa penna, l'ex amico in disgrazia divenne «il bancarottiere». Immemore delle untuose sviolinate di poco prima, accusò questo e quello - con particolare lena, Andreotti di complicità col finanziere sul lastrico. Ne chiese la galera e la ottenne. Si carezzò la barba e prese la posa del salvatore della patria. Le imprese del Nostro non finiscono qui, ma lo spazio a disposizione, sì. 
Vi chiedo: può un simile esemplare giornalistico fare la predica a chicchessia?

di Giancarlo Perna

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