giovedì 23 giugno 2011

Lucia Annunziata scopre l'acqua calda!

Finora conosceva soltanto l'acqua fredda che gelava il Cavaliere. 
Adesso che la sua trasmissione televisiva "In 1/2 ora" pare sia stata cancellata dal palinsensto di RAI 3 si accorge che l'acqua è anche calda e dichiara: "A RAI 3 c'è una mafia." 

Lucia Annunziata, ex giornalista di punta de il Manifesto, ex corrispondente da New York per la Repubblica, ex presidente RAI ed ex direttore del TG 3,  nell'intervista rilasciata il 22 giugno al Messaggero ha definito RAI 3 una rete caretterizzata da: "piccole mafie e rappoorti non chiari."

Viva l'Italia! 

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mercoledì 15 giugno 2011

Dopo Fini servivano le urne

Questi due articoli dovrebbe leggerli il Cav. Berlusconi. E comportarsi di conseguenza. [NdB]




Con il tradimento del cofondatore bisognava rimettersi in gioco. Ora si rischia un’implosione. Va recuperato lo spirito del ’94.

È inutile fare finta di nulla. L’esito dei quattro quesiti referendari ha un significato politico sul quale è necessario riflettere. Che gli italiani - dopo anni e anni di totale disinteresse per le consultazioni referendarie - abbiano deciso di recarsi in massa alle urne per esprimersi su un referendum caricato di valenza politica e presentato al corpo elettorale come una occasione per colpire il governo e la leadership berlusconiana è un fatto che dimostra come il presidente del Consiglio non abbia più quegli elevati livelli di consenso dei quali era giustamente orgoglioso. E che tale analisi sia esatta lo conferma il fatto stesso che i risultati del quesito relativo al cosiddetto «legittimo impedimento», quello cioè di più diretto interesse per il premier, non siano stati molto diversi da quelli degli altri quesiti. Si potrà ben osservare come una quota parte di coloro che si sono recati al voto fossero realmente interessati al merito dei singoli quesiti e non già alle implicazioni politiche del referendum, ma non si può negare che si tratti di una minoranza e che il significato complessivo del voto sia quello di una esplicita presa di distanza dalla coalizione di centro-destra e da un premier la cui immagine pubblica appare fortemente appannata. La verità è questa. E bisogna prenderne atto. Il risultato della consultazione referendaria è netto. E si muove nella direzione già segnata dalle ultime elezioni amministrative. Denuncia l'insoddisfazione del Paese per la mancata attuazione di una politica autenticamente liberale sulle quale si erano concentrate tante attese e tante speranze. E della quale Silvio Berlusconi era in qualche misura percepito, a torto o a ragione, come l'ispiratore. Che il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, sia pure parziale, della «rivoluzione liberale» - usiamo pure questa brutta e contraddittoria espressione - non sia imputabile, tutto e solo, a Berlusconi è un dato di fatto che le persone oneste debbono riconoscere. Tanto più che, nella bilancia dell'attivo e del passivo, sono ben presenti e pesano i sintomi di rinnovamento del sistema politico nel suo complesso e i tentativi di ammodernamento e semplificazione della macchina burocratica. E basterebbe, in proposito, richiamare l'attenzione sull'alternanza politica, divenuta ormai una prassi, e sulla proposizione al corpo elettorale, in sede di campagna elettorale, di programmi di coalizione e di governo alternativi. Si tratta, rispetto alla deriva oligopolistica della prima repubblica, di vere e proprie conquiste, certamente in linea con i principi di una democrazia autenticamente concorrenziale e liberale.

La crisi di credibilità del centrodestra è, con ogni probabilità, iniziata quando, dopo il tradimento di Fini e del Fli e dopo l'inverecondo assalto giudiziario e mediatico cui è stato sottoposto, Berlusconi non ha avuto la lucidità necessaria per imporre, con un colpo d'ala, il ricorso anticipato alle urne e si è imbarcato in una campagna tesa ad acquistare consensi parlamentari e si è visto costretto a creare posti di sottogoverno per contentare gli appetiti dei sostenitori dell'ultima ora. È stata una strategia devastante che lo ha costretto a scendere a compromessi e a cedere a ricatti, più o meno manifesti. È stata una strategia che ha fornito l'impressione di un ritorno al passato, alle pratiche più nefaste della partitocrazia e della correntocrazia dei tempi che furono. Gli elettori del Popolo della libertà - coloro che avevano visto scendere in politica nel 1994 come l'incarnazione della volontà di rinnovamento e come il cavaliere dell'antipolitica trasformata in politica - non potevano che chiedersi dove fosse finito Berlusconi, il Berlusconi che conoscevano, che ammiravano, che erano disposti a seguire. Ora, davanti a loro, c'era un nuovo Berlusconi incapace di reagire di fronte alle pressioni di un Quirinale, sempre più esondante dalle sue prerogative istituzionali, e di fronte alle richieste, sempre più imperative e demagogiche di una Lega divenuta, pur essa, prigioniera dei vizi della vecchia politica a cominciare dal nepotismo. E questo nuovo Berlusconi non era più percepito come l'uomo capace di interpretare il sentire comune della popolazione e di esprimere, anche con toni provocatori ma sempre con franchezza, ciò che il cittadino qualunque pensava e, magari, non aveva il coraggio di dire apertamente. Il nuovo Berlusconi era diventato, insomma, un vecchio politico, prigioniero, forse suo malgrado, dei riti del passato e dell'oligarchia venutasi a consolidare attorno a lui. E la gestione, tutta sbagliata, della campagna elettorale per le amministrative non ha fatto che confermare questa impressione. Non credo che le vicende private di Berlusconi - così come sono state enfatizzate da una campagna mediatica e da una offensiva giudiziaria volte a screditarne, con criminale incoscienza, l'immagine pubblica soprattutto all'estero e a suggerire l'idea che l'Italia vivesse ormai una situazione da basso impero - abbiano avuto un peso determinante nell'offuscamento della sua immagine. Hanno contribuito, certo, a indebolirla, in particolare presso l'universo femminile, ma non in maniera decisiva. Credo, piuttosto, che le cause profonde del declino di Berlusconi siano, soprattutto, di natura politica: la incapacità di rendersi conto che settori del suo «popolo» - segnatamente i ceti medi tartassati - lo stavano abbandonando o stavano, quanto meno, scegliendo l'Aventino mentre le nuove leve di giovani sempre più prestavano orecchio alle sirene della sinistra radicale e antipolitica. Ma anche, diciamolo pure, la sua sordità a intervenire in maniera incisiva con un programma di ridefinizione, organizzazione, rilancio del Pdl e di tutto il centrodestra. Mi viene in mente quanto, nel febbraio del 1941, Galeazzo Ciano confidò al suo amico Giovanni Ansaldo a proposito di Mussolini: «L'uomo ha delle facoltà di autoillusione enormi. Non si rende affatto conto dello stato d'animo del popolo e dell'esercito; se questo stato gli è testimoniato da qualcuno, non vi crede». Sono parole di settanta anni fa che sembrano pronunciate oggi per Berlusconi. I risultati della consultazione referendaria - se questa analisi è esatta - segnano davvero la fine di un ciclo. Anche se, come sembra, sembrerebbe prevalere, in molti settori dell'area di centrodestra, la tentazione di sottovalutare le conseguenze politiche del voto e continuare a vivacchiare alla giornata. Sarebbe necessario un colpo di timone capace di recuperare davvero lo «spirito del '94» e far tornare a soffiare il vento della «rivoluzione liberale». Realisticamente, però, l'impresa è difficile, disperata anzi, per mancanza di idee, volontà, uomini. L'ipotesi più probabile, in mancanza di ciò, è una implosione del centrodestra. E con essa la fine di un sogno. Con lo spettro, sullo sfondo, di una crisi istituzionale perché il centrosinistra, quand'anche riuscisse vincitore in una prossima consultazione elettorale, non sarebbe capace di governare, diviso com'è su tutto tranne che sull'odio nei confronti di Berlusconi. Povera Italia.

di Francesco Perfetti  [Fonte



La diabolica analogia con Craxi

Dalle elezioni anticipate snobbate alle consultazioni sottovalutate. Silvio ripete gli errori commessi da Bettino nella sconfitta del ’91.

Il leader del Psi Bettino Craxi Per quanto sgradevoli possano comprensibilmente apparire a Silvio Berlusconi, le analogie fra i referendum appena celebrati e quello del 1991 sulla preferenza unica, nel quale inciampò Bettino Craxi, sono diventate troppe e troppo evidenti per essere negate. Peraltro, esse non si limitano ai referendum in sé, ma riguardano anche, o ancora di più, il contesto politico e i possibili effetti. Cominciamo proprio dal contesto. Vent'anni fa Craxi si lasciò scappare l'occasione delle elezioni anticipate, che gli avrebbero permesso di dare forse il colpo di grazia politico al Pci, reduce da un sofferto e imbarazzante cambio di nome e di simbolo impostogli dal crollo del comunismo. Fu un errore, com'è stato probabilmente quello commesso da Berlusconi nei mesi scorsi, quando avrebbe fatto forse meglio ad investire appunto nelle elezioni anticipate la debacle del suo ormai ex alleato Gianfranco Fini. Che si era unito ai vari Bersani, Di Pietro e Casini nel tentativo di rovesciarlo in Parlamento. Le elezioni anticipate avrebbero permesso a Craxi anche di disinnescare con un rinvio la trappola del referendum contro le preferenze plurime, così come a Berlusconi la trappola dei tre referendum di questa tarda primavera. Le stesse elezioni amministrative di maggio si sarebbero svolte in un quadro assai diverso. Eppure il carattere politicamente e mediaticamente pericoloso di questi referendum, sui quali Antonio Di Pietro non a caso aveva messo il cappello, era stato ben avvertito dal presidente del Consiglio. Che ne aveva fissata la data il più lontano possibile, nell'ultima domenica utile della finestra referendaria fissata dalla legge, per scoraggiare l'affluenza alle urne sulla soglia dell'estate. Anche nel 1991 si votò verso metà giugno: il 9 e 10. La trappola nel caso di Berlusconi era diventata ancora più grossa ed evidente dopo l'incidente di Fukushima, che aveva caricato di ulteriore paura la prova referendaria contro il nucleare interessando ancora di più gli elettori e spingendoli ai seggi. Dove avrebbero trovato anche le schede dei due referendum sull'acqua e di quello sul legittimo e temporaneo impedimento processuale del presidente del Consiglio e dei ministri. Pur consapevole di tutto questo, il Cavaliere ha imprudentemente pensato di saltare l'ostacolo con un atteggiamento di contraddittoria e discontinua indifferenza. Che fu adottato vent'anni fa anche da Craxi. Il quale non si rese conto che il referendum contro le preferenze plurime, e a favore della preferenza unica, era un treno su cui era stata caricata tant'altra merce ad altissimo rischio, come l'insofferenza per una classe politica considerata inamovibile e per un sistema immobile, con la conseguente volontà di cambiare cose e uomini. Come Craxi nel 1991, così Berlusconi vent'anni dopo ha snobbato i referendum definendoli «inutili», ha evitato di difendere le leggi contestate dai referendari, pur avendole fatte approvare lui in Parlamento, diversamente dalle preferenze plurime in vigore sin da quando Craxi portava ancora i calzoni corti, o quasi. E, snobbandoli, il Cavaliere ha anche strizzato l'occhio all'astensionismo, sollecitato da Craxi con l'ormai tristemente famoso ma fuggevole invito ad andare al mare, convinto che sarebbe bastato a far mancare il cosiddetto quorum di partecipazione. Ricordo come fosse ieri lo scontro che dopo quell'invito ebbi con lui, che pure apprezzavo ed avevo convintamente sostenuto dal suo arrivo alla segreteria del Psi, nel 1976. Gli dissi che era un errore non intraprendere e chiedere agli alleati una grande e aperta campagna, non tra una battuta e l'altra con i giornalisti, per difendere, magari anche con l'assenteismo, i diritti degli elettori insultati dai referendari con la storia del commercio dei voti di preferenza. Io i miei non li avevo mai venduti. E chi lo avesse fatto, avrebbe continuato a vendersi anche l'unica preferenza lasciatagli dal referendum, o il semplice voto di lista. Lui mi rispose che, troppo preso dall'impegno della direzione de Il Giorno, non mi rendevo conto che di quel problema importava poco al pubblico. Rimasi allibito ancora di più la sera del 10 giugno, quando la vittoria dei referendari risultò travolgente e lui mi telefonò non per ravvedersi, ma per escludere che la situazione politica potesse ulteriormente complicarsi: un po' come stanno facendo adesso dalle parti del Cavaliere. Rispetto alla vicenda referendaria del 1991, quella appena conclusasi in questa declinante primavera ha purtroppo un segno ancora più negativo. Craxi era allora solo il segretario di un partito pur determinante di una coalizione di governo guidata da Giulio Andreotti. Invece Berlusconi è il presidente del Consiglio. Al quale francamente pochi hanno dato una mano, nel suo stesso partito, per ridurre gli errori o coprire le falle. Per quanto incerta e scarsamente motivata, la scelta del Cavaliere di disertare le urne referendarie è stata incredibilmente e gravemente smentita da esponenti anche autorevoli del Pdl, che sono non andati ma corsi alle urne per esibire le loro schede elettorali ai fotografi. Penso, per esempio, al sindaco di Roma Gianni Alemanno e alla «governatrice» della regione Lazio Renata Polverini. O al ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ancora l'altra sera giocava con i giornalisti a fare l'incerto. Almeno con Craxi non ricordo francamente socialisti di qualche peso che avessero vent'anni fa aggravato i suoi errori smentendolo con pose ufficiali. Lo scollamento del Pdl è stato pari a quello della Lega, visto, per esempio, che mentre Umberto Bossi ha proclamato il suo rifiuto di votare, come fece ai tempi di Craxi, anche se a subirne i danni allora fu solo il leader socialista, il «governatore» leghista del Veneto Luca Zaia, sino all'anno scorso ministro dell'Agricoltura, ha ostentato i suoi quattro sì per essere in sintonia - ha detto - con la sua «gente». Le armate Brancaleone fanno tutte e sempre guai, di qualsiasi colore siano le loro camicie: rosse, azzurre o verdi.
 
 di Francesco Damato

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Piccoli martiri crescono: Fazio imita il profeta Santoro Frigna: "Non lavoro". Poi lo confermano

Fazio usa lo stratagemma caro al teletribuno di Annozero. E 'Che tempo che fa' resta nei palinsesti

D’un tratto sono tutti affezionatissimi alla televisione pubblica. Si sciolgono in mille moine, esibiscono zuccherosità da libro Cuore, i loro discorsi sono una sfilza di «la mia Rai», la «Rai in cui lavoro da 28 anni», la Rai che ha realizzato i sogni di «mio padre ferroviere». Poi la grande rinunzia, il supremo gesto d’amore, la dichiarazione solenne: per la Rai sono disposti a lavorare anche gratis o al costo di un euro a puntata, che è lo stesso.

Prima è arrivata la sparata di Michele Santoro, secondo cui l’emittente di Stato vive esclusivamente grazie ai soldi di pubblicità raccolti da Annozero. Ieri, a rimorchio, è toccato a Fabio Fazio, il quale conferma la sua originaria vocazione d’imitatore. Come imitatore si fece conoscere nel programma Jeans, negli anni Ottanta; sempre in qualità di imitatore ora copia tutto quello che fa Santoro. San Michele piagnucola perché gli vogliono impedire di far politica in video? Fabio fa passare due giorni poi piagnucola pure lui. Michele vuol lasciare la Rai per spostarsi a La7? Passano due ore e Fazio dichiara - ospitato in prima pagina su Repubblica - che se ne andrà altrove. Dove? Non è dato sapere, bisognerà attendere la decisione di Santoro, che Fabio puntualmente imiterà.

Per ora ci godiamo la caricatura di un martire catodico. Sproloquiava ieri Fazio sul quotidiano di Ezio Mauro: «Non sono più disponibile a ripetere l’esperienza di Vieni via con me in questa Rai. Se altrove troverò le condizioni necessarie, l’entusiasmo e la condivisione del progetto, il Pubblico potrà ritrovare presto me e Saviano di nuovo insieme». Ma chi sono questi due, da dover andare sempre in coppia, Simon&Garfunkel? Più probabilmente Starsky&Hutch, considerata la passione per le manette a senso unico. E, soprattutto, perché Fazio infila maiscole dappertutto («Pubblico»; «Direttore»; «Televisione»; «Editore»)? Forse vuole imitare la prosa di Adriano Celentano sul Fatto...

La lamentazione su Repubblica è un calco di quella avanzata da Santoro in prima serata su RaiDue. Secondo Fazio, non è accettabile «la riuncia alle garanzie minime indispensabili per continuare a svolgere il mio mestiere nello stesso identico modo in cui si è svolto fino ad oggi». Lui vuole «andare in onda con Che tempo che fa sulla stessa rete, nello stesso orario e per la stessa durata» (perché non chiedere in aggiunta la sentenza di un giudice che cementi il palinsesto?). Pretende di «avvalermi della presenza di Gramellini, dell’appuntamento irrinunciabile con Luciana Littizzetto e naturalmente di Roberto Saviano». Queste «garanzie», afferma, «non sono mai arrivate». Il resto della straripante missiva è un magma strappalacrime dai toni apocalittici: il centrodestra non ama RaiTre, i miei programmi fanno un sacco di ascolto però non sono graditi, ho scritto una letterina al direttore generale (anzi «Direttore») Lorenza Lei ma non mi ha ancora risposto... In sostanza, è il classico ricatto alla Santoro. Unica differenza: Fazio ha molte meno ragioni per lamentarsi.

Intanto, come lui stesso specifica, «nel mio caso (...) l’accordo economico è stato immediatamente trovato». Michele, al massimo, potrebbe aver qualcosa da ridire sui contratti di Marco Travaglio e Vauro. L’amico Fabio no. Lo scorso inverno, dopo aver sventolato per settimane lo spauracchio della censura, a suo parere aleggiante su Vieni via con me, è tranquillamente andato in onda a contestare il governo, a dire che la Lega «interloquisce» con la mafia e vieni via di questo passo. A Che tempo che fa invita chi gli pare, e ci mancherebbe, ma abbia il buon gusto di non recitare la parte del perseguitato, visto che a Luciana Littizzetto è concesso di insultare con regolarità la Chiesa, il centrodestra e chiunque non le piaccia. Quanto alla sorte di RaiTre, ieri il cda della Rai ha approvato i palinsesti: tutto confermato, tutto come prima. E i contratti, ha spiegato un’irritata Lorenza Lei, saranno presto firmati, compresi quelli di Gabanelli, Dandini e Floris. Di che lagnarsi, allora? Di nulla. Trattasi del consueto ricattino per ottenere più soldi (o almeno la stessa cifra degli anni passati), più visibilità, più autopromozione.

Fabio ha capito dove tira il vento e fa il santorino senza galloni, imita poiché è programmato per scimmiottare. Di Santoro, però, ci basta già l’originale. Riguardo agli imitatori, poi, meglio Corrado Guzzanti: lui almeno fa ridere, Fazio tutt’al più commuove.

di Francesco Borgonovo

martedì 14 giugno 2011

Qualcuno ricorda quel tempo in cui l'avvocato Pisapia sparava a zero sul giudice Di Pietro?

Oggi costretti a convivere, ma in passato il sindaco di Milano criticava Tonino: "Arresti per le confessioni"

Politica significa scendere a patti col diavolo o addirittura con Di Pietro. Non esiste passato, non esiste memoria: altrimenti mettere insieme tre personaggi come loro - Antonio Di Pietro, Giuliano Pisapia e Bruno Tabacci - risulterebbe impossibile. È vero, alla fine l’Italia dei valori non è entrata nella giunta milanese: ma spunteranno altri incarichi, perché la politica è questo. Resta da chiedersi: ma come fanno? Non si fa politica col risentimento, è vero, ma lo stesso: come fanno?

Cominciamo con Bruno Tabacci, uno che a poco più di trent'anni dirigeva l'ufficio studi del Ministero dell’Industria e in seguito ha diretto la segreteria tecnica del Ministero del Tesoro. Dal 1987 al 1989 è stato presidente della Regione Lombardia e ha affrontato brillantemente l'emergenza dell'alluvione in Valtellina, poi è arrivato Di Pietro e gli ha rovinato la vita. No, non solo con Mani pulite: prima ancora. Nel 1989 Tabacci fu indagato nella cosiddetta inchiesta «Oltrepò Pavese» (che verteva su anomale distrazioni della Protezione Civile a favore di un centinaio di parroci) ma dopo un po’ di frittura fu prosciolto una prima volta. Però aveva già tratto un’impressione precisa: «Di Pietro», disse, «era ansioso di utilizzare le inchieste anche per la pubblicità che gliene derivava sui giornali. Un furbo. Ho scoperto dopo che le mie frequentazioni milanesi erano più prudenti delle sue».

Poi, eletto deputato nell’anno di Mani pulite, la procura di Mantova notificò a Tabacci quattro avvisi di garanzia, e chiese anche l’autorizzazione per arrestarlo: per scongiurare che scattassero le manette dovette intervenire il pidiessino Giovanni Correnti. Ma nel 1996 Tabacci fu prosciolto ancora. Poi, nella primavera 1993, riecco Di Pietro a chiedere l’autorizzazione a procedere sempre contro di lui: ricettazione e finanziamento illecito dei partiti. E Tabacci, nel marzo 1996, fu assolto anche per questi due reati. Morale: per colpa di Di Pietro era stato decapitato come presidente della regione Lombardia, come segretario regionale della Dc e come aspirante ministro: anzi, a margine dell’ultimo proscioglimento, nel 1996, Tabacci dovette avvedersi che ministro, semmai, era divenuto il suo accusatore. Ecco: come fanno? Come fa, lui, a stare dalla stessa parte di uno come Di Pietro? Come è possibile che nel gennaio 2008, a proposito di nuovi partiti, si leggesse addirittura di una fantomatica «cosa bianca» condivisa da Tabacci e Di Pietro?

Poi c'è Giuliano Pisapia, che non era soltanto l'avvocato di Tabacci: era e resta un garantista coi fiocchi, figlio di quel professor Giandomenico Pisapia che era stato relatore del nuovo Codice Penale varato nel 1989. Doveva essere una rivoluzione copernicana, quel Codice: nelle intenzioni si proponeva la terzietà del giudice, la pari dignità giuridica tra accusa e difesa, la custodia cautelare come extrema ratio, la segretezza delle indagini, la pubblicità del processo, soprattutto la prova e il contraddittorio che dovevano formarsi rigorosamente in aula. E chi è stato il prim'attore nello stravolgimento del Nuovo Codice, simbolicamente ma anche praticamente? Lui, quel Di Pietro che Pisapia aveva già conosciuto quando istruiva sconosciutissime indagini sulle messaggerie telefoniche del Videotel: «Di Pietro», ha raccontato Pisapia, «fece scattare un grosso blitz: senza seguire le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal Nuovo codice, furono prelevate alle 6 di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al Codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la racconta di dichiarazioni utili». Un'inchiesta finita in nulla.

Poi lo aveva incontrato ancora nell’inchiesta cosiddetta Patenti facili, un'istruttoria estenuante durante la quale Di Pietro chiese assoluzioni e derubricazioni per gli stessi reati che pure gli avevano consentito arresti di massa. Disse Pisapia: «L'ho conosciuto all'interrogatorio di un'anziana titolare di una scuola guida che era stata convocata a piede libero ma con modalità estranee al Codice, e cioè non con un formale invito a comparire in Procura ma con una telefonata e in una caserma della polizia stradale. Pochi giorni dopo ho ritrovato Di Pietro all'interrogatorio di un funzionario della Motorizzazione civile, arrestato. Tutte e due furono prosciolti: la donna già alla fine delle indagini preliminari, l'uomo in appello, dopo aver scontato numerosi mesi tra carcere e arresti domiciliari. Da subito emerse chiaramente la sua concezione dell'arresto o della minaccia all'arresto, troppo spesso finalizzato alla ricerca della prova, della confessione». Ora quell'uomo è suo alleato politico, suo e di Bruno Tabacci. Non esiste passato, non esiste memoria.

di Filippo Facci

Referendum, Bersani esulta ma il Pd ammette: "Se Berlusconi si dimette, noi siamo nei guai"

In realtà dietro la strategia del Partito democratico ("Berlusconi vada al Colle e si dimetta") si nasconde la loro unica vera preoccupazione. Un passo indietro del Cavaliere "spariglierebbe i giochi e metterebbe in grossa difficoltà noi", il Pd pensa a un governo di transizione insieme al Carroccio. Ma Berlusconi assicura: "Nessuna spallata". Però teme uno strappo dal Senatur.

Per paradosso, proprio il tonante ultimatum che il Pd, segretario in testa, dà al governo («Berlusconi vada al Quirinale e si dimetta») nasconde la loro unica preoccupazione, nel giorno del trionfo referendario.

Se davvero il premier, a sorpresa, facesse un passo indietro e aprisse la strada ad un altro governo di centrodestra, magari aperto al sostegno del centro e persino di pezzi di sinistra in nome del bene del paese e della crisi economica «spariglierebbe i giochi e metterebbe in grossa difficoltà noi», come ammette la vicepresidente Pd Marina Sereni. Riaprendo i giochi per chi nel Pd immagina governi tecnici o “transizioni” più o meno lunghe prima del voto. Cui invece punta Bersani, che spera nella Lega (tendenza Maroni) per staccare la spina al governo, in cambio di un ritocco della legge elettorale che renda il Carroccio autonomo da quorum nazionali, premi di maggioranza e alleanze forzate.

Ma l’eventualità, al momento, appare remota, e questo mette a tacere dentro il Pd ogni altra voce, da quella di D’Alema a quella di Veltroni, e rafforza un Bersani che ormai non teme più neppure le primarie di coalizione contro Vendola: «Se adesso le chiedesse, a noi toccherebbe frenare perché in questa situazione stravince», sospira un dirigente di Sel.

L’opposizione si gode il bis dell’entusiasmo post amministrative. In un clima di fair play che non si vedeva da anni, a sinistra: sarà pur vero che il Pd sul carro dei referendum c’è salito in corsa e pure all’ultimo chilometro, e con molti mal di pancia interni e contraddizioni di linea; ma i partiti promotori - Italia dei Valori e Sel - si guardano bene dal rinfacciarglielo. Anche se da Sel già avvertono che «il referendum dice chiaro che il programma del nuovo centrosinistra dovrà ripartire da lì: altro che liberalizzazioni e anti-sindacalismo alla Marchionne», come dice Gennaro Migliore. E in casa Pd i riformisti già sono in allarme: «Così finirebbe come nel 2008: si vince e poi non si riesce a governare», dice Francesco Boccia.

Di Pietro, che i quesiti sul nucleare e il legittimo impedimento li ha voluti e promossi da solo, raccogliendosi le firme tra l’indifferenza e i rimbrotti democrat (e infatti ora da solo incasserà i 400mila euro di rimborso elettorale), è diventato ecumenico come un aspirante vescovo e non rivendica alcuna primazia sulla vittoria, né sbeffeggia come un tempo i riflessi lenti del Pd. L’unica bacchettata che riserva a Bersani serve a scavalcarlo a destra: l’ex pm lo zittisce sulla richiesta di dimissioni del premier: «Noi le abbiamo chieste da tempi non sospetti. Ma farlo ora in nome dei risultati referendari è una strumentalizzazione».

Una svolta moderata in piena regola, quella attuata nelle scorse settimane da Di Pietro. E chi sospettava si trattasse solo di tattica, al fine di rafforzare la campagna referendaria, deve ricredersi: l’ex pm sprizza buonsenso da ogni poro e annuncia la nascita di una «Idv 2, che parlerà meno di criminalizzazione dell’avversario, più di capacità di voler fare meglio». E chiama a testimone Bersani, con il quale «ci sentiamo spesso e siamo dello stesso avviso», pronti a «dimostrare ai cittadini di voler governare».

In realtà, spiegano le malelingue del Pd, Di Pietro sta - con grande prontezza di riflessi - cercando una via d’uscita dal vicolo cieco: la batosta elettorale presa da Idv alle amministrative rendono necessaria come il pane, per lui, una stretta intesa con il Pd. «La sua paura - spiega un dirigente bersaniano - è che si costruisca un’alleanza con Sel a sinistra e Casini a destra che lo tagli fuori: senza apparentamento elettorale, rischia di non tornare in Parlamento». Di qui la svolta dell’ex giustizialista: Di Pietro non vuol dare pretesti per metterlo ai margini. Ora, ripetono nel centrosinistra, si tratta di vedere cosa accade nella maggioranza, che sulla carta i numeri per resistere in Parlamento li ha ancora. Il cerino lo ha la Lega, divisa come il Pd dei bei tempi. E in vista della «verifica» del 22 giugno Bersani non vuol presentare mozioni di sfiducia che «servirebbero solo a frenare le spinte centripete» nella maggioranza.
Ultimissime: Opposizione in panne. 
Bersani sceglie di non scegliere: "Vediamo prima cosa fanno loro"
Anche Di Pietro rinuncia alla spallata: "Ci sono troppi traditori in parlamento" .

Caso Ruby, è 'Full Metal Ilda':"Ci fu un attacco militare"

Crociata Boccassini contro il Cav.: " La notte di Krima ci fu un accerchiamento militare". 
Di chi? "Della Minetti e della Conceicao..."

Spazzato via dai referendum quel che restava del legittimo impedimento, riprende la crociata giudiziaria contro Silvio Berlusconi. Nel giorno delle repliche del pm Ilda Boccassini alle 16 eccezioni priliminari poste nelle scorse udienze della difesa del Cavaliere nell'ambito del caso Ruby, il pool meneghino non esita a parlare di "un attacco militare". Orchestrato da chi? Dal premier, ovviamente. Secondo la Boccassini, la notte tra il 27 e il 28 maggio 2010, quando Ruby, secondo l'accusa, fu rilasciata dopo le telefonate di Berlusconi, in Questura si è verificato "come un attacco militare".

Full Metal Ilda - Quali le poderose truppe di terra? Chi gli intrepidi marines che, un po' come al fronte di Hué nel celebre Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, hanno provato ad assediare il palazzo meneghino? La consigliera regionale Nicole Minetti e la brasiliana Michelle Conceicao, spiega la Boccassini, senza che le sfugga nemmeno un sorriso. 

La pm non ha esistato a utilizzare l'improbabile immagine militare, tradendo, ammesso che ce ne fosse ancora bisogno, lo spirito che anima il pool di Milano. Ilda ha aggiunto che le indagini hanno ricostruito attraverso le celle telefoniche "tutto il tragitto" che ha portato la Minetti in Questura quella notte. "Poco dopo la consigliera regionale - ha aggiunto la Boccassini -, anche la Conceicao aveva saputo che la minore era in Questura". 
Dunque, per il procuratore aggiunto, la notte in cui Ruby venne rilasciata e poi affidata alla consigliera regionale "abbiamo avuto un accerchiamento militare e si è diretto in Questura".

Quindi la Minetti e la Conceicao sono due militari di professione che, agendo agli ordini del loro comandante, il Cav., hanno accerchiato la Questura di Milano. 
Per farci cosa?

 [Fonte]

sabato 11 giugno 2011

Masi ha fatto la scoperta dell'acqua calda!

Da quando è iniziata la storia della repubblica italiana,  si è creata una classe politica che vive esclusivamente di questo.

Questi pseudo "professionisti" della politica sono, nella stragrande maggioranza,  appartenenti ai partiti di sinistra o ai loro sindacati.
Tre nomi per tutti: D'Alema, Veltroni, Bertinotti!  

A questa categoria si aggiungono i "professionisti" tout court: giornalisti, pubblici ministero, architetti, ingegneri, commercialisti, ma anche imprenditori, industriali ecc. 

Quindi quello che ha dichiatrato l'ex direttore generale della RAI non è una novità, anzi ne è la ulteriore conferma.

Masi: Santoro usa politica per far soldi

(ANSA) - ROMA, 11 GIU - 'Ho trattato certi intoccabili per quello che veramente sono. Individui che utilizzano la battaglia politica per ottenere piu' potere e piu' soldi'.Cosi',l'ex direttore generale della Rai, Mauro Masi, in un'intervista al Giornale parla della sua esperienza alla guida dell'azienda rediotelevisiva. Riguardo alla telefonata in diretta alla trasmissione Annozero e alla provocazione di Santoro nei suoi confronti, aggiunge: 'volevo un franco dibattito da uomo a uomo, ma bisogna essere in due uomini'.

venerdì 10 giugno 2011

Gli ex comunisti fra tutti gli italioti sono i più smemorati in assoluto!

Eccone un'altra prova provata della loro "superiorità" intellettuale. Si fa per dire!!!


Referendum, e la sinistra disse: "Non votare è un diritto di tutti"

Il Cav fa sapere che non andrà a votare. Ed è subito bagarre. D'Alema: "Se si è contrari a un quesito referendario ci si batte per il no e non per stare a casa. E' un messaggio brutto e di debolezza". Ancora più duro Grillo (
Qui la sua storia, NdB): "Chi non vota commette reato" (Quale reato pensano sia i suoi editori/suggeritori della Casaleggio Associati? NdB). 

Ecco cosa pensavano i Ds nel 2003: "Non votare un referendum inutile e sbagliato è un diritto di tutti". Oggi pur di portare la gente ai seggi offrono le "colazioni sociali" a chiunque presenti la tessera elettorale timbrata.

Roma - In piazza del Popolo la manifestazione "Io voto". Nei Palazzi gli anatemi dei big dell'opposizione che attaccano duramente il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per aver detto che non andrà alle urne. "Un Paese democratico che dice 'non vado a votare' non è un bel messaggio, è un messaggio brutto. Se si è contrari a un quesito referendario ci si batte per il no e non per stare a casa. E' un messaggio brutto e di debolezza, non di forza". Parola di Massimo D'Alema.

Ma cosa dicevano i Ds nel 2003?

Era il 15 giugno e gli elettori furono chiamati a votare per due referendum. Il più importante quello che riguardava l'abrogazione delle norme che stabiliscono limiti numerici ed esenzioni per l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Allora la sinistra scese in piazza per dire che "non votare un referendum inutile e sbagliato è un diritto di tutti: lavoratori e non". I manifesti bianchi con un enorme "non" rosso a tutta pagina avevano fatto il giro del Paese per sensibilizzare la popolazione a far di tutto per evitare di raggiungere il quorum. Ce la fecero.

Ma oggi gridano contro tutti quelli che hanno detto apertamente che non andranno alle urne. A distanza di pochi anni, infatti, la sinistra sembra aver cambiato completamente opinione. Dico sembra perché, in realtà, essere pro o contro un referendum è una questione di mera strumentalizzazione. "Per un Berlusconi che sta a casa ci sono migliaia di italiani che capiscono che bisogna andare a votare - spiega D'Alema - è importante che si torni a raggiungere il quorum, sarabbe un grande segnale di salute della democrazia che è un bene comune, come l’acqua". Durissimo anche il segretario piddì Pier Luigi Bersani per cui è "disdicevole che chi giura sulla Costituzione non senta il dovere di dare un messaggio di civismo". Infine la stoccata finale (che suscita moti di ilarità): "Noi partiti di alternativa manteniamo con coerenza il nostro atteggiamento: diamo una mano ai movimenti per uscire insieme, nel rispetto reciproco, da un periodo buio". Quando si dice coerenza.

C'è chi riesce a far di peggio. Per esempio Beppe Grillo che spara: "Chi non vita commette un reato". Non è una delle solite battute del comico genovese. Ci crede. Come ci crede tutta l'opposizione che ha voluto caricare il referendum di un pesante significato politico: "Se vinciamo, Berlusconi deve andare a casa". Lo stesso Matteo Renzi, sindaco di Firenze, teme che sia stato un grave errore, "perché si offre a Silvio Berlusconi la possibilità di una rivincita".

Ad ogni modo, in queste ultime ore il centrosinistra le tenta tutte per portare a votare quante più persone possibile. Ogni espediente è buono. Non manca chi come il Pd si mette addirittura ad offrire la colazione. Cappuccio e brioche. E la torta, pure. Succede a San Terenzo, in Liguria. Il circolo Pd ha infatti aderito all'iniziativa Una colazione da battiquorum: domenica mattina sarà aperto per offrire "una colazione democratica a tutti coloro che andranno a votare al referendum". Non sono gli unici. Anche il Popolo viola organizza appuntamenti simili. Cosa non si fa per portare le persone a votare?

di Andrea Indini

sabato 4 giugno 2011

gIUSTIZIA: due pesi e moltissime misure. Quale certezza del diritto?

Come possiamo stare tranquilli quando leggiamo notizie così diverse fra loro, ma inerenti lo stesso oggetto?

Un giudice monocratico condanna il solito Berlusconi ad un risarcimento astronomico, circa 1.500 miliardi delle vecchie e buone lirette, quindi portando l'Italia, si fa per dire,  al pari degli Stati uniti d'America.

Una attrice viene coinvolta innocentemente in un traffico di droga e messa agli arresti domiciliari per cinque mesi per poi essere riconosciuta innocente.
Viene risarcita con 60,000 euro...

Da queste due ultime sentenze se ne deduce che un danno ipotetico e perciò irreale ed astratto di mancato guadagno del pregiuduicato reo confesso ing, Carlo De Benedetti,  vale una cifra astronomica, mentre la libertà e la carriera distrutta e quindi i mancati guadagni di Serena Grandi valgono, al confronto, quanto un piatto di lenticchie.

Viva l'Italia!

La notizia:

Serena Grandi risarcita per ingiusta detenzione 60mila euro, meno del cachè di un film. Serena fu arrestata per droga, ma era innocente. E ora solo briciole per una carriera stroncata.


Serena Faggioli, in arte Serena Grandi (classe 1958), sarà risarcita con 60 mila euro dallo Stato italiano per «ingiusta detenzione». Lo ha deciso la Corte d’appello di Roma accogliendo l’istanza di riparazione «per danni morali e materiali». C’è chi parla di riscatto, in realtà è ben poca cosa. Un contentino pari a 60 mila euro, che la sex symbol del cinema negli anni Ottanta e Novanta, per il suo corpo giunonico considerata tra le principali pin-up italiane, guadagnava con un film.
Bolognese di nascita, romana di adozione, l’attrice fu sottoposta agli arresti domiciliari per oltre cinque mesi, tra il novembre 2003 e l’aprile 2004 per l’inchiesta su un giro di droga e prostituzione che coinvolse anche ambienti della Roma bene, vip e professionisti schiavi del vizietto della sniffata. La Grandi fu accusata di aver acquistato, detenuto e ceduto ad altri alcuni grammi di cocaina. Ma dopo sei anni di inchiesta la sua posizione è stata archiviata.
L’avvocato Valerio Spigarelli, legale di Serena Grandi, aveva giustamente chiesto un risarcimento di 500 mila euro per le conseguenze patite dalla sua assistita. Ma la Corte d’appello di Roma, presieduta da Giampaolo Fiorioli, pur condividendo le argomentazioni del legale, non si sono avvicinati neanche un po’ alla cifra richiesta. Secondo i giudici la «detenzione ai domiciliari ha prodotto nell’attrice danni morali e materiali ingenti» e tra questi «danni psicofisici costituiti da uno scompenso ormonale di rilevante gravità e da uno stato di depressione acuta», oltre a danni conseguenti alla «lesione dell’immagine e della rispettabilità sociale nonché professionale, con riferimento particolare al mancato perfezionamento di numerose trattative, tra cui quella relativa alla partecipazione all’Isola dei Famosi». L’ingiusta detenzione di Serena Grandi viene liquidata così.
I più maligni ricordano però che l’attrice - arrivata giovanissima nella capitale con il sogno di recitare a Cinecittà, dopo un periodo di successo - è uscita dalle scene ancor prima dell’inchiesta giudiziaria. Di sicuro si faceva vedere meno. Certo non come quando Tinto Brass la scoprì (era il 1985) e le fece fare la protagonista di “Miranda”, il film che la lanciò nell’immaginario collettivo come icona dell’abbondanza e delle forme prorompenti. Amata, corteggiata e vezzeggiata. Un matrimonio con Beppe Ercole dal quale nel 1989 ha avuto un figlio, Edoardo.
Seguirono altri film, “La signora della notte”, ”L’iniziazione”, “Desiderando Giulia”, dove continuò a interpretare il ruolo che Brass le aveva cucito addosso, quello di donna ambigua che si destreggia fra amori e tradimenti. Lavorò con Dino Risi, Sergio Corbucci, con Lamberto Bava, vinse il Telegatto nel 1990 per la fiction televisiva “Donna d’onore”. E di nuovo al suo primo amore: il cinema di Tinto Brass con “Monella”.
Poi il silenzio: le vicende giudiziarie la tengono lontana da tutto e da tutti. Riappare appesantita nei panni di locandiera a “Il ristorante”, reality show di Raiuno. Ma quei chili di troppo non riesce più a perderli. Torna al cinema con Pupi Avati in “Il papà di Giovanna”. E nel 2010 nel film “Una sconfinata giovinezza”. La stessa sconfinata giovinezza che Serena prova a vivere anche fuori dal set. A 52 anni si lascia travolgere da un amore quasi adolescenziale, con il modello siciliano di 25 anni, Valentino Lepro. Fotografata lo scorso settembre, avvinghiata al modello tra le onde del mare di Malindi in Kenya, al settimanale Oggi la Grandi diceva: «Un giovane amore aiuta una donna a sentirsi sempre desiderabile. Ho tanto sofferto in passato che mi merito questa boccata d’aria pura, una parentesi di gioia e di freschezza».

di Daniela Mastromattei

[Fonte

Consigli non so darne, ma ricordare le cose del passato SI!

Tutti pronti a salire saul carro del vincitore ed a scendere da quello ritenuto perdente è il classico sport italiota. 
Basta leggere l'ultimo articolo pubblicato dal prof. Ernesto Galli della Loggia sul Corsera. Articolo che. ovviamente, viene richiamato dal nuovo direttore de il Riformista, l'ex comunista Macaluso, dispensatore di consigli - non richiesti - ai suoi avversari politici.

A questo canuto signore desidero ricordare soltanto alcune "piccole" cosette del passato:
l'eccidio degli ufficiali polacchi da parte di Stalin;
le foibe del nord-est d'Italia;
la svendita dei territori italiani alla Iugoslavia di Tito;
la guerra civile post II guerra mondiale:
la Carta costituzionale del 1°compromesso storico: De Gasperi-Togliatti:
i fatti di Budapest in Ungheria;
i fatti di Praga in Cecoslovacchia;
le agevolazioni alle COOP;

le agevolazioni o leggi in favore dei sindacati;
le intereccettazioni: "abbiamo una banca".
In ultimo, ma non ultima cosa: ha letto il libro: FALCE E MARTELLO?
Lo faccia è molto istruttivo sul comportamento dei suoi ex compagni delle COOP, della ex ministro Melandri e di Bersani. 

Mi fermo qui altrimenti la lista riempierebbe qualche migliaia di pagine.  

 Ebbene, per gli ex comunisti nostrani, soltanto la caduta del muro di Berlino ha aperto, in parte, i loro occhi e fatto capire che un'epica infausta, in Occidente, era terminata per sempre. 

Aperto gli occhi in parte perchè, da noi, dove gli strascichi del predominio "intellettuale" sinistrorso continua a fuoreggiare, specialmente nelle scuole e nella televisione pubblica, gli avversari politici degli ex comunisti sono nemici da abbattere a qualsiasi costi e senza mezzi termini, anche a costo del ridicolo.

Infine chiedo all'ex compagno Macaluso: perchè i suoi colleghi di partito, Veltroni e D'Alema hanno mandato le loro figlie a New York (USA) e non in CINA o Corea del Nord, oppure a Cuba?
Con un ultima precisazione: chieda al mai stato comunista Veltroni perchè ha comprato casa a New York e non a Pechino.
Con quali soldi? Li ha dichiarati per l'esportazione?
 Cosa, quest'ultima, che la magistratura romana ha preferito non indagare, sul cognato del bolognese Fini,  per l'acquisto della casa di Monte Carlo.


Questo l'articolo-consiglio di Macaluso:

I consiglieri del Principe

di Emanuele Macaluso

Vorrei dare qualche consiglio ai consiglieri del Presidente del Consiglio (un bel pasticcio) anche se so bene che non saranno ascoltati, forse nemmeno letti. Io tento, anche perché il ragionamento che faccio può avere un interesse generale. Il Cavaliere è in grave difficoltà e i suoi comportamenti goffi, in Francia durante il G8 e in Italia nel corso degli incontri e a margine della manifestazione del 2 giugno, sono una conseguenza di un incitamento degli “amici” a mostrare di esserci.
E di esserci con la disinvoltura di sempre. Un disastro. Al Cavaliere bisognerebbe spiegare che tutti gli uomini politici che hanno avuto ruolo nel governo del loro paese, hanno concluso, quasi sempre, con dignità la loro missione. I governanti capiscono, o c’è chi glielo fa capire, quando la parabola è in discesa e bisogna chiudere una fase politica. In Italia, invece, con Berlusconi si sta verificando un fatto inedito: non è solo lui a “resistere” ma anche i suoi consiglieri, i suoi amici, i suoi adoratori. Eppure, il Cavaliere non è privo di intuito, non si può certo dire che non sente in che direzione spinge il vento.
Nel 1994, quando scese in campo, capì che liquidati i partiti aveva davanti a se un’autostrada e che a sbarrargliela non sarebbe stata la macchina elettorale occhettiana. La sinistra e i popolari nel 1994 non indicarono nemmeno un candidato alla guida del governo che proponevano.
Nel Pds la maggioranza occhettiana pensava (ma non diceva) che doveva essere lo stesso Occhetto. Un disastro. Il Cavaliere e i suoi consiglieri capirono tutto e vinsero. E nel corso di questi anni, anche quando Prodi vinceva, il carisma di Berlusconi sconfitto, nella metà degli elettori, restava alto. Ci vuole molto a capire che non è più così? Eppure nel Pdl, e fra i suoi consiglieri, non c’è nessuno che con onestà e amicizia gli dica come stanno le cose.
C’è veramente qualcuno che dopo la nomina del “segretario” del partito padronale (Alfano o un altro non cambia nulla) pensi che si sia data una soluzione a qualcosa? Sono mossette che servono a dire al Cavaliere “bravo, resisti”. Fra pochi giorni ci saranno i referendum su quattro leggi fortemente volute dal Cavaliere. Fra queste quella che porta il nome di Alfano, il legittimo impedimento. Se, come è nelle previsioni, i referendum saranno approvati, la crisi politica si accentuerà. La penosa decisione di «lasciare liberi gli elettori del Pdl» (come facevano a vincolarli?) per ridurre l’impatto politico, è un altro espediente destinato ad accrescere il significato politico di quel voto.
«È stata l’obbedienza pronta, cieca e assoluta il veleno che ha ucciso il Pdl»: è questo l’incipit dell’editoriale del Corriere della Sera di ieri firmato da Galli della Loggia.
Da questa logica, dopo tutto ciò che si è visto, non si è usciti. In questo quadro la manifestazione di Roma (mercoledì prossimo al Capranica) indetta dal Foglio, a cui parteciperanno i direttori dei giornali berlusconiani, serve solo a dire resisti, resisti, resisti. E dopo?


[Fonte

giovedì 2 giugno 2011

Soltanto l'ex tutto, già pm, può dire questa cosa di grande intelligenza ed acume!

Di Pietro: “Berlusconi è un malato psichico”
 
Il premier Silvio Berlusconi e’ “una persona che non ha la testa sulle spalle, e’ una persona malata psichicamente e un pericolo per l’Italia“. Lo afferma il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, ai microfoni di Sky Tg 24, facendo riferimento alle parole del presidente del Consiglio rilasciate “all’estero contro la magistratura e il presidente della Camera“. Berlusconi, insiste l’ex pm, “se ne deve andare” e l’Idv e’ pronto “a staccare la spina a questo governo“.

SILVIO? TERRORISTA POLITICO – Di Pietro ha rilasciato le dichiarazioni al termine della riunione dei 132 coordinatori locali dell’Italia dei Valori a Clanezzo (Bergamo): ”Che se ne fa l’Italia – ha inoltre chiesto – di un presidente del consiglio che va all’estero e parla male delle sue istituzioni piu’ importanti, come la magistratura e la Camera dei deputati che rappresenta l’intero popolo? Uno, chi si comporta in questo modo e’ un terrorista politico“.

(Berlusconi si limitato a parlare, mentre l'ex tutto Di Pietro ha comprato una pagina intera sul quotidiano britannico Herald Tribune per "sputtanare" il premier Berlusconi e tutti gli italiani che lo hanno votato. Quindi chi è il terrorista politico? NdB)


GOVERNO DEL MALE – Per il leader dell’IdV il vero governicchio è quello odierno. “L’Italia ha bisogno di liberarsi di Berlusconi – ha spiegato Di Pietro – il suo e’ il governo del male, della P2, della P3, della cricca, delle leggi ad personam. Ma per liberarsi di Berlusconi ci vuole uno scatto di orgoglio da parte dei finiani, che hanno detto di pensare alla questione morale ma stanno per dargli la fiducia e diventare complici“.

[Fonte 1]  

Perchè l'ex tutto invece di cantar vittoria (degli altri) non pensa ai fatti del suo partito/associazione.

Antonio Di Pietro flop: l’Italia dei Valori perde il 40% dei voti in un anno

Dietro l’affermazione di De Magistris, niente: il partito in difficoltà perde consensi a destra e sinistra

La vittoria di De Magistris è un’affermazione soprattutto personale. La débacle dell’Italia dei Valori invece è davvero globale: un ridimensionamento forte, fortissimo rispetto alle precedenti elezioni, sulla quale il partito di Antonio Di Pietro dovrà riflettere. Ne parla Fabio Martini sulla Stampa:

Ma nella vita e (forse) nel futuro dell’Italia dei Valori c’è una novità: dopo tre anni vissuti da partito della sinistra radicale, gratificato da continui incrementi elettorali, ieri mattina l’Idv si è svegliato più piccolo. Decisamente ridimensionato rispetto all’exploit delle Regionali dell’anno scorso. 

Le percentuali raccolte dal partito di Tonino nelle città clou sono eloquenti: a Torino il 4,8%(rispetto al 9,5%del 2010), a Milano il 2,5%, a Bologna il 2,7%, a Cagliari il 3,5%. Ovviamente fa eccezione Napoli, dove la lista Idv, tirata da Luigi De Magistris, si mantiene (con l’8,1%) ai livelli del 2010.

Il resto, come si suol dire, è mancia:

  Ma nel resto dei comuni più importanti, l’Idv resta sempre sotto la soglia critica del 4%, quella necessaria per entrare in Parlamento. Il tutto è sintetizzato da un dato elaborato dall’Istituto Cattaneo: «L’Idv realizza un buon risultato rispetto alle comunali» del lontano 2006, ma in confronto con le Regionali perde 62 mila voti», smarrendo per strada «il 40,7% dei propri consensi». Con quei voti si “ingrassano” la Sel di Vendola, il Cinque Stelle di Grillo, persino i redivivi comunisti della Federazione della sinistra. Sostiene Renato Cambursano deputato dipietrista di Torino: «Al Nord l’Idv si è ridotto ad una presenza simbolica, mentre al Sud l’uomo simbolo è diventato De Magistris. L’identità del partito è cambiata, siamo diventati un partito di estrema sinistra e movimentista, ma su questi due terreni gli elettori hanno mostrato di preferire gli originali -Vendola, Grillo e i comunisti – rispetto alla copia…».

L’emorragia verso SEL e Grillo è soltanto tamponata dall’exploit di De Magistris:

Eppure, l’exploit di Luigi De Magistris a Napoli aiuta l’Idv a restare sotto i riflettori, oscurando la flessione alle amministrative. Certo, nessuno può dire quanto Di Pietro sia felice del successo del suo amico-rivale, considerando che nei mesi scorsi i due ex pm si sono scambiati «carezze » poco amichevoli. Nei giorni dell’abbandono dall’Idv del duo Scilipoti- Razzi, DeMagistris parlò «di questione morale grande come un macigno» e l’altro replicò: «A volte chi critica è interessato a prendere lui stesso il posto di chi viene criticato». Un duello concluso da una battuta non elegantissima di De Magistris al congresso del partito: «Tra me ed Antonio ci sono venti anni di differenza. Per mia fortuna e sua sfortuna». In queste ore, anche nella battaglia di Napoli, i due vestono panni diversi. Di Pietro, scottato da un risultato nazionale poco gratificante, cerca di tenere i collegamenti col Pd e con Pier Luigi Bersani, che vorrebbe arrivare ad un apparentamento con De Magistris.
  
[Fonte 2]  

Ecco chi sono i migliori di tutti: i grillini!

Guai a scherzare su Grillo!
Chi tocca i fili, muore...


In Italia, checché se ne dica, si può scherzare su tutti: su Berlusconi, sul PD, sulla Lega, su Fini, su Casini, sui Responsabili, sui Radicali e pure sul papa. Di solito incassano senza fare grandi storie, e male che ti vada ti dicono che lo scherzo non fa ridere, o che è roba già sentita, oppure, nel caso del papa, che sei un miscredente senza rimedio. Se scherzi su Grillo, però, le cose si mettono diversamente.

Se scherzi su Grillo la prima cosa che i suoi sostenitori ti sbattono in faccia è che Grillo è un comico, mica un politico, e allora perché non scherzi pure su Teo Teocoli, su Checco Zalone e su Claudio Bisio? Perché sei in malafede, naturalmente. Perché sei in malafede, proseguono i fan, un pennivendolo pagato da De Benedetti, o da Berlusconi, o da Confindustria, o dall'Unità, o dalle multinazionali, o da Vendola, o dal PD -oppure, chissà, da tutti quanti messi assieme- per contribuire alla distruzione del Movimento 5 Stelle: il quale, precisano, è una cosa ben diversa da Beppe Grillo, e tu sei in malafede pure perché fai finta di non saperlo.

 Poco importa, naturalmente, che simili levate di scudi contengano due paradossi, piazzati in modo nemmeno troppo insidioso l'uno dentro l'altro. Poco importa che sia sufficiente leggere il cosiddetto "non-statuto" del Movimento 5 Stelle per accertarsi che Beppe Grillo, quello che sarebbe solo un comico, è l'unico proprietario del simbolo elettorale (Cosi come lo sono i "politici" Bossi, Di Pietro, Casini, ecc, NdB), cosa che a meno di clamorose rivelazioni non può dirsi di Teocoli, di Bisio e nemmeno di Zalone.

Poco importa pure che Grillo, il comico titolare del simbolo, abbia l'abitudine di prendere in giro tutti, nessuno escluso, spesso e volentieri attaccandoli su elementi che a parere di molti sarebbe bene lasciare fuori dalla satira, come l'altezza o il semplice fatto che sono in là con gli anni; e che dai sostenitori di uno che si comporta così sarebbe lecito aspettarsi, come dire, una certa pacata tolleranza verso quelli che a loro volta canzonano un po' lui.

Invece no. Su Grillo non si scherza, punto. E chi lo fa è un prezzolato. Un tantino severi per essere i fan di uno che è solo comico, o sbaglio?


di Alessandro Capriccioli