lunedì 26 ottobre 2009

I magistrati sbagliano ma non pagano pegno MAI

Dopo le recenti paginate mediatiche sul giudice di Milano con i calzini sgargianti che oltre alla promozione sono serviti a dargli anche la scorta a nostre spese, oppure dell'ordinanza del divieto di dimora in Campania per la moglie di Mastella che nella sua qualità di presidente del consiglio regionale dovrà comunque andare a Napoli, ma da molto più lontano rispetto a Ceppaloni e a nostre spese,  per rinfrescarci la memoria pubblico uno studio sulla SuperCasta dei magisttrati, come l'ha definita Livadiotti nel suo omonimo libro, realizzato da una docente universitaria e riportato per sommi capi dall'Opinione.



I magistrati sbagliano ma non pagano pegno
di Dimitri Buffa 


Che criteri adotta la sezione disciplinare del Csm nel giudicare ed eventualmente sanzionare i ritardi dei magistrati nel deposito delle sentenze o altri provvedimenti o nello svolgimento delle attività di ufficio? Lo studio più completo finora svolto in proposito riguarda un periodo compreso tra il 1995 e il 2002 ed è stato fatto da una ricercatrice dell’Università di Bologna, la docente Daniela Cavallini. Se la si vuole mettere sui dati crudi e brutali il risultato è questo: su 251 incolpati, quelli non condannati sono risultati essere 196 e quelli invece sanzionati 55. Ma è sulle sanzioni che si gioca la differenza tra una giurisprudenza di tipo “domestico” come tutti sanno essere quella del Csm e una di tipo effettivo: ebbene di quello scarso numero di magistrati “condannati” nessuno è stato destituito o rimosso dall’ufficio, solo 7 hanno perso l’anzianità, uno solo è stato dispensato dall’ufficio precedentemente ricoperto, mentre gli altri 47 sono stati semplicemente “ammoniti” (34) o “censurati” (13). Sanzioni, che, a prescindere dalla gravità dei fatti contestati, di fatto non turbano i sonni di chi si vede costretto a subirle. Né cambiano di molto la rispettiva carriera in magistratura. Un’altra cosa che pochi sanno, anzi forse quasi nessuno, è che le sentenze della disciplinare sono impugnabili dai magistrati secondo le norme ormai non più in vigore del codice Rocco davanti alle sezioni civili, e non penali, della Cassazione. Cosa che porta altri vantaggi di casta alla categoria. Una norma transitoria della riforma del codice di procedura penale del 1989 ha infatti lasciato in vigore il codice Rocco solo per i giudici.

A proposito della confusione di ruoli, nello studio della Cavallini si legge fra l’altro che “...l’accertamento, nel comportamento del magistrato, dei connotati oggettivi e soggettivi di rilevanza disciplinare costituisce un apprezzamento di merito rientrante nell’insindacabile valutazione della sezione disciplinare del Csm.” Neanche le sezioni unite civili della Corte di cassazione, in sede di impugnazione, possono sindacare nel merito la valutazione già compiuta, dovendosi limitare ad un riesame di sola legittimità. Questo in teoria, perché, sempre per i magistrati, la Suprema Corte accetta di entrare anche nel merito in caso di motivazioni “illogiche o contraddittorie”. Cosa che fino a pochi anni fa valeva anche per i comuni mortali, mentre ora non più. Di fatto comunque le già basse percentuali di condanna possono venire vanificate alla fine di un iter burocratico giudiziario non previsto per nessun altro cittadino italiano. Nel merito della giurisprudenza che si è andata così formano, secondo l’orientamento della sezione disciplinare del Csm, scrive la Cavallini, “il semplice ritardo nell’adozione di provvedimenti giudiziari non costituisce di per sé illecito disciplinare”. E questo è dovuto anche al fatto che mentre il codice di procedura penale e quello di procedura civile sanzionano le inadempienze degli avvocati con un regime di “perentorietà” (cioè di decadenza dai diritti), per quel che riguarda i ritardi e le inadempienze dei magistrati il regime diventa “ordinatorio”, con una serie di escamotage che di fatto permettono di sanare quasi tutte le cause di nullità.

La richiesta di abolire questa disparità è stata per anni un cavallo di battaglia dei Radicali di Pannella che hanno anche proposto un referendum, non capito dalla gente nella sua essenzialità. Infine i criteri di decisione nelle motivazioni della disciplinare utilizzano questo metro: “Il fatto illecito sorge soltanto laddove il ritardo dipenda da negligenza o neghittosità, cioè sia sintomo di inerzia, scarsa operosità, indolenza del magistrato e non trovi giustificazione in situazioni di forza maggiore o altri impedimenti a lui non imputabili”. Non basta, per arrivare a una qualche forma di blanda condanna deve essere anche accertato “...se il ritardo caratterizza quasi la metà (o più della metà) del lavoro svolto dall’incolpato, se non è un episodio isolato ma costituisce la normalità, se è sistematico e crescente nel tempo, se è superiore ad un anno (due anni o tre anni), se riguarda un lasso di tempo considerevole dell’attività del giudice, se attiene a settori ”delicati“ come quello del lavoro o della previdenza...”. Solo quando tutti questi criteri saranno soddisfatti, i giudici della disciplinare accetteranno il fatto che un siffatto comportamento “...denota indubbiamente una certa incuria del magistrato”.
Bontà loro.

Da: l'Opinione del 19/09/2008. pg.4

Ancora province? E sì, tanto paga Pantalone.

Vi riporto un interessante articolo dei "soliti" Rizzo e Stella, i giornalisti che hanno scritto La Casta, il libtro capostipite del filone letterario del malcostumne italico, che pur provocando uno scandalo enorme, per la virtù italiana che il tempo fa dimenticare tutto, i nostri politicanti passata la festa (le promesse sotto elezioni), gabbano il Santo (noi popole bue).
Bene fanno Rizzo e Stella a non farci diventare degli smemorati cronici.


E i camuni gridarono: una provincia anche a noi
di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

E i Camuni? Niente ai Camuni? Deciso a vendicare l’ingrata storia, il deputato leghista Davide Caparini ha deciso di tirare dritto: vuole a tutti i costi la nuova Provincia della Valcamonica. Capoluogo: Breno, metropoli di 5.014 anime. Direte: ancora un’altra provincia? Ma non avevano promesso quasi tutti di abolirle? Certo: prima delle elezioni, però. Promessa elettorale, vale quel che vale. Tanto è vero che il disegno di legge per sopprimerle, presentato alla Camera dalla strana coppia Casini & Di Pietro, è già morto. Se dovesse passare l’iniziativa camunica del parlamentare del Carroccio, quella con capitale Breno (inno ufficiale: «E su e giù e per la Valcamonica / la si sente la si sente...») sarebbe la provincia numero 110. Quando nacquero nel 1861, al momento dell’Unità d’Italia, erano quasi la metà: 59. Distribuite sul territorio con un criterio semplice: dovevi attraversare ciascuna in una giornata di cavallo. Nel 1947 erano già 91. E col passaggio dagli equini alle autoblu, hanno continuato ad aumentare, aumentare, aumentare a dispetto del proposito dei padri costituenti, che avevano previsto la loro abolizione con l’arrivo delle Regioni, fino a diventare 95 e poi 102 e su su fino a 109 grazie a new entry e soprattutto al raddoppio (da 4 ad 8) di quelle della Sardegna. La quale con l’Ogliastra (57.960 abitanti, due terzi di Sesto San Giovanni) mise a segno il capolavoro, la provincia a due teste: Tortolì (10.661 anime) e Lanusei, che di anime ne ha ancora meno: 5.699. Un record mondiale. Che con l’arrivo di Breno verrebbe stracciato in attesa di nuove province e nuove capitali tipo Quinto Stampi, Pedesina, Zungri, Maccastorna, Carcoforo... Direte: ma dai, Carcoforo! Perché no, scusate? Se la provincia è indispensabile per essere vicina ai cittadini, cosa han fatto di male i carcoforesi per non avere anche loro una provincia? Quanto costino lo ha calcolato l’anno scorso il Sole 24 Ore: 17 miliardi di euro. Con un aumento del 70% rispetto al 2000. Da dove arrivano i denari? Un po’ dai trasferimenti. Parte dal prelievo del 12,5% sull’assicurazione delle auto e delle moto: 2 miliardi nel 2007, il 54% in più rispetto al 2000. Più aumenta l’assicurazione, più intasca la Provincia. Altri quattrini arrivano dall’imposta provinciale di trascrizione: le annotazioni al Pubblico registro automobilistico che doveva essere abolito. Ci sono poi un’addizionale sulla bolletta elettrica e il tributo provinciale per l’ambiente.

Come mai i cittadini non si arrabbiano? Occhio non vede, cuore non duole: sono tutte tasse dentro altre tasse. Non si notano. Va da sé che a quel punto, ignaro delle spese, il cittadino vede titillato il suo campanilismo. Come nel caso della provincia di Fermo nata dalla divisione di quella di Ascoli Piceno. Una specie di scissione dell’atomo: da una piccola provincia ne sono nate due minuscole. In compenso, al posto di un solo consiglio da 30 membri, ne sono nati due da 24: totale 48 poltrone. Per non dire della provincia a tre piazze di Barletta-Andria-Trani, chiamata così per non far torto ai permalosi cittadini dell’una o l’altra capitale. Quanti sono i comuni di quella nuova Provincia? Dieci in tutto, sono. Il che, diciamolo, aumenta la pena per i sette tagliati fuori dal nome: Bisceglie, Trinitapoli, Minervino Murge. E la targa automobilistica? «BT». Rivolta: «E Andria? Non si può fare “Bat”?». «No, quella è di Batman».

C’è da sorridere? Mica tanto. Sull’abolizione delle province, infatti, fu giocato un pezzo dell’ultima campagna elettorale. «Aboliremo le Province, è nel nostro programma», disse Berlusconi a Porta a porta il 10 aprile 2008. «Ma la Lega sarà d’accordo?», eccepì Bruno Vespa. E lui: «La Lega è composta da persone leali». «Presidente, che cosa ha previsto per abbassare i costi folli della politica?», gli chiese la signora Ines nella chat-line al Corriere. E lui: «La prima cosa da fare è dimezzare il numero dei parlamentari, dei consiglieri regionali, dei consiglieri comunali». E le Province? «Non parlo delle Province, perché bisogna eliminarle». Mostrava di crederci al punto, il Cavaliere, che cercava sponde: «Se Veltroni ci darà una mano...». La linea veltroniana, del resto, era già stata dettata: «Cominceremo da subito abolendo le Province nei grandi comuni metropolitani». Posizione confermata a Matrix: «All’abolizione delle province penso ci si possa arrivare. Ma non sono un demagogo. È facile dirlo in campagna elettorale...». Il socio fondatore del Pdl Gianfranco Fini era d’accordo: «I carrozzoni non sono intoccabili e si possono abolire per esempio le Province». Una tesi già benedetta da altri. Come l’ex ministro degli Interni azzurro Giuseppe Pisanu: «Le Province ormai non hanno più senso».

Qualche settimana dopo le elezioni il capo del Governo sventolava il primo trionfo, riassunto dai tg amici con titoli così: «Abolite nove Province». In realtà nove province cambiavano soltanto nome. D’ora in avanti si sarebbero chiamate aree metropolitane. Un ritocco semantico. Ma naufragato lo stesso. Poi cominciarono i distinguo. «C’è un solo punto nel programma in cui ho difficoltà serie con gli alleati, l’abolizione delle Province. La Lega ha una posizione molto ferma», confessò Berlusconi nel dicembre 2008. «Sono enti inutili, ma non riusciremo a cancellarli in questa legislatura», confermava Renato Brunetta. Di più: nel disegno di legge sulle autonomie locali definito dal ministro Roberto Calderoli non solo sopravvivevano. Venivano addirittura rafforzate, con la possibilità di riscuotere tasse proprie.

Vero è che Bossi aveva eretto un muro insormontabile: «Le Province non si toccano». Ma che la marcia indietro collettiva sia stata dovuta solo all’altolà del Carroccio non si può dire. Basti rileggere quanto affermò il deputato del Pd Gianclaudio Bressa nell’ottobre scorso: «Non siamo d’accordo con l’abolizione delle Province, né abbiamo mai detto di esserlo in passato. È ora di finirla con questa mistificazione». E quello che diceva Veltroni? Coro democratico: Veltroni chi? Ma è niente in confronto alle contraddizioni della maggioranza. Dove Sandro Bondi, da coordinatore forzista, era a pié fermo al fianco del Capo: «Aboliamo le Province. Sono un diaframma inutile fra i Comuni e le Regioni». Era il 14 luglio 2007: qualche mese dopo, con marmorea coerenza, si candidava alla presidenza della Provincia di Massa Carrara.

E meno male anche per lui (oggi ministro) che non ce l’ha fatta. Sennò sarebbe andato a ingrossare la folta schiera dei fedeli di sant’Alfonso Maria de’ Liguori al quale Dio concesse il dono della bilocazione. Cioè quei politici che sono insieme assisi su due poltrone: quella di parlamentare e quella di presidente provinciale. La legge dice che il presidente di una Provincia o il sindaco di una città con oltre 20 mila abitanti non può essere eletto parlamentare? Sì, ma non dice il contrario. Così i casi di doppio o triplo incarico si sono moltiplicati. Adesso sono nove, di cui sei pidiellini: c’è il presidente foggiano Antonio Pepe, quella astigiana Maria Teresa Armosino, quello avellinese Cosimo Sibilia, quello salernitano Edmondo Cirielli, quello napoletano Luigi Cesaro, quello ciociaro Antonio Iannarilli... Poi ci sono gli «ubiqui» della Lega: il presidente biellese Roberto Simonetti, quello bergamasco Ettore Pirovano e quello bresciano Daniele Molgora, che è anche sottosegretario all’Economia: un esempio di trilocazione mai tentato neppure dal santo fachiro Sai Baba capace al massimo di apparire insieme nell’Andra Pradesh e a Toronto. Chiederete: ma come fa uno a stare in tre posti diversi? La risposta la può forse suggerire lo stesso Pirovano. Il quale il 27 luglio scorso, mentre teneva la giunta a Bergamo, votava alla Camera a Roma materializzandosi grazie al tesserino usato al posto suo dal collega Nunziante Consiglio. Il quale, pizzicato da Fini, disse: «Era un gesto innocente, pensavo stesse per arrivare...». Ma se di lunedì ha la giunta! «Oh signur, credevo fosse martedì...».
da: Corriere della Sera del 14 ottobre 2009, pag. 1

giovedì 22 ottobre 2009

Le frequenti amnesie di D'Alema

Massimo D'Alema, l'unico "ex" comunista che è riuscito ad essere presidente del consiglio italiano, ha spesso frequenti vuoti di memoria che, uniti al suo proverbiale scarcasmo, lo fanno essere diverso dagli altri politici italiani.
Ecco i fatti:




Amnesie di D'Alema e troppi inchini del signor Floris


Massimo D’Alema è antipatico a tutti e forse proprio per questo mi è simpatico, si fa per dire. Gli riconosco cioè una statura politica e intellettuale superiore a quella dei suoi compagni, dal primo all’ultimo, che da quando lui si è defilato si sono sforzati con successo di farlo rimpiangere. D’Alema non avrebbe bisogno di raccontare balle in tivù per dimostrare di essere ancora il numero uno della sinistra; e invece talvolta non resiste alla tentazione di abbassarsi al livello dei nuovi capetti. P accaduto mercoledì sera durante uno dei più odiosi programmi della Terza Rete Rai, Ballarò. Incoraggiato da un deferente Floris, il collaudato leader Pd, nel rispondere a un acconcio intervento del ministro Sacconi, il quale aveva ricordato la matrice violenta della sinistra, il collaudato leader Pd, dicevo, ne ha detta una talmente grossa da lasciare interdetti. E mi sono stupito che nessuno dei presenti, né Alfano (peraltro provveduto) né lo stesso Sacconi, gliel’abbia contestata: l’hanno lasciata passare senza muovere un muscolo del viso. La bufala è questa (riassumo). Il Pci fu tra i principali attori della lotta al terrorismo (negli anni Settanta-Ottanta) al quale pagò un cospicuo tributo di sangue. No, caro D’Alema. Non è così e lei lo sa benissimo perché a quei tempi, per quanto giovane, aveva superato l’età consentita per credere a Cappuccetto Rosso in cammino verso la casa della nonna. L’unico comunista morto ammazzato dalle Brigate rosse e «generi affini» fu Guido Rossa, sindacalista in Genova. Nessun altro esponente, piccolo o grande, cadde sotto il fuoco amico dei combattenti in camicia vermiglia. Un caso? Credere al caso è come credere a Cappuccetto. Probabilmente gli uomini del Pci furono risparmiati dal Partito armato per banali ragioni di parentela che li indussero, fino al delitto Moro, a considerare coloro che impugnavano la P38 compagni che sbagliavano e non un pericolo per lo Stato. Infatti fu solo nel 1978 che il famoso Bottegone si accorse della minaccia e si persuase fosse conveniente far fronte comune con la Democrazia cristiana (e satelliti), istituendo il cosiddetto governo di solidarietà nazionale. Da quel momento i comunisti regolari assunsero una posizione netta contro i pistoleros della stella a cinque punte, dei quali divennero nemici. E in effetti la conversione del Pci coincise con l’inizio della fine del terrorismo ormai privo di sostegni esclusi quelli, deboli, dei gruppuscoli residuali del Movimento. Ma fino al rapimento e uccisione del presidente democristiano, compagni combattenti e sedentari non dico fossero contigui, ma erano in qualche modo legati al medesimo filo rosso. Comunque è un fatto, non un’opinione, che, a parte Guido Rossa (vicenda intricata e torbida), compagno non uccise compagno. E farei notare che le vittime dei rivoluzionari furono un migliaio, calcolando i feriti. È vero, come afferma D’Alema, che in quegli annidi formidabile follia omicida anche i fascisti avevano la cattiva abitudine di premere il grilletto, però le stragi vanno valutate in termini quantitativi, e quelle nere non reggono il confronto con quelle rosse. Già, i morti si contano e non si pesano. D’Alema nel tentativo di quadrare la contabilità ha attribuito piazza Fontana e l’ecatombe della stazione di Bologna alle organizzazioni neofasciste (che pure fanno orrore e ribrezzo), tuttavia egli sarà consapevole che in proposito non vi sono prove, ma solamente congetture. La sensazione insomma è che i comunisti, impossibilitati a rinnegare i loro trascorsi all’insegna della falce e martello, li rivendichino falsandone i contenuti o almeno attenuandone la gravità. La rimozione è una forma difensiva; serve a ripulire la coscienza e aiuta a rendersi presentabili, confonde le idee a molta gente ma non a chi è stato testimone. Appanna, non cancella il passato. D’Alema non deve preoccuparsi. Chi non è vecchietto ha la memoria corta, come Floris. Il signor conduttore lo stima al punto che non lo ha interrotto una sola volta e non ha consentito ad altri di farlo. Sicché l’ex segretario generale del Pds ha potuto parlare a piacimento, mentre tutti gli ospiti sono stati zittiti ripetutamente dallo stesso Floris e dalla dilagante Bindi. La quale, avvalendosi di una voce potente e sonora, oltre che di una educazione approssimativa, ha coperto le parole pacate di Alfano, Sacconi eccetera. Un’ultima osservazione. A Ballarò si è distinto un professore critico del linguaggio politico. Peccato abbia trascurato il lessico più usato dai detrattori di Berlusconi, chic anche quando insultano e dicono magari bugie. Un altro peccato: nessuno ha rammentato con sdegno a D’Alema la sua definizione di Brunetta: mezzo ministro; perché non è alto. Se però il Cavaliere dice alla Bindi: è più bella che intelligente, è uno scandalo di cui discutere ore.


di Vittorio Feltri,   da Il Giornale del 16 ottobre 2009, pag. 1

La domanda a cui Repubblica non risponde

Il quotidiano Repubblica di De Benedetti ha, ossessivamente e per molto tempo, posto dieci domande al premier.
Adesso che una sola domanda viene posta a questo giornale che si erge a paladino della pubblica moralità e correttezza, tace.
Ecco i fatti.


La domanda a cui Repubblica non risponde

di Vittorio Feltri

Tutto previsto. La reazione di la Repubblica al nostro articolo su Corrado Augias, descritto come collaboratore dei servizi segreti cecoslovacchi ai tempi della Cortina di ferro, è arrivata puntuale e nei toni attesi. Una mezza paginata dello stesso Augias che reclamala propria innocenza e un commento di D’Avanzo, editorialista descamisado da alcuni mesi dedito alla narrazione delle attività notturne, vere o presunte, di Silvio Berlusconi. Il primo cerca di buttarla sul ridere, minimizza la portata dei fatti e naturalmente accusa il Giornale di aver costruito sulla sua candida personcina un castello di balle. Evidentemente non aveva molto altro da dire, benché nel pezzo si sia dilungato in vari particolari privi del minimo interesse. Il secondo riprende il filo di un discorso che va facendo e ripetendo da quando sono tornato al Giornale: il Cavaliere comanda e io, Brighella, eseguo, anzi sparo. Lasciamoglielo credere, così è contento. Infatti il problema non sono le ossessioni di D’Avanzo né le imbarazzate argomentazioni difensive di Corrado Augias. Ciò che rimane sospeso per aria è il contenuto di quanto abbiamo pubblicato. I due colleghi citati non entrano nel merito della questione; non spiegano, non giustificano, non precisano. Si limitano a scrollare le spalle e girano là frittata secondo lo stile ormai invalso nel loro quotidiano di lotta debenedettiana contro il capo del governo e tutto ciò che in qualche modo si riconduca a lui. Augias lascia intendere di essere molto offeso perché, valutato il materiale in nostro possesso, non gli abbiamo telefonato per informarlo. Praticamente ci accusa di aver colpito lui per colpire la Repubblica, e glissa sul resto come se la storia dello spionaggio che lo riguarda fosse un’invenzione denigratoria. È proprio qui che si sbaglia di grosso. C’è o ci fa? Si dà il caso, caro Corrado, che non sia stato il Giornale ad attribuirti una intensa collaborazione con gli apparati spionistici della Cecoslovacchia, Paese nemico all’epoca della guerra fredda, bensì gli apparati stessi che di tale collaborazione hanno conservato documenti dai quali abbiamo attinto le notizie su di te. Abbiamo svolto un lavoro da cronisti: ci siamo procuratile carte - recentemente messe a disposizione -, le abbiamo lette e riassunte. Non è con noi che te la devi prendere ma con gli 007 cui hai reso per parecchio tempo, consapevolmente o no, i tuoi servigi. Lo hai fatto per affinità ideologica o per altro? Il punto è che lo hai fatto, almeno secondo le fonti, cioè gli archivi di Praga. Se poi tu abitualmente incontravi l’agente segreto da Rosati in piazza del Popolo a Roma o in altro luogo, poco importa. Gli agenti segreti e i loro informatori (con tanto di codice). per definizione non sono identificabili quindi frequentano qualsiasi ambiente senza temere di essere riconosciuti per quello che in realtà sono: spie. Può darsi benissimo che tu non avessi nulla da confidare a chi ti aveva «contattato». Se così fosse tuttavia bisognerebbe capire per quale ragione tu lo frequentassi e per quale quell’agente frequentasse uno, te, che non aveva alcunché da dirgli. Questi dettagli, converrai, meritano di essere chiariti. Tocca a te chiarirli. Noi abbiamo appreso dei dati da documenti controllati e li abbiamo divulgati perché storicamente rilevanti. Peccato che tu li abbia scambiati per nostre illazioni. Non è così. La scrollatina di spalle non basta a fugare dubbi e perplessità sul tuo conto.

di Vittorio Feltri, da Il Giornale del 20 ottobre 2009

sabato 3 ottobre 2009

Ci sarà pure un giudice a Berlino?

Ci sarà pure un giudice a Berlino, si chiedeva il mugnaio prussiano al cospetto dell'imperatore Federico II, che gli negava un suo diritto.

Ricordando quet'anedddoto storico mi domando:
ci sarà un giudice in Italia che applicherà la legge e condannerà l'ex pm Di Pietro per vilipendio al Presidente della Repubblica?

Oppure, ancora una volta, l'UltraCasta dei magistrati, come l'ha definita nel suo libro Stefano Livadiotti,  interverrà per far quadrato intorno a Di Pietro, suo ex membro? 

A sostegno di quanto penso, vi propongo alcuni commenti alle parole offensive pronunciate dell'ex pm Di Pietro - ora capopartito d'assalto duro, puro e senza macchia. - nei confronti di Napolitano, presidente della Repubblica. 





"Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affermando che non poteva non firmare la legge criminale sullo scudo fiscale, ha compiuto un atto di viltà ed abdicazione". Il patron dell'Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, in piazza della Repubblica per il corteo dei precari della scuola, critica le parole di questa mattina del capo dello Stato a proposito della firma al Dl anticrisi che contiene le norme sullo scudo fiscale. "E' proprio la Costituzione - ha spiegato Di Pietro - che affida al capo dello Stato il compito di rimandare le leggi alle camere controllando in prima istanza la loro costituzionalità. Così facendo - ha concluso - Napolitano si assume la responsabilità di questa legge".

"Non firmare non significa niente", aveva detto il presidente della Repubblica rispondendo al sollecito di un cittadino che nella piazza di Rionero in Vulture lo aveva invitato a non firmare la legge sullo scudo fiscale. Il Capo dello Stato aveva spiegato come la Costituzione preveda che la legge possa essere nuovamente approvata e in quel caso lui sarebbe "obbligato" a firmare.

A difesa di Napolitano insorge il Pdl. "Il partito di Di Pietro ormai pratica il 'teppismo' parlamentare. Per certi figuri servirebbe
più l'anti doping che la sanzione da regolamento", lamenta Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato. "L'anima anti-istituzionale che Di Pietro ha sempre avuto sin da quando si è trovato con la toga addosso è oggi venuta fuori nel modo peggiore. L'attacco senza precedenti al capo dello Stato è sintomo di una follia politica e di una barbarie che è fuori da ogni logica non solo giuridica ma anche comportamentale", osserva Antonio Leone, vice presidente della Camera. E c'è anche, nel Pdl, chi invoca l'intervento della magistratura: "Di Pietro ha iniziato insultando le Camere e prosegue con il presidente della Repubblica. E' assurdo che la magistratura questa volta non intervenga. Si tratta di reati che il codice penale punisce con la reclusione fino a tre anni", afferma il sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto.

Il Pd prende le distanze da Di Pietro, difendendo le prerogative del capo dello Stato. "Il presidente della Repubblica esercita "la sua funzione di garanzia importantissima e ineccepibile", sottolinea il segretario del Pd, Dario Franceschini, ricordando a Di Pietro che "è un parlamentare e dovrebbe sapere quali sono, in base alla Costituzione, i compiti dell'opposizione, della Corte costituzionale e del capo dello Stato". "Esprimo piena solidarietà al presidente Napolitano, oggetto di una riprovevole rincorsa al populismo da parte di chi lo critica per aver svolto i suoi doveri istituzionali", fa eco Enrico Letta.

Anche l'Udc condanna le parole di Di Pietro. "L'onorevole Di Pietro è una vergogna per questo Paese", tuona il segretario Leonardo Cesa. "L'ennesimo attacco ignominioso e sprezzante che ha riservato al presidente Napolitano - aggiunge Cesa - richiede una ferma presa di posizione di tutte le forze politiche: se non arriveranno immediate scuse, l'Idv si merita il totale isolamento in Parlamento e in ogni altra sede istituzionale".


La verità sull'informazione italiana, scritta da sinistra!

Per leggere qualcosa di sensato  in questo bailamme multimediale e che sia scritto dalla sinistra devo, di norma, ricorrere a Il Riformista, diretto da Antonio Polito.

La libertà d'informazione che esiste in Italia è così evidente che soltanto un cieco lo può non vedere.
L'articolo che vi propongo ne é l'ennesima riprova. Dovebbero leggerlo attentamente i vari Mauro, D'Avanzo, Santoro, Travaglio e compagnia dicendo.

Un modo per fare piazza pulita di molti media, stampati e non, sarebbe quella di affidarli al libero mercato, togliendo le sovvenzioni di stato per l'editoria. Ma questa é tutt'altra storia. 



Una Berlinguer nel regime mussoliniano
di Antonio Polito


Il marziano che sbarcasse stamattina a Roma, troverebbe sui giornali due notizie difficili da combinare.
Supponendo che - seppur marziano - sappia qualcosa della storia d'Italia, non gli sfuggirebbe il valore simbolico della nomina di Bianca Berlinguer a direttore di un tg Rai, all'unanimità e quindi con il voto della maggioranza di centrodestra. Oltre che una brava professionista, oltre che colonna storica di quella che un tempo si chiamò Telekabul, oltre che donna indefettibilmente di sinistra, Bianca è anche la figlia del più grande e popolare dirigente comunista italiano dopo Togliatti. Dell'uomo che, col suo martirio finale sul palco di Padova, fissò per sempre l'immagine migliore della sinistra italiana.

Ma, contemporaneamente, il nostro marziano leggerà anche che secondo l'Economist, il più serio e il più liberale dei giornali del mondo, mai dai tempi di Mussolini la libertà di informazione era stata così a rischio in Italia, perché mai dal fascismo in poi «l'interferenza del governo nel sistema dei media era stata più sfacciata e allarmante».

Il nostro marziano resterebbe un po' sbigottito dalla contraddizione tra la denuncia del regime mussoliniano e la nomina della Berlinguer.

Ma se il marziano decidesse di sedersi davanti alla tv per una serata di relax, assisterebbe su Raidue all'intervista in prime time di una prostituta che dichiara di aver fatto sesso a pagamento con il capo del regime, quel Berlusconi lì di cui parlano tutti, a casa sua. E a quel punto non ci capirà più niente: insomma, l'Italia è un paese paragonabile alla Bulgaria, in quanto a indipendenza dei media, o è una democrazia casinara e chiacchierona quante altre mai? Il regime sta imbavagliando i giornalisti - «muzzling», come dice il titolo dell'Economist - oppure i giornalisti non parlano d'altro che del regime e dei suoi vizi?

Spiegare a un marziano come stanno veramente le cose è difficile. E, a quanto pare, stavolta è difficile spiegarle anche all'Economist, caduto in uno dei suoi rari strafalcioni da superficialità. Quando scrive che mai l'Italia aveva vissuto tanta ingerenza sui media da parte del regime berlusconiano, il settimanale deve aver infatti dimenticato quarant'anni di regime democristiano. Ci sono stati tempi - cari colleghi londinesi - in cui in Italia c'era un solo canale e tutto dc, si licenziavano Dario Fo e Franca Rame in tronco da Canzonissima perché si erano permessi una blanda ironia sul governo, tutti i giornali erano filo-governativi, l'opposizione comunista era censurata sistematicamente, ed esisteva letteralmente un solo giornale che si poteva permettere di criticare il governo (si chiamava l'Unità, e io me lo ricordo bene, perché è lì che negli anni 70 ho cominciato a fare il giornalista). Il grado di libertà di informazione che si respira oggi in Italia è incommensurabile con quella lunga epoca - che proprio Berlinguer definì «una cappa di piombo» che gravava sul paese. E un settimanale come l'Economist non può avere amnesie storiche di queste proporzioni.

Naturalmente, è perfino ovvio che in Italia le peculiari condizioni in cui si esercita la libertà di informare sono profondamente diverse da quelle degli altri paesi europei di antica e consolidata democrazia. E la ragione fondamentale sta nel fatto che il proprietario del polo privato della tv è il capo di un partito politico che quando vince le elezioni comanda anche nel polo pubblico. Questa è un'anomalia di seria e perdurante gravità. Che però potrebbe essere risolta in un solo modo: strappando il polo pubblico al controllo della politica, e consentendo a qualche altro polo privato di concorrerere sul mercato.
L'Economist dovrebbe domandare alla sinistra perché questa ovvia soluzione, radicalmente anti-berlusconiana, non è stata da essa mai proposta né sostenuta.
 
La risposta sarebbe che la sinistra non vuole rinunciare a comandare in Rai quando le elezioni le vince lei, e comunque su Raitre anche quando non le vince (il marziano resterebbe ancor più stupito se seguisse in tv, oltre a Santoro e Travaglio, anche Fazio, Dandini, Lerner, Gruber, ecc. ecc.).
È anche vero che gli standard informativi dei nostri tg sono miserandi, sia in termini di completezza dell'infomazione sia in termini di pluralismo (con l'eccezione di Sky, che però non può esser messa tra parentesi), per la semplice ragione che gli editori (politici) dei tg se ne fregano di completezza e pluralismo.

È poi vero che la qualità dell'informazione televisiva non si giudica solo dai tg, e che nei programmi pomeridiani sia di Rai sia di Mediaset si assiste a un festival di demagogia sguaiata e brutale, si incita al razzismo, si celebra la fatuità, si educano intere generazioni allo spirito acritico e debosciato tipico dei regimi, contribuendo a fare della nostra democrazia sempre più una democrazia senza cittadini (anche se su questi programmi nessuno protesta, purché Annozero vada in onda).

Ed è infine vero che Silvio Berlusconi passa un numero sconsiderato di ore a studiare sconsiderate azioni contro la libertà di informazione, per ottenerne in genere solo l'effetto opposto, la santificazione dei suoi torturatori. Sia citando per danni i giornali che si occupano della sua vita sessuale, sia mandando avanti il governo a impicciarsi di programmi Rai quando essi sono già sotto la sua vigilanza (visto che in parlamento ha la maggioranza), sia blaterando contro i giornalisti a lui sgraditi ogni volta che si trova in Bulgaria o nei dintorni.

La sua vera e propria ossessione per i media - non per niente è un tycoon che si è fatto fondando una tv - lo rende dunque il bersaglio perfetto dell'opposizione, e trae in inganno perfino rigorosissimi giornali come l'Economist. Non è escluso che Silvio Berlusconi, se potesse, sarebbe un dittatore. Ma l'Italia è un paese troppo grande e troppo libero perché egli possa essere molto di più che un dittatore da operetta. Prova ne sia, cari colleghi dell'Economist, che in quindici anni ha perso due elezioni su tre, e in entrambi i casi controllava la Rai proprio come ora.

I giornalisti italiani che scenderanno domani in piazza per dar ragione all'Economist non sono in effetti molto liberi, ma lo sono un po' di più di quel collega della Bbc che fu licenziato dopo un processo perché aveva accusato Tony Blair di mentire sull'Iraq (da noi, un giudice ha invece reintegrato Santoro in Rai). E io, giornalista che in piazza non andrà, se permettete mi sento un po' offeso se da Londra mi danno dell'imbavagliato. Se lo fossi mi licenzierei, non chiederei aiuto alla Fnsi per farmi rinnovare il contratto, come ha fatto Travaglio.

 

Fonte: Il Riformista, 2 ottobre 2009

giovedì 1 ottobre 2009

Ma nel PD se ne rendono conto?


I risultati delle votazioni nei circoli del PD erano più che scontati, ma Franceschini, segretario pro-tempore,   continua a non prendere atto che il partito è in mano, da sempre, agli uomi d'apparato del vecchio PCI. D'Alema su tutto/i. 

Questi i risultati comunicati dalla Commissione nazionale del PD:

il 56,49% a Pier Luigi Bersani;
il 35,85% a Dario Franceschini;
il 7.66% a Ignazio Marino.

Quindi questi tre concorreranno alle primariedel 25 ottobre. 
Primarie - pro-forma - che serviranno esclusivamente a raccogliere denaro, oltre a dare ufficialità democratica a quanto già deciso su chi dovrà essere il nuovo segretario: Bersani. D'Alema dixit.



D'altro canto la provenienza politica di Bersani è la stessa di Franceschini, la "corrente" di sinistra della vecchia DC, il cui sbocco naturale, previo passaggio margheritino, non poteva che essere il PD che aveva abbandonato il vecchio nome e simbolo di Partito Comunista Italiano.

Sarà molto interessante vedere il comportamento del nuovo segretario nei confronti dell'alleato più scomodo: Di Pietro,  che con i suoi furiosi attacchi al governo sta raccogliendo consensi e voti nella sinistra non più rappresentata in Parlamento e nelle frange estremiste di una sinistra più che mai dura a prendere atto dei cambiamenti politici a livello mondiale. 

Un'interessante analisi sull'ex segretario Franceschini l'ha fatta Giampaolo Pansa, uno dei migliori giornalisti italiani, già vicedirettore di Repubblica e l'Espresso, politicamente di sinistra, ma critico verso certa sinistra irreale, che adesso scrive per il Riformista. Ecco il suo racconto.

Il signor F e i suoi due padroni
di Giampaolo Pansa

Il moderatore di quella Tribuna, Luca Di Schiena, e il regista, Giuseppe Sibilla, attendevano il leader del Pci all’ingresso degli studi televisivi. Attorniati dalla pattuglia dei comunisti in servizio attivo alla Rai. E dai tanti cronisti, me compreso, tutti abbastanza eccitati.

Sceso dalla berlina blu, re Enrico avanzava nel cortile con passettini lenti. A braccetto del suo medico, il pneumologo Francesco Ingrao, fratello di Pietro. Il piazzalino di via Teulada era gremito di gente. Ma nessuno fiatava. Anche Berlinguer stava in silenzio. Si limitava a sorriderci in quel suo modo speciale: tra l’intimidito e l’altero. Mi sembrò davvero un uomo di chiesa. E pensai: adesso ci benedirà.

Quando il leader del Pci giunse di fronte alla vetrata che conduce agli ascensori e poi agli studi, la piccola folla si divise. Facendo ala al suo passaggio. Re Enrico ringraziò con un tenue cenno del capo. Quindi seguì il suo addetto stampa, l’energico Tonino Tatò, che premeva per non arrivare in ritardo alla registrazione.
Adesso spostiamoci ai tempi d’oggi. È giovedì 24 settembre 2009. Siamo sempre alla Rai, dove sta per iniziare la puntata di “Annozero”. Anche in questo caso è atteso un leader politico di sinistra e tra un istante vedremo chi sia. Ma i due big del programma se ne fottono.
Michele Santoro e Marco Travaglio entrano nello studio per primi. Il pubblico si leva in piedi e li accoglie con una standing ovation. Michele e Marco si offrono al battaglione dei fotoreporter. Scherzano, se la cantano e se la ridono. Del resto, hanno una ragione per fare così: “AnnoZero” sono loro due e nessun altro.

Qualche minuto dopo entra il leader invitato nel Tempio del Santorismo. È Dario Franceschini, il segretario del Partito democratico. Nessuno se lo fila. Eppure il signor F. si è presentato persino in maniche di camicia. Adesso si usa: la camicia segnala voglia di combattimento, fa molto talk show all’americana. Come ci ha insegnato Gianni Riotta, che quando dirigeva il Tg1 aveva come divisa la mitica button-down bianca. Al massimo accompagnata da una cravattuccia nera, poco più di una stringa.

Ad “Annozero” iniziato, il signor F. indosserà poi una giacca. Ma neppure così rivestito attenuerà l’impressione grigia che suscita in noi telespettatori. Che pena, il povero F. Mi ha fatto pensare a un leader dimezzato. Costretto a tener conto di due padroni. Il primo non è di oggi: Ezio Mauro, il direttore di Repubblica. E adesso anche il santone Michele, un politico ben più forte di F. Dotato di un’arma micidiale che lui non possiede: un programma televisivo all’arma bianca, seguito da milioni di tifosi molto scaldati.

Di qui alla fine del tormentone congressuale del Pd, il signor F. sarà obbligato a percorrere la strada che Mauro e Santoro gli indicheranno giorno per giorno. Bisogna aggiungere che F. si comporterà così non perché la sua autostima sia ridotta al lumicino. Anzi, a osservarlo nei comizi, F. pare sempre più convinto di essere un Superman del progressismo. Se fosse milanese invece che figlio della magica Ferrara, dovremmo dire che non vediamo nessuno più ganassa di lui. A Milano il ganassa è lo spaccone, il parolaio presuntuoso, tutto chiacchiere e distintivo del Pd.

Il nocciolo del problema sta nel meccanismo fantozziano escogitato per eleggere il segretario democratico. In un primo round, votano gli iscritti al partito, come sta avvenendo. Ma il vincitore non potrà affatto ritenersi il leader. Poiché dovrà sottoporsi a un altro esame: quello delle primarie.

In questo secondo round voterà chi deciderà di farlo, chiunque sia e qualunque scopo abbia in mente. L’esito della consultazione potrebbe ribaltare l’esito del voto dentro il partito. Con quali conseguenze nessuno è in grado di dirlo.

Le cronache politiche sostengono che il signor F. stia contando sulle primarie. Il voto degli iscritti dice che, per ora, a essere in testa è Pierluigi Bersani. Avrà anche un linguaggio antico, popolaresco, un po’ fuori moda, in stile tardo Pci, come ci ha spiegato sul Sole-24 Ore quel cervellone di Miguel Gotor. Ma ai pochi o tanti iscritti del Pd, Bersani sembra un segretario più affidabile del ganassa di Ferrara. Però anche in questo partito, ahimè!, del domani non v’è certezza.

La conclusione è scontata. Per vincere le primarie, il signor F. sposerà le posizioni più estremiste, le più arrabbiate, le più lunatiche. Urlerà invece di parlare. Farà scelte turche: demagogia allo stato puro, fanatismo, rabbia, invettive. Il tutto condito dalle balle stratosferiche che sta già spacciando: siamo al fascismo, la democrazia tira le cuoia, la libertà di stampa è defunta, a Palazzo Chigi siede un tiranno che accorpa in se stesso i connotati malvagi di Mussolini, Hitler e Totò Riina, in salsa puttanesca.

Il signor F. non farà nessuna fatica a condursi così. Gli basterà attenersi ai consigli di Repubblica e di “Annozero”. Se non gli sembreranno sufficienti, potrà sempre rivolgersi all’alleato Tonino Di Pietro. Quello che ha detto: abbiamo un Parlamento di mafiosi.
Sono abbastanza anziano per aver partecipato alle Tribune politiche della vecchia Rai, al tempo della Prima Repubblica. Qui ne rammento una del giugno 1976, vigilia elettorale. Il protagonista era Enrico Berlinguer, segretario generale del Pci. E il suo arrivo in via Teulada ebbe il protocollo e le cadenze di un rito ecclesiastico. Tanto da farmi ricordare l’ingresso di un cardinale in una parrocchia di certo importante, ma non del livello di una sede vaticana.

Fonte: Il Riformista: martedi 29/09/2009