domenica 31 ottobre 2010

Tutti i nodi vengono al pettine, anche quelli delll'ex pm Antonio di Pietro

La notizia, come sempre, è passata sotto silenzio nei grandi mEDIA italici, ad iniziare dal Corriere e finire a Repubblica, passando per i vari telegiornali. La notizia eclatante l'ho trovata in un articoletto a pagina 85 di Panorama del 4/11/2010.
Di questa storia, meglio dire storiaccia,  che è la prova del 9 del vero motivo che spinge i nostri politicanti a fare politica, ne avevo già scritto molto. Ma per vostra comodità riassumo brevemente:
alle passate elezioni europee del 2004 si presentarono uniti OCCHETTO E DI PIETRO, ma il denaro (molti milioni) del rimborso elettorale lo incassò soltanto Di Pietro perché era l'unico dei due ad avere un partito. Gli fu chiesto in tutti i modi possibile da Occhetto e C. di dar loro la parte di loro spettanza, ma Di Pietro accampò mille scuse e non diede loro nulla. Occhetto e  C. ricorsero ai giudici  ( fra i quali se ne trova ancora qualcuno che agisce liberamente senza fare strane tutele), per cui adesso siamo i giunti al ridicolo:  

ALLA CAMERA ARRIVA L'UFFICIALE GIUDIZIARIO.

C'è un decreto ingiuntivo da record, grazie ade Antonio Di Pietro, sulla scrivania Di Gianfranco Fini: 1642 milioni di euro. A tanto ammonta infatti il decreto emesso dal tribunale civile di Roma nel gennaio 2008 in favore del Cantiere di Achille Occhetto, Elio Veltri e Giulietto Chiesa, cofondatori alle europee del 2004 della lista Di Pietro-Occhetto.
I rimborsi elettorali, circa 5 milioni di euro, erano però stati pagati solo a Di Pietro: da qui il ricorso ai giudici per costringere la Camera a versare al Cantiere la quota dovuta.
La Camera si è opposta al decreto il 17/3/2008 e ha inscritto a ruolo l'opposizione il 26 marzo. Fuori tempo massimo: la Cassazione a settembre 2010 ha ribadito che il termine è di 5 giorni.
L'ingiunzione è ormai esecutiva: la Camera dovrebbe pagare ma si pensa a una leggina di salvataggio.   

Con questa leggina cosa vorrebbe fare il Signor Fini? Evitare di dare i soldi ad Occhetto e C. e continuare a darli al Signor Di Pietro, o farli pagare a noi?

Vi rimando alla lettura di due soli post su questo argomento: 1- Intervista a Veltri e 2-Così Di Pietro ha creato la sua IdV .

martedì 26 ottobre 2010

Quale garanzie hanno gli elettori che hanno votato Gianfranco Fini?

Durante la campagna elettorale Gianfranco Fini s'impegno a realizzare il programma del PDL, ma strada facendo e per motivi prettamente personali, ha cambiato opinione su tutto.
Queste sue ultime dichiarazioni ne sono la prova regina.
Resto dell'idea che sarebbe stato meglio, molto meglio, andare subito al voto e chiedere a tutti gli italiani cosa fare. Ma la pavidità di alcuni e l'insicurezza basata sui sondaggi e gli opportunismi hanno fatto perdere l'occasione regina. Se fossimo andati a votare subito dopo la fuoruscita di Fini dal PDL, il voto popolare avrebbe sancito una volta per tutte che i tradimenti degli ideali si pagano. 
Il Signor Fini non avrebbe potuto organizzare un partito, come invece sta facendo, e non superando la soglia dello sbarramento avrebbe fatto la fine del compagno Bertinotti del quale ne sta seguendo pedissequamente le gesta e le richieste.
Col tempo che passa gli italiani tendono a dimenticare e su questo Fini conta molto. O almeno ci spera.

Ecco le sue ultime dichiarazioni: 

Governo, Fini avverte Berlusconi
"Se cade si apre fase nuova"
Il presidente della Camera contro il "partito carismatico" poi annuncia: "Presenteremo una proposta di aumento delle tasse sulle rendite finanziarie al 25%". "Un altro esecutivo non sarebbe un colpo di Stato"

ASOLO (Treviso) 23/10/2010 - Gianfranco Fini torna a proporre i suoi distinguo da Silvio Berlusconi e dal Pdl e, a più riprese nel corso di diversi interventi attacca il "partito carismatico", avverte il Cavaliere che se il suo governo cade "si apre una fase nuova" e precisa: "Un nuovo esecutivo non sarebbe un colpo di Stato". Poi chiede "un aumento delle tasse sulle rendite finanziare del 25%" (Cavallo di battaglia del compagno Bertinotti, NdB). Colpi in sequenza contro i capisaldi del berlusconismo: il partito, il governo e la battaglia antifisco.

 Su quello che chiama "il partito carismatico" Fini è chiarissimo: "E' il miglior strumento per vincere le elezioni, ma il peggiore per governare perché deriva dal fatto che il cosiddetto partito carismatico forse non è 'cosiddetto', essendo basato su un rapporto diretto tra il leader e il popolo, essendo spesso senza intermediari, senza un dibattito interno e una democrazia".

Quanto al governo il presidente della Camera ricorda che Fli "è determinante per tenere in vita la maggioranza ", si tratta di vedere se il governo "è in grado di cambiare passo, di aggiustare il tiro" su alcuni temi, come sud, povertà, la stessa riforma della giustizia. Se non accadesse, "su alcune leggi potremmo votare contro. E se ciò portasse alla caduta del governo, allora si aprirebbe una fase nuova". Fase nuova che, specifica il leader di Fli, non significa immediate elezioni. In caso di crisi dell'esecutivo, spiega "è del tutto evidente che con la Costituzione vigente il presidente della Repubblica ha il diritto dovere di verificare se può nascere un altro governo, chi dice il contrario in qualche modo si pone contro la Costituzione, fuori dalla Costituzione. Poi, del tutto diverso è il discorso dell'opportunità politica".

Fini ha aggiunto che "Berlusconi ha il diritto di governare, ma anche il dovere di governare. Non dica ciò che farà quando si voterà ma cosa vuole fare ora che il voto non c'è" per risolvere i "problemi che gli italiani affrontano quotidianamente".

Poi annuncia che Futuro e libertà presenterà in parlamento un emendamento per alzare l'aliquota di tassazione delle rendite finanziarie dal 12,5 al 24-25%, in linea con la media europea. "La tassazione delle rendite finanziarie - ha detto il fondatore di Fli - non è né di destra né di sinistra e con le nuove entrate si può finanziare la riforma dell'università".

[FONTE]  

lunedì 25 ottobre 2010

Talk show con il filo spinato

Talk show con il filo spinato

L'ultima puntata di “Annozero”, andata in onda giovedì, si è aperta con una gran paraculata o, se preferite, una mignottata superlativa. Michele Santoro ha preso un dirigente della Rai, non della sua rete, bensì della Terza, e l’ha mostrato dietro una barriera di filo spinato. Sì, proprio il filo usato nei campi di concentramento. O nei posti dove vengono fatti transitare i prigionieri, prima d’essere condotti in galera oppure in un lager. Poi Santoro ha cominciato a interrogarlo sulle faccende della Rai e su come procedeva la questione di Roberto Saviano da mandare in onda accoppiato a Fabio Fazio.
Anche il più gnocco fra gli spettatori di “Annozero” ha capito che cosa voleva suggerire il filo spinato. La Rai è diventato un carcere per gli oppositori di Silvio Berlusconi. Le chiavi delle celle le tiene il direttore generale Mauro Masi, uno schiavo del Cavaliere.
Ma è già cominciata la lotta di liberazione. Guidata da Santoro, affiancato da un aiutante, il presidente della Rai, Paolo Garimberti. Presto arriverà un nuovo 25 aprile. Il Caimano verrà appeso al traliccio di un distributore di benzina. E tutti canteranno “Bella Ciao”. Come Santoro ha già fatto una volta in diretta tivù.
Sarà questo il futuro della Rai e dell’Italia? Non lo so, ma è di certo quanto si augura Santoro. Per intuire quanto accadrà, bisogna seguire le mosse di Michele. È lui il leader dei tanti sultani rossi che hanno occupato la televisione pubblica. Sotto lo sguardo indifferente di un centro-destra dove i fessi abbondano. E sotto gli occhi strabici del centro-sinistra dove gli sciocchi sono anche di più e non si accorgono che i sultani gli stanno mangiando la terra sotto i piedi. Tanto da essere diventati ben più potenti della truppa sconnessa e rissosa capeggiata dal trio suicida Bersani, Di Pietro & Vendola.
Santoro ha tutto per essere un vero capo politico. Per cominciare è il più anziano dei sultani: in luglio ha compiuto 59 anni, nel 2011 l’Italia festeggerà a dovere il suo sessantesimo compleanno. Poi è il televisionista rosso di più lunga durata. Sta sugli altari dal 1987, quando ancora esisteva la Prima Repubblica. Il suo successo d’esordio fu “Samarcanda”, seguita da “Il Rosso e il Nero” del 1992, entrambi sulla Rete Tre.
In quel tempo, Michele era alto, magro, astuto e ambiguo quanto occorreva. Un giorno andai a intervistarlo per l’Espresso e mi resi conto che era certo di sinistra, però non dimezzato a favore delle Botteghe oscure. Il partito di Santoro era uno solo: quello di Santoro. Con un timbro anarco-populista, derivato dalla militanza maoista in Servire il Popolo.
Essendo già il capo di un partito personale, si sentì così forte da passare a Mediaset, la corazzata di Berlusconi. Se debbo credere al Catalogo dei viventi di Giorgio Dell’Arti e Massimo Parrini, edito da Marsilio, anche nel fortino del Cavaliere mise in mostra l’abilità nel trattare gli affari. Ottenne un miliardo di lire all’anno e l’assunzione di tutta la sua squadra con compensi al massimo livello. E costruì altro due talk show di successo: “Tempo reale” nel 1994 e “Moby Dick” nel 1996.
Ma al Cavaliere, più furbo di tanti dei suoi dirigenti, Michele non piaceva. In lui fiutava l’avversario e per di più gli stava sui santissimi per l’aria da padrone. Lo liquidò e Santoro divenne il Grande Epurato dell’editto bulgaro di Sofia. Correva il 2004 e a Michele la sinistra offrì una exit strategy di lusso: il 14 giugno lo fece eleggere deputato europeo. Ma il parlamento di Strasburgo era il luogo più noioso del mondo per una star da battaglia come lui. Lo sopportò per meno di due anni. Si dimise e nel 2006, accolto da mamma Rai come il figliol prodigo, diede vita ad “Annozero”.
Sotto la nuova sigla, Santoro inaugurò un’altra stagione personale: il conduttore da guerra. Contro chi? Ma che domanda! Contro Berlusconi, il nemico da sconfiggere, il demonio da scacciare, il caimano da uccidere. Oggi è lui il più mussoliniano fra i sultani rossi da talk show. E infatti ogni giovedì, in prima serata, ci impone di credere, obbedire e combattere contro il Berlusca.
Il pubblico di sinistra lo adora. Michele è la prova vivente che il regime fascista del Cavaliere esiste, come dimostra il filo spinato che ingabbia un burocrate rossiccio della Rai. Ma può essere battuto. Santoro conta più di dieci Garimberti. E più di cento Masi, il direttore dei miei stivali che s’illude di mettere le briglie a Michele. Anche gli altri sultani rossi che dominano sulla Rai sono dei cartavelina. Persino l’accoppiata Fabio Fazio e Roberto Saviano, pur assistita da Michele Serra, la mente più lucida del Gruppo Espresso-Repubblica, sembrerà una squadretta da oratorio rispetto alla potenza di fuoco di “Annozero”.
La forza di Michele è ormai così tanta che anche i sultani minori ne risultano contagiati.
La voglia di strafare dilaga ai piani bassi. Lo si è visto venerdì sera nel salottino di Lilli Gruber sulla 7. L’affannata Dietlinge ha battuto se stessa. Convocando ben tre avversari del Berlusca: Miriam Mafai, Claudio Fava e Rocco Buttiglione. In totale, un quartetto in teoria micidiale, senza nessuno a rappresentare le ragioni del Caimano.
Morale della favola? I quattro sono riusciti a litigare fra di loro. E su che cosa? Nientemeno che sui destini delle sinistre italiche. Salvali tu, o super-sultano! Prendi in disparte la povera Gruber. E usa il tuo fascino salernitano per spiegarle come si fa a liberarsi dei vestiti di Armani per indossare la tuta da battaglia partigiana.

di Giampaolo Pansa 
pubblicato su Il Riformista di sabato, 23 ottobre 2010 

La sinistra divora se stessa

Come sempre riporto quanto scrive Giampaolo Pansa nella sua rubrica il Bestiario, pubblicata sul quotidiano il Riformista.
Oggi ve ne propongo le ultime due.

La sinistra divora se stessa

Il 16 novembre 1977, quando le Brigate rosse spararono a Carlo Casalegno, alla Stampa accadde un fatto che molti hanno dimenticato.
Nella foto: metalmeccanici in corteo per protestare contro le politiche del lavoro del Governo
Il 16 novembre 1977, quando le Brigate rosse spararono a Carlo Casalegno, alla Stampa accadde un fatto che molti hanno dimenticato. Quella sera il Comitato di redazione e il Consiglio di fabbrica diffusero un volantino che definiva l’attentato «un vile atto di chiara marca fascista». La stessa formula bugiarda venne usata dai tre sindacati torinesi. La Cgil, la Cisl e la Uil chiamarono i cittadini a protestare «contro il terrorismo di stampo fascista».
Quella sera, arrivato a Torino come inviato di Repubblica, lessi i due volantini. Non credevo ai miei occhi. I colleghi della Stampa dovevano pur sapere chi erano gli assassini del loro vicedirettore. Lo stesso valeva per il Consiglio di fabbrica e per i tre sindacati torinesi. Mi sembrò una mostruosità. E pensai che era un passo senza precedenti nel percorso suicida delle sinistre italiane.
Mi sbagliavo: i precedenti esistevano. La sinistra era abituata da sempre a spacciare quel tipo di menzogne. Me ne resi conto quando studiai ciò che era accaduto nel novembre 1948 in un centro della provincia di Bologna, San Giovanni in Persiceto, dopo un delitto compiuto da sconosciuti. Era stato assassinato Giuseppe Fanin, ventiquattro anni, dirigente delle Acli e della Cisl, il sindacato nato quattro mesi prima. Gli avevano sfondato il cranio a sprangate, mentre ritornava a casa di sera.
Anche in quel caso il Pci, attraverso le cronache dell’Unità, cercò di far passare la tesi che Fanin era stato ucciso da un reduce della Repubblica sociale. Davide Lajolo, il direttore del quotidiano comunista, scrisse che Fanin «era un individuo provocatore, a tutti inviso, più volte minacciato dagli stessi fascisti». E da democristiano cislino «apparteneva ai sindacati neri del Governo della discordia, che istiga all’odio e alla violenza».
Dopo i primi fermi, il Pci mandò sotto la casa dei Fanin un corteo di donne comuniste. Infuriate, gridavano: «Accusate i lavoratori di aver ucciso vostro fratello, invece siete stati voi!». Trascorso qualche giorno, emerse la verità. Il segretario del Pci di San Giovanni in Persiceto si presentò agli investigatori e confessò di essere il mandante del delitto. Sulle prime sostenne di aver fatto tutto da solo. Poi svelò i nomi dei tre compagni che avevano massacrato Fanin. Pure loro confessarono.
Sbaglia chi sostiene che il passato non aiuti a capire il presente. Anche le vicende di questo ottobre nervoso ci confermano che la sinistra continua a divorare se stessa. Ossia a commettere errori su errori, senza rendersi conto di scavarsi da sola la fossa. Grazie a Dio, o al caso, non c’è un morto da piangere. Ma lo spettacolo resta indecente. E incomprensibile agli occhi di chi lo osserva con un minimo di razionalità. Volete qualche esempio?
In previsione del raduno della Fiom-Cgil a Roma, il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, dice in un’intervista a Repubblica che esiste il rischio di infiltrazioni per opera di gruppi violenti, in arrivo anche dall’estero. E subito le sinistre lo accusano di essere un provocatore. Anzi di alimentare niente meno che la strategia della tensione.
Anche gli assalti alle sedi della Cisl e l’occupazione della sede padovana della Confindustria vengono addossati a misteriosi gruppi fascisti. Quando si scopre che sono imprese di gruppi antagonisti dell’estrema sinistra, l’opinione prevalente nell’arcipelago rosso non cambia. Persino il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, dopo aver rischiato di morire per il fumogeno che l’ha colpito a Torino, pronuncia giudizi che mi lasciano interdetto. Soprattutto perché le accuse contro di lui e il suo sindacato sono le stesse che sessant’anni fa venivano rivolte a Fanin.
SecondoRepubblica del 13 ottobre, Bonanni parla di «squadracce fasciste». Lo stesso giorno, sul Sole 24 Ore, il suo giudizio è riferito così: «Sono squadracce che si muovono con stile da fascisti. Il colore di cui vogliono tingersi è rosso. Ma è un rosso che porta al nero e alla simbologia fascista». Parole che fanno a pugni con quanto si era già scoperto. Il fumogeno portava il timbro del Centro sociale torinese Askatasuna. L’assalto alla sede nazionale della Cisl era stato compiuto e rivendicato dal gruppo Action diritti in movimento. L’irruzione nella Confindustria padovana era opera del Centro sociale Pedro.
Questi e tanti altri centri sociali sono corsi a Roma per irrobustire l’adunata della Fiom. Quello torinese aveva pure ricevuto la visita militante di due dirigenti dei metalmeccanici Cgil: il nazionale Giorgio Cremaschi e Giacomo Divizia, della Fiom di Cuneo. Cremaschi aveva spiegato alla truppa di Askatasuna il motivo del raduno romano del 16 ottobre. Antonio Rossitto, di Panorama, l’ha raccontato così: «Stiamo andando verso un regime e non è il regime di Berlusconi. Il programma vero del Cavaliere lo sta realizzando Sergio Marchionne. Lui vuole il monopolio della lotta di classe. Ma per fortuna ci siamo noi. Dobbiamo far crescere il conflitto sociale».
In questo scontro, quale sarà il ruolo del Partito democratico? Neppure una seduta spiritica con Togliatti, Longo e Berlinguer sarebbe in grado di spiegarcelo. In piazza con la Fiom, Pigi Bersani non c’è andato. Ma ha detto ai suoi: chi vuole ci vada. Doppiezza, prudenza, mossa obbligata? Vai a saperlo. Per il resto, c’è nebbia fitta sulla strategia democratica. Attenti a non mangiarvi da soli, signori del Pd. Il cannibalismo è un pessimo vizio. I cimiteri della politica sono pieni di partiti che si sono uccisi senza l’aiuto di nessuno.
 
di Giampaolo Pansa 
pubblicato su Il Riformista di sabato, 16 ottobre 2010

sabato 23 ottobre 2010

La solitudine dei numeri due

Questa interessante e lucida analisi di Ernesto Galli della Loggia, sull'attuale situazione politica italiana, pubblicata sul Corsera, mi ero dimenticato di segnalarla.
Eccola:

C'è un solo, vero vantaggio strategico che la destra italiana ha sulla sinistra. La destra ha un capo, la sinistra no. Specie quando si tratta di votare, di scegliere un futuro presidente del Consiglio questo si rivela un vantaggio decisivo. Il candidato della destra è il suo capo effettivo, conosciuto e riconosciuto come tale. Il candidato della sinistra, invece, è uno scelto a fare il candidato dai capi veri. La cui autorità quindi è un'autorità delegata, revocabile in ogni momento. La scelta dì Berlusconi come capo della destra, per varie ed ovvie ragioni (ma anche per una meno ovvia e di solito dimenticata: ed è che la destra italiana quale oggi la conosciamo l'ha inventata lui e solo lui) non ha bisogno di spiegazioni.
Da che il Cavaliere ha deciso di scendere in campo il fatto che il capo sia lui è qualcosa d'indiscutibile, sul quale Berlusconi per primo non è disposto a transigere. Nessuno del resto ha mai pensato di prenderne il posto. Fini stesso, dopo anni di acquiescenza, si è limitato a chiedere di essere coinvolto in qualche modo nelle decisioni da prendere e di poter esercitare una sia pure insistente libertà di critica. È bastato questo per vedersi cacciato dal Pdl su due piedi. Ciò che richiede di esser capito e spiegato, dunque, è perché la sinistra invece non riesca lei ad avere un capo. Mi sembrano tre i motivi principali. non ci riesce quello che è il suo partito di gran lunga più forte, il Pd. Dopo la fine dell'Unione Sovietica non aver scelto l'identità socialdemocratica, preferendole quella furbastra dei «democratici», lungi dal dare al partito ex comunista un'identità più ampia ed onnicomprensiva (come molti evidentemente speravano), gli ha reso impossibile, all'opposto, avere una qualunque identità. Lo ha condannato ad essere in permanenza un'accozzaglia di gruppi, di storie, di opinioni, ma non un partito. Dunque neppure ad avere una fisiologica e stabile vita interna con un capo riconosciuto. Il «comunismo» italiano, qualunque cosa esso fosse, traeva comunque dal leninismo il divieto ferreo del frazionismo e la conseguente inattaccabilità del segretario generale. Scomparso il «comunismo», non sostituito da niente, sembra svanita l'idea stessa di un capo. Sulla scena sono rimasti una dozzina di leader in lotta tra di loro ed autorizzati dal vuoto d'identità a recitare a turno tutte le parti in commedia.
Il secondo motivo riguarda con ogni evidenza la divisione ideologica della sinistra. Anche la destra è ideologicamente divisa, ma a destra sulle divisioni riesce sempre a prevalere in ultimo la volontà di vincere, e quindi il riconoscimento bene o male di un capo. Sulle passioni, cioè, riesce ad avere la meglio l'interesse politico complessivo. A sinistra, invece, sembra prevalere su tutto la passione dei proprio particolare punto di vista (di Rifondazione, Italia dei valori, Grillini, Verdi, ecc. ecc.). Vincere è importante, sì, ma a patto che ogni particolare punto di vista abbia modo di sopravvivere e di poter dire la sua da pari a pari con gli altri. Dunque senza riconoscere alcun capo: al massimo un leader elettorale. A sinistra il principale interesse politico, insomma, non è la vittoria sulla destra ma il mantenimento in vita delle proprie subidentità. In questo senso l'interesse delle varie mini leadership fa corpo con l'aggressiva suscettibilità, alla base, delle varie sfumature del radicalismo ideologico.
C'è infine un terzo motivo, riconducibile in generale alla cultura maggioritaria nel popolo di sinistra. È il forte elemento antigerarchico presente in tale cultura. Cioè l'ostilità all'idea che specie in politica ci sia, debba esserci, uno che comanda e gli altri che obbediscono. E che dunque non contano solo le cosiddette «forze sociali», non solo «le strutture», ma anche (e come!) la personalità individuale: sicché la cosiddetta personalizzazione lungi dall'essere una patologia della politica è viceversa iscritta da sempre nel suo destino. Come se non bastasse, questo atteggiamento costitutivo della mentalità di sinistra è stato infine enormemente rafforzato dall'enfasi spasmodica posta sull'antiberlusconismo. Berlusconi dipinto incessantemente come «duce», «ras», «boss» ha prodotto l'effetto di squalificare ulteriormente ogni idea di comando, di capo. A ciò si è aggiunto l'altrettanto spasmodico e conseguente pregiudizio antipresidenzialista. Consacrato da una Costituzione la quale, si dice, sancirebbe la suprema ridicolaggine politica che un Paese possa essere governato non da un capo ma da un «primus inter pares». Una sinistra con molti capetti ma senza un capo è costretta così a inventarsene spasmodicamente uno ad ogni stormir di fronde elettorali. Aprendo ogni volta un gioco al buio nel quale rischia di avere maggiori possibilità di successo, paradossalmente, o chi, tipo Beppe Grillo, in realtà non ha mai avuto a che fare con la politica, o chi, come Vendola, affida il suo richiamo sul pubblici allo stesso vuoto populismo del Grande Avversario da battere.

Articolo di Ernesto Galli della Loggia pubblicato su Corriere della Sera, il 20/09/10

 


QUELLO CHE RESTA DELLA DOLCEZZA DI CONFINDUSTRIA...

Com'era dolce la Confindustria, prima di Emma! C'era una volta un'istituzione aperta, plurale, senza barriere politiche e/o ideologiche, dove s'incontravano gli economisti con i giornalisti, i professori con gli imprenditori - giovani e meno giovani, l'esperienza e l'ambizione - in un clima sereno, in luoghi meravigliosi come Capri, Santa Margherita Ligure, oppure nelle sedi austere delle associazioni sul territorio.

Ovunque si fosse, ci si chiudeva per giorni a discutere di futuro. C'era un giornale - Il Sole 24 ore - che andava a gonfie vele, e un supplemento domenicale che era la piazza italiana più seguita per il dibattito culturale. C'è ancora, per fortuna, una grande università, la Luiss (tenuta al riparo, in mani sicure come quelle di Piero Celli), che resisterà allo stress delle ultime polemiche.

Che peccato. Ci si attendeva, da una donna importante, con alle spalle un patrimonio di lavoro e di capitale così ampio, che l'Aquila di viale Astronomia volasse alta. Invece, si è ripiegata in un ghigno arcigno e piuttosto indecifrabile. I presidenti del passato erano riusciti quasi sempre a non sovrapporre i loro profili privati - con i relativi, inevitabili, problemi - quando parlavano a nome del meglio dell'impresa nazionale. E sceglievano, non a caso, dei portavoce adatti al dialogo.
 
Barbara Palombelli per Vanity Flair

I risultati di gestione - per voi imprenditori così decisivi - registrano un passivo notevole. Che farà, ora, Emma? I fronti aperti sono diversi, e dare la colpa ai «veleni» non è da donna forte, ma da politicante. Ricostruire un clima e una credibilità è possibile, ma molto difficile. La dolcezza, poi... resterà solo un ricordo?

venerdì 22 ottobre 2010

Tutte le regioni raccolgono i rifiuti, perché la Campania no?

Sono anni che la Campania è amministrata dai politici ex comunisti o cattocomunisti del PD, ad iniziare dall'intoccabile Bassolino, prima 'o Sindaco di Napoli e poi 'o Governatore della Campania, e per anni Commissario speciale per i rifiuti.
Come sindaco di Napoli i cittadini hanno eletto, dopo Bassolino,  l'ex democristiana, Rosa Iervolino.  
Cosa hasnno fatto entrambi per risolvere il problema dopo che l'odiato Berlusconi 

Sul tema è intervenuto Pierluigi Battista del Corriere della Sera.
Questo il titolo del suo intervento con il link per vederlo. 


Tutte le regioni raccolgono i rifiuti, perché la Campania no?
E i giornali la buttano in politica: "Colpa del governo", "Attacco a Silvio".

  
Video Corriere della Sera

Ecco le perle dette negli ultimi giorni dai due ex pm sempre in cattedra!

Preparatissimidi Filippo Facci


Segue elenco delle scemenze dette da Di Pietro & De Magistris negli ultimi giorni.

1) A Ballarò, mentre Alessandro Sallusti diceva che la Procura aveva favorito la fuga di notizie del 1994 ai danni di Berlusconi, Di Pietro gli urlava: «Non l'hai confessato prima perché non eri in prescrizione». Di Pietro ignora che la pubblicazione arbitraria di atti (articolo 684) è prescritta dopo soli 4 anni, quindi lo è già dal 1998.

2) Dopo la diffusione della notizia che un finanziere passava dati a Panorama, De Magistris ha denunciato: «Dopo che venni eletto, su Panorama uscì un’inchiesta vergognosa che si basava su dati personali e riservati, come la dichiarazione dei redditi». De Magistris ignora che la dichiarazione dei redditi non è un dato riservato, e che nel caso di un parlamentare è addirittura messa online dal Senato.

3) De Magistris, martedì, ha detto che il Capo dello Stato non dovrebbe promulgare il Lodo Alfano: «Vedremo quello che il Presidente farà». De Magistris ignora che il Lodo Alfano è una legge costituzionale e non viene promulgata dal Capo dello Stato.

4) Di Pietro, ieri, ha detto che per fermare la retroattività del lodo Alfano ha «già raccolto milioni di firme». Posto che di firme ne bastano 500mila, Di Pietro è l'unico uomo del mondo che pretende d'aver raccolto delle firme per abrogare una legge che non c'è ancora, perché è stata approvata solo in commissione giustizia e manco è arrivata in aula.

[Fonte

mercoledì 20 ottobre 2010

L'ex pm Antonio Di Pietro, patron dell'IDV dove alberga De Magistris, cosa ne pensa?

 Quando il giudice castiga il pm  

Sentenza: De Magistris, più che indagare, faceva il Saint-Just di provincia

L’inchiesta Why not, condotta dall’ex pm Luigi De Magistris, è scoppiata come una bolla di sapone. Il giudice per le indagini preliminari Abigail Mellace in una lunghissima motivazione della sentenza ha descritto un metodo di indagine profondamente distorto, volto alla ricerca dell’effetto politico e pubblicitario, privo di ogni serietà e professionalità. Gli effetti politici generali, com’è noto, sono stati clamorosi. L’inchiesta ha contribuito a provocare le dimissioni dell’allora Guardasigilli Clemente Mastella.

[FONTE

martedì 19 ottobre 2010

Da Fini al Pd all'Udc di Casini, passando per l'Mpa e l'Api. Questi signori lo sanno?

I componenti della quarta giunta regionale siciliana voluta dal governatore Lombardo, dai finiani al Pd, dall'Udc di Casini, passando per l'Mpa e l'Api di Rutelli,  sono a conoscenza di questa squallida vicenda?

Sequestrata per abusivismo la casa al mare del governatore Raffaele Lombardo.

“La mia villa sul mare è un esempio di legalità”, aveva detto Raffaele Lombardo in merito all'abitazione di sua proprietà e poi donata alla moglie, Rina Grosso. Ma la Procura di Modica ha smentito il presidente regionale e ha disposto il sequestro dell'abitazione a Ispica, nel ragusano, per abuso edilizio. I sigilli sono stati posti su disposizione del procuratore capo Francesco Puleio. Contro la decisione è già stato presentato un ricorco davanti al tribunale del riesame. I legali del governatore siciliano sostengono che “tutti i permessi sono in regola” e minimizzano: “L'indagine interviene in un territorio devastato da gravi fenomeni di abusivismo”.

Quella che appare come una colata di cemento a dieci metri dal mare è in piena area protetta e archeologica. La villetta del presidente della regione siciliana Raffaele Lombardo, intestata alla moglie Rina Grosso, è stata appena sequestrata dalla procura di Modica perché si ipotizza sia abusiva. Una zona un tempo incontaminata, sospesa tra aree umide, cicogne e papiri, già oggetto delle proteste di Legambiente che nel rapporto Goletta Verde del 2008 ricostruiva tutta la vicenda. A partire dal primo sequestro delle fondamenta avvenuto nel 2004, con una promessa sulla stampa non mantenuta: Raffaele Lombardo aveva assicurato la demolizione e il ripristino dei luoghi.

Raffaele Lombardo ha intestato tutto alla moglie e i lavori sono ripresi con una Dia (denuncia inizio attività), nella quale un professionista si è assunto ogni responsabilità attestando la conformità urbanistica di tutta la costruzione. Peccato che catastalmente risulti “pascolo” e “vigneto”.

“Tutto regolare”, secondo i legali del presidente autonomista che hanno diramato un comunicato stampa in difesa del governatore e della moglie intestataria della casa sequestrata. Un documento di poche righe che porta la firma dello studio “Scuderi – Motta”, di cui è fondatore l'avvocato Andrea Scuderi, già candidato presidente della provincia di Catania per il centro sinistra, in collaborazione con numerosi professionisti, tra i quali spicca il nipote di Scuderi: Giuseppe Berretta, capolista del Pd alle ultime politiche. Insomma, il sostegno del partito democratico al presidente della regione siciliana rischia di apparire trasversale: dagli assessorati palermitani alle faccende di famiglia, cemento probabilmente “abusivo” compreso.


[Fonte
 

domenica 17 ottobre 2010

Telecom Serbia: il depistaggio delle tangenti favorì la sinistra.

Su wikipedia c'è scritto così: 


La calunnia è un venticello. Un'auretta assai gentile. Che insensibile sottile. Leggermente dolcemente. Incomincia a sussurrar. Piano piano terra terra...
Questo nell'opera di Rossini, nella realtà accade  questo:

Telecom Serbia
Il depistaggio delle tangenti favorì la sinistra.

Quando le cose sono chiare servono poche parole per descriverle, quando invece sono ingarbugliate o le si vuole ingarbugliare ne servono molte di più. Sarà per questo che Giuseppe D’Avanzo non riesce mai a scrivere un articolo di modica quantità, ma deve ogni volta occupare paginate intere di Repubblica? Probabile. Di sicuro questa è la ragione per cui anche ieri ha dovuto vergare quasi 300 righe nel tentativo di dimostrare l’indimostrabile e cioè di non avere avuto un ruolo chiave nell’affare Telekom Serbia. Vediamo di riepilogare.
L’inviato del quotidiano progressista prova a sostenere che il caso dell’azienda comprata da Milosevic fu la prima operazione della macchina berlusconiana del fango. La realtà è molto diversa, perché quella vicenda non partì dal Giornale di proprietà del presidente del Consiglio ma dalla Repubblica. Chi lo sostiene? Il Cavaliere, Bonaiuti oppure io? No. Il giudice che si occupò della vicenda, ovvero il gip Francesco Gianfrotta, il quale cita espressamente Giuseppe D’Avanzo e Carlo Bonini.
Perché Repubblica raccontò di tangenti pagate da Telecom per acquistare una quota di minoranza nella società dei telefoni di Belgrado? Perché il quotidiano progressista voleva destabilizzare l’azienda appena comprata da Roberto Colaninno e soci della Razza padana con l’appoggio di una parte della sinistra (a benedire l’operazione era stato l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema). Chi lancia una simile accusa? Berlusconi, Cicchitto oppure io? No. Lo stesso Colaninno, che in Primo tempo, il libro scritto a quattro mani con il vicedirettore dell’Unità Rinaldo Gianola, lo fa chiaramente intendere, lasciando capire che il padrone di Repubblica, Carlo De Benedetti, fu ben lieto della campagna condotta dal suo giornale, perché si sentiva estromesso dal gioco e dunque non gli dispiaceva affatto vedere gli ex compagni di scorribande in difficoltà.

Il problema è che una volta lanciato il sasso e nascosta la mano, a Repubblica sfuggì il controllo dell’operazione. I quotidiani presero a occuparsi della cosa e tra questi il Giornale, il quale cominciò a domandarsi perché una società controllata dallo Stato avesse comprato quote di minoranza in un’azienda di un Paese ad alto rischio, dove un dittatore comunista e sanguinario si era appena reso responsabile di una feroce pulizia etnica. Iniziò a venir fuori che l’ambasciatore a Belgrado aveva sconsigliato vivamente l’acquisizione, informando il governo. I cui membri però negarono di essere mai stati chiamati a decidere sulla faccenda. Quale autorità politica autorizzò l’affare, cominciò a domandarsi il Giornale, e a cosa servirono i soldi incassati da Milosevic? Una lettera di Fausto Biloslavo, qui a fianco, ricorda come il dittatore abbia impiegato il denaro, finanziando le truppe e le fabbriche di carri armati che poi furono impiegati nel massacro nel Kossovo.
Arrivati a questo punto della vicenda, che lambì oltre a Palazzo Chigi il ministero degli Esteri e quello dell’Economia, ecco spuntare Igor Marini, il supertestimone, il quale prima ci provò senza grande successo proprio con il Giornale e successivamente con la Commissione parlamentare d’inchiesta costituita per indagare sui fatti e infine con la magistratura. Marini raccontò di tangenti pagate a Mortadella, Ranocchio e Cicogna, ovvero Prodi, Dini e Fassino. Commissione e pm, in attesa di verifiche, presero per buone le frasi di Marini. La Procura addirittura dispose una serie di arresti sulla base delle sue accuse. Chi però insinuò i primi dubbi sulla deposizione? De Bendetti, Ezio Mauro o Giuseppe D’Avanzo? No. Il sottoscritto. Fui io a scrivere a pochi giorni dalla deposizione che il supertestimone non mi convinceva e che dunque Prodi, Dini e Fassino erano da ritenere innocenti fino a prova contraria. I lettori mi scuseranno, ma fu sempre il sottoscritto a domandarsi chi, contro i pareri dei vertici aziendali, avesse autorizzato un’operazione che di fatto finanziò Milosevic e la guerra in Kossovo.
Il Giornale nel 2002 fece dunque le prove generali di funzionamento della macchina del fango? No, fece semplicemente il suo dovere. Chi lo sostiene? Feltri, Sallusti o Belpietro? Assolutamente no: a scriverlo sono i giudici, i quali hanno assolto me e i colleghi che si occuparono del caso in diversi giudizi intentati da chi si sentì chiamato in causa. Scrivono i magistrati della corte d’Appello di Catania, cui si rivolse Francesco Rutelli, uno dei politici citati da Marini. «Non può non osservarsi come la narrazione dei fatti sia proceduta con molta cautela e con vari passaggi espressi in forma dubitativa, segno che gli autori dell’articolo e il direttore de il Giornale hanno inteso mantenere un atteggiamento di palese distanza e di non supina adesione rispetto a quanto era stato propalato dal Marini». E con ciò assolvono giornalisti e direttore «per aver agito nel legittimo e corretto esercizio del diritto di cronaca».
Si ebbe mai una risposta ai quesiti sollevati dal Giornale sulle responsabilità politiche di quell’operazione? No. Il depistaggio di Marini mandò tutti fuori strada e la vicenda rimase uno dei tanti misteri di questo Paese. Le rivelazioni del supertestimone si tramutarono in un boomerang per la Commissione parlamentare d’indagine, il cui operato fu demolito anche grazie al contributo fondamentale di Giuseppe D’Avanzo e di Repubblica.
Chi dunque manovra la macchina del fango? Per questa risposta, cari lettori, non credo serva il mio aiuto, potete far da soli.

di Maurizio Belpietro
16/10/2010

[FONTE]

lunedì 11 ottobre 2010

Dossieraggi killeraggi pompieraggi

Pubblico un articolo del giornalista e scrittore Giampaolo Pansa che, lucidamente, analizza l'attuale situazione italiana alla luce diu quanto sta accadendo sulla carta stampata e non solo.


Dossieraggi killeraggi pompieraggi

Che cosa ho imparato nei primi anni di giornalismo? Alla Stampa, al Giorno e al Corriere della sera, mi hanno insegnato che l’inchiesta è il top della professione, la prova di eccellenza, il traguardo glorioso di un cronista. A Repubblica la pensava nello stesso modo Eugenio Scalfari. Del resto lui veniva da anni di Espresso. E con Lino Jannuzzi aveva scritto un’indagine rimasta famosa contro il Piano Solo del generale Giovanni De Lorenzo.
Piero Ottone, direttore del Corriere della sera, amava molto le inchieste. Ne ricordo una che scrissi per lui, insieme a Gaetano Scardocchia. Era il febbraio 1976 quando emerse lo scandalo Lockheed, la grande azienda americana che fabbricava aerei. La Lockheed era sospettata di aver pagato tangenti a politici italiani per facilitare la vendita dei suoi Hercules C 130, destinati all’aeronautica militare.
Vedo dai miei taccuini che Scardocchia e io pubblicammo sul Corriere ben tredici articoli, un numero insolito per l’epoca, tirando in ballo eccellenze della politica e dell’industria. Le reazioni furono tante.
 non escludo che nella nostra indagine ci fossero errori. Ma nessuno ci accusò di aver fatto del dossieraggio. O di aver tentato di uccidere moralmente questo o quel big.
Oggi qualunque inchiesta giornalistica sfiori un potente diventa subito un dossier. E gli autori dell’indagine vengono bollati come killer che sparano parole micidiali quanto le pallottole. Siamo dunque arrivati al dossieraggio e al killeraggio.
Il lancio della nuova moda è merito soprattutto di Italo Bocchino, il numero uno delle teste di cuoio di Gianfranco Fini. Qualunque leader politico vorrebbe avere uno scudiero come lui. Bocchino ha imparato meglio di tutti una vecchia lezione mediologica: il mezzo è il messaggio. Se ripeti all’infinito, su tutti i media, che l’uovo di Cristoforo Colombo era di gesso, qualcuno finirà per crederci.
Dopo cinquant’anni di giornalismo, posso permettermi di ridere delle trovate di Bocchino. Pensando che anche lui, come tutti i ras della casta partitica, preferisca il pompieraggio. Ossia l’arte di spegnere con getti d’acqua gelida qualsiasi notizia in grado di infastidire un leader. E al tempo stesso pomparne l’immagine illibata, priva di macchie. È quanto è stato tentato per Gianfranco Fini e per la storiaccia della casa di Montecarlo, del cognato intraprendente, dei favori ottenuti dalla Rai.
Ma Il Giornale di Vittorio Feltri e Libero di Maurizio Belpietro sono andati avanti per la loro strada. Suscitando la desolata irritazione dei media che da sempre combattono Silvio Berlusconi con le stesse armi. Ossia con campagne giornalistiche protratte per settimane e settimane, senza andare per il sottile. Anche in questo caso è prevalsa la nevrosi anti-Cav. Se l’obiettivo è il maledetto Berlusca, tutto è lecito. Se invece sotto tiro stanno gli oppositori del premier, allora devono entrare in scena i pompieri.
Ho spiegato più volte che del Cavaliere non m’importa nulla. Non l’ho mai votato, né l’ho mai frequentato. La stessa indifferenza ho per il presidente della Confindustria, la signora Emma Marcegaglia. Adesso nel mirino del Giornale e di Libero c’è lei, per aver dichiarato al pubblico ministero napoletano di sentirsi minacciata dal quotidiano di Feltri e di Alessandro Sallusti. Per di più a causa di articoli mai pubblicati, però pubblicabili. Avallando in questo modo un’indagine pesante sul comportamento del vertice del Giornale, Sallusti e Nicola Porro.
Sono convinto che l’inchiesta giudiziaria si rivelerà una bolla di sapone. Ma posso anche sbagliarmi. Un antico detto cinese sostiene che la giustizia è come un timone: dove lo giri, la barca va da una parte o dall’altra. Sull’affare Marcegaglia esistono però un paio di certezze.
La prima riguarda il comportamento della signora Emma. Fare il presidente di Confindustria è un mestiere simile a quello del leader di partito. Palmiro Togliatti sosteneva che, per fare politica, fosse necessario avere la pelle del rinoceronte. Vale a dire essere insensibile ai colpi degli avversari. Ho fatto in tempo a conoscere Angelo Costa, l’armatore genovese per due volte capo di Confindustria. Era un vero duro, classe 1901, e non sarebbe mai andato a lamentarsi con un altro padrone dei problemi che gli potevano venire da un giornale.
La potente signora Marcegaglia, invece, si è comportata come Winston Churchill, senza esserlo. Lui diceva: «Parlo soltanto con le proprietà dei giornali, mai con i direttori e i giornalisti». Emma si è condotta così, telefonando a Fedele Confalonieri, che sta nel consiglio d’amministrazione del Giornale. Senza rendersi conto di maneggiare un boomerang. E di mettersi al centro della scena. Un palco ruvido perché non privo di problemi per la sua azienda.
Lei temeva un dossier e l’ha avuto subito. Prima ancora che dal Giornale e da Libero, da una testata della sponda opposta. È Il Fatto Quotidiano che, con un giorno d’anticipo, ha pubblicato lo scabro articolo di un bravo giornalista economico, Vittorio Malagutti. Intitolato “Quanti guai per l’azienda di Emma la zarina”.

Morale della favola? In tempi di politica debole e confusa, i giornali è meglio lasciarli stare. Stampare notizie sgradite ai potenti è sempre stato il loro compito. Del resto il clima cattivo, denunciato per primo dal “Bestiario”, non è colpa della stampa. Bensì dei violenti che la minacciano di continuo, anche nelle persone dei giornalisti. Come è accaduto, sta accadendo e seguiterà ad accadere.

di Giampaolo Pansa

pubblicato su il Riformista il 9/10/2010 
 

giovedì 7 ottobre 2010

Due modi di scalare le istituzioni

Riporto una lucida analisi, pubblicata sul quotidiano la Stampa di Torino, sul come sono bravi i nostri politicanti nel farsi largo ai vertici dello Stato e delle istituzioni. Adesso è la volta di Gianfranco Fini.

Futuro e libertà s'appresta a diventare l'ottantaduesimo partito della seconda Repubblica. Una madre generosa, dato che fin qui ha partorito cinque o sei figli l'anno, e senza l'aiuto della fecondazione artificiale. Cambia qualcosa per la politica italiana quest'ennesima creatura? E cambia qualcosa per le istituzioni, per i loro fragili equilibri?
Domanda malandrina, perché chiama in causa il presidente della Camera, che del nuovo partito è fondatore e leader. Ma è un dubbio che ci era già rimbalzato addosso quando Berlusconi aveva giudicato incompatibile lo scranno di Fini con il battesimo dei gruppi parlamentari targati Fli. Sicché, a rigirarla fra le dita, la domanda di giornata è un'altra: cambia qualcosa per la sua permanenza in carica la trasformazione dei gruppi in un partito?
In punta di diritto no, non cambia nulla. Perché i regolamenti parlamentari escludono la mozione di sfiducia verso il presidente d'assemblea. Una scelta fatta per liberare lo stesso presidente dai ricatti di questa o quella maggioranza, per renderlo indipendente, e perciò imparziale. Perché d'altra parte il cordone ombelicale che legava il presidente dei Consiglio a quello di Montecitorio si spezzò già durante l'Ottocento, quando Crispi fece cancellare il proprio nome dall'elenco dei votanti, per non confondersi con le truppe del governo, per marcare una distanza. E perché infine ogni parlamentare - anche se presiede l'assemblea ha l'obbligo di iscriversi ad un gruppo, perché di norma a ogni gruppo corrisponde un partito, e perché dunque tutti i presidenti di Montecitorio hanno sempre indossato una maglietta di partito.
Ma non c'è solo il metro della doverosità: in queste faccende è altrettanto importante l'opportunità costituzionale, benché nessuna norma ne abbia mai stabilito il perimetro, i confini. Insomma una categoria sfuggente, e perciò opinabile come l'etica pubblica di cui costituisce la proiezione, come le regole di correttezza, come la distinzione fra rappresentanza (formale) e rappresentatività (sostanziale). È su questo terreno che s'esercita il ruolo del Capo dello Stato, quando rifiuta per esempio la promulgazione d'una legge: non in base a un giudizio di legittimità costituzionale (che spetta viceversa alla Consulta), ma per l'appunto in quanto la ritiene lacerante, in contrasto con l'unità degli italiani, e quindi sommamente inopportuna.
È opportuno che il partito del presidente della Camera sia determinante per la prosecuzione della legislatura? Tutto sommato ci può stare, d'altronde è lo stesso film cui abbiamo già assistito quando al suo posto c'era Bertinotti. Ed è opportuno che il presidente Fini imponga nel calendario dei lavori la riforma elettorale che sta a cuore al suo partito? Qui la domanda ti fa storcere la bocca. Ma soprattutto: c'è una differenza fra conquistare Montecitorio da presidente di partito (com'era già successo a Bertinotti, e prima di lui a Casini), e conquistare un partito da presidente di Montecitorio? Diciamolo senza troppi giri di parole: la differenza c'è e si vede. Altro è scalare le istituzioni attraverso la politica, altro è scalare la politica attraverso le istituzioni. Altro è fondare un gruppo parlamentare per esprimere un dissidio rispetto alla maggioranza cui appartieni, una divergenza di strategie o di priorità ma non anche di obiettivi; altro è trasferire questo disaccordo-dai corridoi di Montecitorio alle piazze, alle città.
Che cos'è infatti un partito? Un'associazione di persone che condividono, una visione di parte, dunque particolare e partigiana, dell'interesse generale. I partiti si distinguono l'un l'altro (o almeno dovrebbero: ma in Italia non sempre succede) perché inalberano concezioni opposte della società, dei suoi bisogni, delle sue prospettive. Sicché giocoforza si dividono, e dividono i loro elettori; ma è opportuno che il divorzio venga sottoscritto da chi rappresenta viceversa l'unità? A queste domande può rispondere soltanto il diretto interessato. Ma le domande, diceva Oscar Wilde, non sono mai indiscrete. Lo sono, talvolta, le risposte.

Articolo di Michele Ainis pubblicato su La stampa, il 07/10/10 




 

lunedì 4 ottobre 2010

Pubblico delle interessanti lettere tratte dal sito Dagospia

Lettera 4
Caro Dago, l'acronimo del momento è il celeberrimo SPQR, vogliamo adattarlo ad alcuni Vip? Pronti, via:
 

Umberto Bossi : Sono Padano Quindi Razzista
Rosi Bindi : Sono Pasionaria Quanto Racchia
Patty D'addario : Sono Previdente Quindi Registro
Elisabetto ( a Fini ) : Sono Proprietario Quindi Règolati
Berlusconi : Sono Premier Quindi Rassegnatevi
Bocchino : Sono Pippa Quanto Raisi
Brunetta : Sono Piccolo Quanto Rascel
Scajola : Sono Pirla Quando Rogito
Luciano Gaucci : Sono Pistola Quando Regalo
Antonio Di Pietro : Sogno Prestiti Quasi Regalati
Wafenzao : Sono Perfetto Quando Riciclo
Dandini :Sono Patetica Quando Rido
Giorgio Bocca : Sono Partigiano Quindi Resisto
Corona : Sono Professionale Quando Ricatto.

Ora i tuoi lettori potranno sbizzarrirsi per trovarne altri.
Natalino Russo Seminara

Lettera 15
Caro Dago, dopo aver sentito lo sproloquio dell'onorevole Di Pietro mi sono reso conto dei danni effettivi causati dalla Legge Basaglia.
Paolo M.

Lettera 16
Egregio signor Dago, leggo che il sempre ottimo on. Di Pietro avrebbe paragonato Berlusconi a Nerone, sottintendendo naturalmente un'accezione negativa dell'imperatore romano. La prego di fare presente all'onorevole che negli ultimi decenni la figura dell'imperatore è stata grandemente rivalutata e posta nella corretta luce storiografica, attribuendo a quel romano i giusti meriti e disvelando la panzana secondo la quale egli avrebbe dato fuoco a Roma.

Mi rendo conto che l'onorevole Di Pietro attinga probabilmente a ricordi scolastici risalenti ai tempi delle scuole elementari, ma continuare, nel 2010, ad evocare una figura erroneamente nefasta ed incendiaria di Nerone equivale a dire che i meridionali, come meridionale è Di Pietro, sono tutti mafiosi.
Anacleto Mitraglia


[FONTE

sabato 2 ottobre 2010

Ecco come e da chi siamo rappresentati nel Parlamento.

Vi invito a vedere questi dieci minuti di video pubblicati su Youtube per prendere atto da chi e in quale modo siamo rappresentati nel Parlamento della Repubblica, massimo organo elettivo di rappresentanza della volontà popolare della nazione.
L'amministratore delegato della FIAT, Sergio Marchionne, a chi all'estero gli chiede cosa succede in Italia, non sa dare una risposta. 
Il video che pubblico è una fra le molte possibili risposte. Lo capiranno gli elettori che hanno votato per l'ex tutto, il signor Antonio Di Pietro?
Si sentono rappresentati dal suo turpiloquio?
Spero proprio di no! 

A questo video c'é uno prosieguo di cui la stampa da oggi notizia e che vi riporto:


" Ieri sera mi è stato notificato che inizieranno in Parlamento un procedimento disciplinare nei miei confronti, per valutare se posso stare o no in Parlamento". Lo riferisce  Antonio Di Pietro, arrivando a piazza della Repubblica per il No B-day 2. Mercoledì scorso in aula a Montecitorio, il leader dell'Idv aveva rivolto al presidente del Consiglio durissime frasi, appellandolo come "stupratore della democrazia", "serpente a sonagli", "venditore di tappeti", "uno spregiudicato illusionista, anzi un pregiudicato illusionista", "non uno dei tanti tentacoli della piovra ma la testa della piovra", retta da una "maggioranza farlocca, venduta, comprata o ricattata", fatta di gente che "vota la fiducia per mantenere la propria poltrona". Questi ed altri gli insulti rivolti al premier dall'ex magistrato durante la dichiarazione di voto.

Nuovo attacco al Cav - Di Pietro non si ferma nemmeno di fronte a un'imminente azione disciplinare e oggi si difende rilanciando le accuse: "L'altro giorno ho fotografato il personaggio Berlusconi. La colpa non è del fotografo ma di chi pensa a violentare le istituzioni. In Parlamento io non ho detto il falso, ho fatto la fotografia di quello che sono Berlusconi e il suo Governo. Non è colpa mia se da quella fotografia esce una rappresentazione squallida. E’ l'immagine depravata di chi invece di governare il Paese pensa soltanto a violentare le istituzioni usandole a proprio uso e consumo e che mette sempre al primo posto la vendetta nei confronti dei magistrati e la ricerca di leggi per la propria impunità". Poi arriva la minaccia: "Appena rientro alla Camera, se mi dovessero sospendere, lo ripeterò pari pari. E’ previsto che ogni parlamentare alla fine della seduta possa prendere la parola, lo riprendo e lo rileggo pari pari".
Del provvedimento si occuperà mercoledì prossimo l’ufficio di Presidenza della Camera
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