sabato 27 febbraio 2010

Sul tema PRESCRIZIONE tanto caro alla sinistra italica... ci vuole MEMORIA

Per un ritorno continuo ma spudorato sul tema della prescrizione che riguarda Berlusconi, ri-pubblico delle notizie "vecchie" che le sinistre dimenticano dall'alto della loro millantata, sbandierata e presunta ad ogni piè sospinto, supremazia morale.  

Quando D’Alema intascò un finanziamento illecito per il Pci, confessò, e non venne condannato e arrestato grazie alla prescrizione del reato.

Correva l’anno 1994. Il pubblico ministero pugliese, Alberto Maritati, stava indagando su un finanziamento illecito erogato – tramite assegno – dal patron delle Cliniche Riunite di Bari, Francesco Cavallari, a Massimo D’Alema.

Cavallari, dinanzi al pm, il 9 settembre di quell’anno dichiarò:

“Non nascondo che ho dato un contributo di 20 milioni al partito. D’Alema è venuto a cena a casa mia, e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale 1985, che volevo dare un contributo al Pci. Quella sera, con D’Alema, eravamo presenti in tre: io, il mio cuoco Sabino Costanzo, e il nostro amministratore Antonio Ricco che era in grande rapporto d’amicizia con lui”.

Nel giugno del 1995, quel processo fu archiviato per decorrenza dei termini di prescrizione, su richiesta dello stesso pm Maritati.

Il gip Concetta Russi, con queste parole dispose l’archiviazione:

“Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti, e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci. Con riferimento all’episodio riguardante l’illecito finanziamento al Pci, l’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato”.

D’Alema, dunque, confessò di aver percepito un finanziamento illecito per il Partito comunista. E tuttavia, non venne condannato e non finì in gattabuia grazie alla prescrizione del reato da lui compiuto.

Va aggiunto, inoltre, che il pubblico ministero di questo processo, Alberto Maritati, fu candidato – per volontà di D’Alema – alle elezioni suppletive del giugno 1999 (si era liberato un seggio senatoriale, dopo la morte di Antonio Lisi). E divenne sottosegretario all’Interno del governo presieduto dallo stesso D’Alema. Ancora oggi, Maritati, siede al Senato nelle fila del Partito democratico.

Dalle mie parti si dice: una parola è poca, e due sono troppe.


Capitolo europeo: 

Massimo D’Alema ha goduto dell’Immunità Parlamentare essendo Parlamentare Europeo e quindi contro di lui il Gip Clementina Forleo non ha potuto procedere per gli stessi Reati per cui sono stati rinviati a giudizio Consorte e gli altri “furbetti” del quartierino. Anche qui stendiamo un velo pietoso sul trattamento riservato alla Forleo, unico Giudice trattato male dal CSM, dalla Sinistra e dall’ANM ma anche questa è la solita storiaccia sinistra dove chi indaga da un parte diventa Ministro o Parlamentare, chi dall’altra viene trasferita e preso per una “pazza e isterica”. 
Lasciamo stare davvero e torniamo a noi.Questi i fatti dicevamo,adesso immaginatevi che D’Alema fosse invischiato in Processi per Corruzione,Illecito Finanziamento e tutte queste belle cose con centinaia di Intercettazioni telefoniche imbarazzanti che lo riguardano pubblicate dai giornali italiani le quali sono rimaste nei cassetti delle Procure appunto perché grazie all'Immunità Parlamentare contro il nostro non si poteva procedere. Avrebbe avuto la stessa “autorevolezza” (peraltro molto relativa) vantata dalla nostra sinistretta a fare il Candidato a Ministro degli Esteri UE? Sarebbe stato preso in considerazione un politico indagato per reati gravissimi (per i quali i suoi co-indagati sono stati condannati)? 
Noi chiediamo alla Sinistra di ragionare prima di vomitare le solite accuse ma siamo consapevoli del fatto che i suoi militanti faranno il gioco delle tre scimmiette anche stavolta.Quindi alla Maggioranza, come sempre,non resta che andare avanti da sola e con rapidità verso una Riforma della Giustizia e verso la reintroduzione dell'Immunità Parlamentare senza dare ascolto agli ipocriti di maniera come D’Alema,Di Pietro e Palamara…


1- In tema di etica, morale e scuse partitiche... 

L'appartamento romano di baffino.

Nel 1995 D'Alema rimase coinvolto in Affittopoli, uno scandalo scoperto da Il Giornale: enti pubblici davano in locazione a VIP appartamenti a prezzi agevolati. Dopo una dura campagna mediatica D'Alema lasciò l'appartamento per comprare casa a Roma, ma solo dopo essersi presentato alla trasmissione di Rai 3 condotta da Santoro, dal titolo Samarcanda, in cui ha giustificato la cosa affermando che aveva bisogno della casa degli enti perché versava metà del suo stipendio di parlamentare al partito (all'epoca consistente in circa 12 milioni di Lire al mese).

IL J’ACCUSE DI TRAVAGLIO. Il giornalista Marco Travaglio, non sospetto di pregiudizi verso la sinistra, su Micromega del maggio 2006, rispose così alla domanda se fosse da preferirsi come presidente della Repubblica Amato, D’Alema o Marini. “Vorrei aggiungere qualche concreto elemento fattuale – affermò - che dovrebbe caldamente sconsigliare l’ascesa al Colle più alto di Massimo D’Alema. Il presidente Ds si è salvato per prescrizione in un processo relativo a un finanziamento illecito di 20 milioni di lire ricevuto a metà degli anni 80 da un imprenditore barese colluso con la Sacra Corona Unita, il re delle cliniche pugliesi Francesco Cavallari, che poi ha patteggiato una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa (…) D’Alema confessò di aver ricevuto denaro in nero da quel soggetto al termine di una cena nella di lui casa, senza registrarlo fra i contributi elettorali come prevedeva (e prevede) la legge. Insomma – è la conclusione di Travaglio -, confessò di aver commesso un reato. Può il responsabile accertato di un reato penale aspirare a diventare capo dello Stato e, soprattutto, presidente del Consiglio superiore della magistratura?”. Insomma, Veltroni farebbe bene a guardare in casa sua.

[Fonte
 

2 - In tema di etica, morale e scuse partitiche...  

Caro Walter, che mi dici della Tangente Enimont?

“Caro Walter, accolgo l’invito che ci aveva rivolto Paolo Flores d’Arcais, per aggiungere un post scriptum di “aggiornamento” al nostro dialogo. Come ti avevo accennato, negli ultimi giorni sono venuto a conoscenza di particolari inquietanti e, a questo punto, inequivocabili che confermano ciò che andavo sostenendo da tempo: che, cioè soggetti vicini ai vertici del tuo partito hanno partecipato attivamente a spargere veleni contro di me, con la conseguenza volontaria o no – di delegittimare, e quindi bloccare l’inchiesta di Mani Pulite proprio mentre stava raggiungendo il Potere a livelli vertiginosi”.

“Mi riferisco ai retroscena della pubblicazione del famigerato dossier comparso sul Sabato, il settimanale di Comunione e Liberazione, nell’estate del 1993. In quel periodo, ricordo, Primo Greganti era appena uscito dal carcere e il pool di Milano si stava occupando della maxitangente Enimont, di cui un bel pezzo (il famoso miliardo di Gardini) finì a una misteriosa entità di Botteghe Oscure. Proprio allora uscì il dossier (…). Chi abbia materialmente raccolto e incollato insieme quegli elementi non l’ho ancora scoperto. Ma a questo punto ha poca importanza. Quello che finalmente ora so, dalle testimonianze dirette di due protagonisti di primo piano di quella vicenda, è come quel pacchetto già confezionato e infiocchettato arrivò alla redazione del Sabato“.

“E chi ne pretese la pubblicazione e perché. Me l’hanno rivelato, proprio in questi ultimi giorni, due personaggi del calibro di don Giacomo Tantardini e Marco Bucarelli, leader incontrastati – allora e oggi – di Comunione e Liberazione a Roma”

“Uno scoop che sia Tantardini che Bucarelli escludono sia stato realizzato dalla redazione del settimanale, o comunque con l’intevento del giornale (…). Durante un nuovo incontro, Marchini fa chiaramente intendere a don Giacomo che è D’Alema che pretende la pubblicazione del dossier. D’Alema gli avrebbe dato un imput ben preciso, se non si pubblica il dossier viene meno l’interesse politico all’operazione”.

“(…) Il racconto di Bucarelli e Tantardini, caro Walter finisce qui. La morale te la risparmio. Ma mi piacerebbe tanto sapere cosa successe dalle tue parti in quel periodo e soprattuto che fine ha fatto quel miliardo portato da Raoul Gardini a Botteghe Oscure. Come sai, noi magistrati non potemmo più andare avanti a causa della sentenza di prescrizione nel frattempo intervenuta, e perché nessuno a Botteghe Oscure ricorda a quale piano salì e a quale porta bussò, quel giorno Gardini“.

Con immutato affetto (almeno nei tuoi confronti)

Antonio Di Pietro.

venerdì 26 febbraio 2010

Ecco uno dei miliardari all'italiana

Carlo De Benedetti, o meglio, l'Ingegnere, è, notoriamente, un miliardario. Ma all'italiana. La concorrenza non gli piace e continua a incassare gli aiuti dallo Stato che i suoi concorrenti esteri non sanno neanche cosa siano.
Questa anomala situazione, che fa il paio col tanto decantato conflitto d'interessi,  è la prova provata che il presidente del consiglio, On. Berlusconi, non sa fare fino in fondo gli interessi generali dello Stato che, casualmente, coinciderebbero con i suoi personali. 
Lui giudici amici che lo proteggono non ne ha...
Ecco quanto scrive la filiale italiana di un giornale USA, on line e gratuito. 

De Benedetti è per l'informazione a pagamento, noi no!

Carlo De Benedetti, Presidente del Gruppo Espresso, ha scritto una lettera al Sole 24 Ore che si propone di smuovere le acque nel settore dell'editoria online italiana. La sua ricetta è piuttosto semplice: obbligare Google e gli Internet Provider a pagare gli editori e i detentori di copyright, riconoscendo diritti sulla pubblicità e di fatto sul traffico generato. Il tema è caldo e ce ne siamo già occupati in passato, ma forse oggi siamo di fronte a qualcosa di nuovo.

La posizione dell'ingegnere De Benedetti sarà probabilmente piuttosto condivisa negli ambienti dell'editoria tradizionale, ma online non può che stimolare alzate di sopracciglio - almeno fra gli addetti ai lavori.

La stampa cartacea è disabituata alla vera competizione: di fatto vive in una sorta di "Isola che non c'è" profumatamente pagata dai contribuenti. Secondo le stime di Beppe Lopez, autore de "La Casta dei giornali" (Ed. Stampa Alternativa/RAI Eri), le sovvenzioni annuali per l'editoria si aggirano intorno ai 700 milioni di euro. Nel grande baule del tesoro troviamo contributi diretti, credito d'imposta per la carta, agevolazioni postali, credito agevolato per gli investimenti, rimborso per il costo agenzie, contributi per il digitale, convenzioni, etc.

Insomma, il mercato è parzialmente drogato da capitali provenienti dallo Stato. Nel 2007, sempre secondo Lopez, le casse del Gruppo Espresso (La Repubblica) hanno ricevuto complessivamente 16.186.244 euro. Ovviamente la concorrenza non sta a guardare, perché se RCS (Corriere della Sera) ha raccolto 25.507.613 euro, nel 2006 Il Sole 24 Ore a bilancio indicava 19.222.787 euro - di cui 257.448 euro per Radio24. Tutti i giornali di fatto prendono delle sovvenzioni, e questo non vuol dire che sia totalmente ingiusto. Anche all'estero lo Stato si preoccupa che l'Informazione rimanga in vita e non soffra troppo i marosi dell'economia. Il problema, però, è che un conto è la sopravvivenza, un conto lo sperpero.
La stampa tradizionale che è sbarcata online non riesce a far quadrare i bilanci semplicemente perché gestisce strutture troppo onerose. Un quotidiano importante, di grande tiratura, e strategico per gli interessi di un paese, ovviamente non potrà mai rinunciare ad alcuni servizi fondamentali o a un organico adeguato. Gestire il bilancio di un'attività editoriale è certamente difficile, soprattutto in un paese dove pochi acquistano e leggono i giornali - e di conseguenza non hanno maturato gli strumenti per valutare la qualità dell'Informazione. Il Corriere e La Repubblica sono i quotidiani più diffusi in Italia con rispettivamente 566mila e 496mila unità (Fonte: Prima Comunicazione, 08/09). Numeri da far rabbrividire se si considera che il tabloid Bild sfiora i 3,5 milioni, il Sun raggiunge i 2,9 milioni, l'olandese De Telegraaf tocca i 702mila e l'austriaco Kronen Zeitung raggiunge gli 881mila, etc. Pura fantascienza tirar fuori i numeri dei quotidiani giapponesi: 14 milioni per Yomiuri Shimbun e 12milioni per Asahi Shimbun. Ma in questo caso la popolazione è di 127 milioni…

Ora, perché tutto questo divagare sui numeri e costi del cartaceo? Semplicemente perché sono dell'idea che prima di un confronto si debbano fare le presentazioni. Il mondo del cartaceo non è sincero e ha problemi di identità. Questo non vuol dire che il dibattito non possa essere all'altezza - anzi, a De Benedetti va riconosciuto il pregio di essere stato l'unico a esprimersi seriamente sulla questione - ma se una new-entry decide di scendere in campo a partita iniziata non si possono totalmente sconvolgere le regole del gioco. Obbligare provider e Google a distorcere la propria natura rimettendo in discussione un intero modello di business è una richiesta improponibile. Ma è ancora più inaccettabile continuare a non voler vedere che esistono milioni di progetti editoriali online nel mondo che non solo sopravvivono ma prosperano. È giusto fare le dovute proporzioni, e sottolineare il fatto che difficilmente una realtà totalmente online potrebbe fornire il medesimo servizio di un quotidiano di grido, ma è anche vero che i privilegi nel cartaceo sono troppi per il web. Stipendi, tempistiche di consegna, potenzialità di introito, dimensioni delle strutture e tanti altri elementi che condizionano l'attività di una redazione online non possono essere lontanamente paragonate a quello che succede in via Cristoforo Colombo 90 a Roma - sede de La Repubblica. Le firme di prestigio delle grandi testate godono di privilegi e trattamenti economici che i comuni freelance e redattori online si scordano. Questo non vuol dire che l'elite professionale non meriti un trattamento adeguato, ma semplicemente che al passo con i tempi questo non può essere fatto scontare all'intera categoria.

Noi di Tom's Hardware, come tantissimi altri siti Internet che fanno informazione, cerchiamo di impegnarci al massimo nel gestire i proventi generati dalla raccolta pubblicitaria per fornire un servizio gratuito e di qualità. Non siamo una bestia rara, ma semplicemente il frutto di un libero mercato dove la competizione è motore del tutto. Abbiamo dovuto partire da zero, scoprire un nuovo mercato, imparare a convivere con il cambiamento, e riscrivere le regole che governano il rapporto con il lettore. L'essere professionisti del web ti obbliga all'umiltà, e forse ti regala anche la capacità di individuare la giusta misura tra i diritti e i doveri nei confronti degli utenti.

Se per rendere sostenibili le attività online dei quotidiani cartacei bisogna tassare provider e Google, non è forse come chiedere l'ennesimo sovvenzionamento? Questa volta ai cittadini della Rete?

di Dario D'Elia
pubblicato martedì 26 gennaio 2010 a questo URL.
 

Marco (Travaglio) a lezione di giornalismo

Il sequel sul grande giornalista di cronaca giudiziaria ed il suo maestro continua...

Qualche mese fa scrissi che prima o poi Michele Santoro e Marco Travaglio avrebbero litigato. Il conduttore di Annozero replicò con un insulto. Non lo querelai perché non amo chi fa i soldi con le sentenze e anche per rispetto di una vecchia amicizia finita per ragioni politiche.

Lo scambio di lettere fra Santoro e Travaglio, pubblicato ieri dal Fatto quotidiano, non è una vera e propria lite ma rivela una grande divaricazione fra l’uno e l’altro. Ci sono molte punture di spillo, qualche sciabolata, molte accuse incrociate, qualcosa fra i due si è incrinato anche se sono, ancora per un po’, costretti a coesistere per ragioni editoriali (e Travaglio ha confermato ieri che resta ad Annozero).

Non mi compiaccio per aver previsto il conflitto né mi appassiona il finale d’opera. Vorrei solo invitare i lettori a non sottovalutare quello che è successo perché ci aiuta a uscire dagli schemi tradizionali di lettura del mondo giustizialista. La posizione di Santoro è una posizione più liberale. Santoro è fazioso ma ama il contraddittorio, appena vede uno diverso da lui si incuriosisce. Travaglio ha una cultura precettiva, di qua il bene di là il male. Tutto ciò è venuto fuori con chiarezza leggendo l’epistolario.

Ricapitoliamo i fatti. Giovedì scorso, durante la puntata di Annozero, Maurizio Belpietro e Nicola Porro hanno contestato nuovamente a Travaglio le vacanze con un signore poi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Travaglio ha replicato. Sono volati insulti. Poi Travaglio ha perso carta e penna e ha scritto una lettera a Santoro sostanzialmente accusandolo di non averlo difeso e chiedendogli di fare qualcosa per tutelare la sua onorabilità pena l’abbandono della trasmissione. Santoro ha replicato ieri con grande rudezza e forza argomentativa.

Nella sua replica Santoro dapprima si è dichiarato dispiaciuto per l’eventualità dell’abbandono aggiungendo che «tuttavia non sarebbe una tragedia o una catastrofe irreparabile».
Le parole più forti sono state però quelle dedicate alla critica di Travaglio al format di Annozero: «… Quando dici che è una questione di format, stai parlando come un membro della Commissione parlamentare di vigilanza». E ha aggiunto, allargando il fronte polemico: «Non so se condividi i suggerimenti di Paolo Flores D’Arcais che pretende di spiegarmi quando spegnere o accendere i microfoni di un ospite. Un membro perfetto dell’Agcom. Un apologeta del Berlusconi-pensiero sul “pollaio”. Proprio come Furio Colombo e le sue invettive contro i talk-show».
Dopo aver sistemato Travaglio e i suoi amici, Santoro ha difeso l’idea della trasmissione ricca di contrasti e non di verità preordinate illustrando questa filosofia: «Se la televisione è perfino peggiorata non è solo colpa di Berlusconi e dei suoi “trombettieri”, ma di chi avrebbe dovuto contrastarlo e non lo ha contrasto e anche di quelli che scelgono di battersi pensando di essere gli unici a farlo… quelli che mettono la loro purezza e il loro senso dell’onore prima della libertà; la legge e le regole prima della libertà; la verità prima della libertà».

Nel mondo giustizialista si confrontano queste due culture. L’una che preferisce lo scontro fra opinioni appassionate, l’altra esprime una volontà palingenetica che è al fondo autoritaria. L’una che vive le contraddizioni considerandole una risorsa («Maurizio Belpietro o Ghedini o Porro non sono soltanto il prezzo pagato alla par condicio - scrive Santoro - ma rappresentano quel vuoto necessario di scrittura che rende la trasmissione imprevedibile»), l’altro che se ne infastidisce. Nel mondo giustizialista c’è un grumo di verità che riguarda il rispetto della legalità, solo che per alcuni va affermato con il dibattito, per altri con la demonizzazione dei diversamente orientati.

Lo scontro fra Santoro e Travaglio non è, quindi, solo l’esito della difficile convivenza fra due prime donne, ma il confronto fra due modi diversi di intendere l’informazione e la politica. Sia pure con molte differenze è lo stesso scontro che sta dilaniando l’Italia dei valori sul caso De Luca (il candidato del centro sinistra per la Regione Campania) fra il radicalismo fondamentalista dello stesso Travaglio e di De Magistris e il realismo di Di Pietro che ha scelto di baciare il rospo. Forse però il tema vero è un altro. Forse quando diciamo “mondo giustizialista” anche noi semplifichiamo troppo una realtà che, per fortuna, si presenta con molte facce non tutte riassumibile in semplici formule politiche. Fra gli eserciti che si combattono in uniforme, ogni tanto la scena è occupata anche dagli “irregolari” e Santoro è uno di questi.

di Peppino Caldarola, da Prima Pagina de Il Riformista del 24 febbraio 2010

martedì 23 febbraio 2010

Sequel su Marco Travaglio, un pirla qualsiasi come si è autodefinito

Roma, 23 feb. (Adnkronos) - ''«Lo scambio di lettere è istruttivo e divertente. Emerge in modo assai chiaro che Travaglio è un signorino viziato, ma anche un po' isterico, abituato a insultare senza contraddittorio per sette-dieci minuti in prima serata l’avversario di turno senza possibilità di risposta». E sulla puntata di Annozero: «Il giocattolo si è rotto alla prima avversità. La prima volta che il signorino isterico e narcisista si è trovato di fronte una paio di interlocutori privi di complessi di inferiorità che lo hanno preso per il cravattino e gli hanno fatto assaggiare la sgradevole sensazione che si prova ad essere contestati e attaccati, è impazzito e si è persino rivoltato, come fanno i cagnolini pechinesi quando gli si pesta il codino, contro il suo padrone che ha ben altra solidità. La sua crisi di nervi è uno specchio dei tempi. Santoro, sia buono, restituisca a Travaglio il suo monologo senza contraddittorio, e così la felicità e, specialmente, la sicurezza perdute».. Lo afferma il capogruppo del Pdl alla Camera Fabrizio Cicchitto.

Travaglio chiede licenza di uccidere

Dopo la sparata una grande retromarcia: «Io sono un pirla qualsiasi che fa una rubrica. È Michele il capo, lui è il genio della televisione. E quindi è lui che deve trovare una soluzione». Difficile anche per un genio della televisione come Michele Santoro trovarla, questa soluzione. Come può impedire che Travaglio venga attaccato in pubblico durante Annozero? E pare anche strano che uno che attacca tutti e tutto voglia questa garanzia.
Quando si scende nell’arena di Annozero, si sa quali sono le regole. Se dal cilindro di Santoro uscirà un coniglio bianco lo sapremo solo martedì, perché pare che proprio martedì risponderà alla lettera pubblicata ieri da Travaglio e che ha fatto pensare a un suo abbandono della trasmissione: «Caro Michele, ho riflettuto su quanto è accaduto giovedì ad Annozero. E, siccome è accaduto davanti a 4 milioni di persone, te ne parlo in forma pubblica». Motivo scatenante è stata la rissa televisiva dell’altra sera, dove sono volate parole grosse con Nicola Porro del Giornale («Sei un poveraccio», «sei un cretino arrogante») e con Maurizio Belpietro di Libero per una frase sulle frequentazioni di Bertolaso e su quelle di Travaglio.

Torniamo alla lettera, che era comunque stata preannunciata e che Travaglio aveva già mandato a Santoro in forma privata: «In tv non c'è tempo per spiegare le cose con calma. E, siccome io una reputazione ce l'ho e vi sono affezionato, non posso più accettare che venga infangata ogni giovedì da simili gentiluomini. Gli amici mi consigliano di infischiarmene, di rispondere con una risata o un'alzata di spalle. Nei primi tempi ci riuscivo. Ora non più: non sai la fatica che ho fatto giovedì a restarmene seduto lì fino alla fine. Forse la mia presenza, per il clima creato da questi signori, sta diventando ingombrante e dunque dannosa per Annozero. Che faccio? Mi appendo al collo le ricevute delle ferie e il casellario giudiziale? Esco dallo studio a fumare una sigaretta ogni volta che mi calunniano? O ti viene un'idea migliore?».

Non si capisce quale possa essere e se esista davvero un’idea migliore. Travaglio contesta a Santoro che non si possa più parlare di fatti in tv, perché in studio non c’è più un dibattito «ma una battaglia snervante e disperante fra chi tenta di raccontare, analizzare, commentare quel che accade e chi viene apposta per impedirci di farlo e costringerci a parlar d'altro».

Sembra insomma che Travaglio chieda a Santoro una sorta di licenza di uccidere e al tempo stesso di essere tutelato dai colpi degli altri. Nella sua lunga lettera sfogo scrive che a rovinare la trasmissione sono giornalisti che «non fanno i giornalisti: recitano un copione, frequentano corsi specialistici in cui s'impara a fare le faccine e a ripetere ossessivamente le stesse diffamazioni. Invece di contestare i fatti che racconti, tentano di squalificarti come persona. Poi, a missione compiuta, passano alla cassa a ritirare la paghetta. E, se non si abbassano a sufficienza, vengono redarguiti o scaricati dal padrone. Non hanno una faccia e dunque non temono di perderla. Come diceva Ricucci, che al loro confronto pare Lord Brummel, fanno i froci col culo degli altri. Sguazzano nella merda e godono a trascinarvi le persone pulite per dimostrare che tutto è merda».

Dallo staff di Annozero dicono che è tutto sotto controllo. Che Travaglio è un po’ stressato, che è il troppo lavoro dell’ultimo periodo ad avergli fatto perdere le staffe. Lui nega: «Io non sono di marmo, non vedo perché devo continuamente essere sbattuto come un delinquente. Senza poter replicare».

Eppure ha a disposizione un editoriale di oltre cinque minuti dove parla ininterrotto. Ma anche questo pare non bastare: «Se volete facciamo una trasmissione sulle mie frequentazioni e sulle mie ferie. Ma credo che non sarebbe un bene per il programma».

Allora cosa chiede a Santoro? Di mettere un veto sugli ospiti? «Non ho nessuna intenzione e nessun diritto di sindacare chi viene invitato. Ma voglio che sia garantito il contraddittorio. E vorrei che fosse fatto rispettando un sistema democratico».

E se Santoro non trova una soluzione? «Non me ne andrò certo da Annozero. Non gliela do vinta così facilmente a chi mi accusa. Ma sono sicuro che Santoro troverà il modo. E sono curioso anche io di vedere quale sarà».

di Caterina Soffici, da Prima pagina il Riformista,22 febbraio 2010

Politica&Palazzo

La stecca di Bersani al festival Raiset

Vedi com'è fatto (male) il Pd. Avevo appena pubblicato su Il Fatto (sabato) un articolo che conteneva una cauta apertura di credito a Pierluigi Bersani per la sua recente conversione viola. La sera stessa mi sono pentito di averlo scritto, dopo aver visto la drammatica performance del segretario del Pd sul palco del'Ariston. Per chi (fortunatamente per lui) se la fosse persa, le cose sono andate così. Mentre la serata stava finendo, fra un gorgheggio di Pupo e un pistolotto in busto di stecche di balena del manichino della Clerici, ad un certo punto, non si sa come, approdano sul palco del festival tre operai di Termini Imerese. Scelti male, visibilmente imbarazzati e stralunati, calati dal nulla come dei marziani, intervistati da Maurizo Costanzo con un tasso di passione civile pari a zero. Ecco, pensi, un'altra foglia di fico per accreditare il mito di Sanremo mangia-tutto, Termini imerese compresa. Quando il micro-talk operistico (de' noantri) sta per chiudersi, Costanzo tira fuori l'asso: "Vorrei sentire un paio di persone in platea....". E provate a immaginare chi? Costanzo dice: "Ecco... quel signore,... se gli date un microfono...". Quel signore è il povero Bersani. Che si alza con il vestito della festa, gessato blu (ma chi li veste i leader della sinistra?) fuori luogo e vagamente imbarazzato. Fa appena in tempo ad inanellare tre banalità colossali - va detto che dato il clima sarebbe stato difficile dire di meglio - e poi inizia ad essere bersagliato dai fischi. La faccia del leader del Pd è terrea, fa appena in tempo a dire ancora una mezza parola imbarazzata. Poi brontola sconfitto: "Beh... mi fermo qui". Dopodichè Costanzo fra un succinto predicchettino ai contestatori e da la parola ad un altro signore. Indovinate chi? Il ministro Scajola. C'è qualche fischio anche per lui, ma va detto che sciaboletta se la cava meglio. Alza la voce, non ci sta, dice quello che deve dire. Ora. Come è possibile subire con tanta rassegnazione lo sfregio di quattro baldraccone in pelliccia e di un pugno di loggionisti impasticcati da 500 euro a biglietto? Quella faccia rassegnata, quel gettare la spugna, quell'incapacità di tenere il punto del dramma nemmeno quando si parla di Termini Imerese dovrebbero suggerire a Bersani almeno un paio di cose. Primo: se uno non c'ha il fisico, non si mette a giocare a rugby fuori casa. Secondo: se uno non ha le palle, non si mette a fare il leader. Terzo: se la sinistra mostra meno grinta di Scajola persino quando si parla di operai è impossibile vincere. Ma la domanda più grossa è questa: davvero Bersani e i suoi spin doctor credevano che la conquista delle masse popolari potesse passare per l'espugnazione del festival di Raiset consacrato a Emamuele Filiberto e agli imbrillantinati di Amici?" Davvero non aveva intorno nessuno, il povero Pierluigi, che gli dicesse: "Meglio non andare, finisce che fai una figura da pirlone?". Se è così siamo davvero alla frutta.

di Luca Telese, da il Fatto del 21/2/2010

venerdì 19 febbraio 2010

Il fango francese contro il premier

A questo articolo di Marcello Veneziani, uno dei pochi "pensatori" di destra che si posono leggere sulla stampa italiana, non vi è nulla da aggiungere se non ribadire che ne condivivo anche le virgole.

Il fango francese contro il premier
di Marcello Veneziani

Ma davvero l’Italia si sta imbarbarendo grazie a Berlusconi? Secondo il quotidiano francese di sinistra Libération e i suoi agenti in Italia, l’Italia sotto Berlusconi sta diventando barbara. La tesi segue un meccanismo curioso, seriale e circolare. Dunque, si confeziona in Italia una campagna di articoli e di libri che narrano le barbariche nefandezze del ventennio berlusconiano, usando volutamente l’espressione ventennio, per alludere al fascismo. Poi la tesi viene ripresa dai corrispondenti esteri dall’Italia.

Così torna amplificata e certificata a livello internazionale la tesi di partenza partorita in casa nostra. Vi risparmio il pappone di argomenti accroccati dall’autorevole quotidiano francese, e rimbalzati nella stampa italiana e dal sito dell’Espresso. Vi accenno solo ad alcune prove schiaccianti del nostro imbarbarimento citate nella requisitoria: vanno dal wireless difettoso negli aeroporti nostrani all’esistenza di Bruno Vespa, dal leghismo ruspante ai programmi televisivi gridati, dalle opinioni della Santanchè ai fuochi appiccati alle baracche degli immigrati (ma le banlieue non sono francesi?), dal crocifisso in aula al sesso in politica. Un grave segno di barbarie sarebbe pure per l’inquisitore l’uso di Berlusconi a raccontare barzellette. L’Italia si scompiscia e dunque di imbarbarisce.

Potremmo finirla lì con una barbarica pernacchia europea. Ma se la scemenza assume rilevanza internazionale, prendiamola sul serio. Allora per cominciare, il ventennio berlusconiano non esiste. Berlusconi è in politica da 16 anni e la metà di questi sedici anni c’erano governi di centrosinistra. A meno che volete considerare Amato, D’Alema, Prodi come berlusconiani minori o camuffati. In questi anni l’Italia ha avuto pure tre capi dello Stato, eletti e voluti solo o soprattutto dal centrosinistra: Scalfaro, Ciampi e Napolitano.

E le amministrazioni locali e regionali sono state in prevalenza governate dal centrosinistra. Se il riferimento barbarico è alla tv, di cui riconosco gravi responsabilità nel peggioramento degli utenti, la medesima cosa vale in mezzo mondo e da noi Pasolini notava l’effetto nefasto della tv già nei primi anni Settanta, quando Berlusconi era ancora imprenditore edile. E poi, il peggio della nostra tv è diviso in due tipi: o sono format evasivi importati dall’estero o sono programmi urlati contro Berlusconi.

Gran parte dei fattori di imbarbarimento indicati dagli inquisitori non c’entrano con il governo Berlusconi, riguardano il Paese e i suoi vizi endemici, privati, o risalgono a storie che precedono la sua discesa in campo; o nascono, al contrario, dalla mattanza contro Berlusconi. O ancora, riguardano tutta la classe politica, sinistra inclusa: corruzione e malasanità, abusi d’ufficio e storie sessuali. È difficile poi definire barbaro Bossi e tacere del gentleman Di Pietro. Credo poi che non si possa dimenticare l’imbarbarimento giudiziario, che fa il paio con quello mediatico, con la giustizia invasiva e persecutoria, a orologeria, e la caccia all’uomo, a cominciare da Berlusconi (anche il barbarico atto di Tartaglia è un figlio pazzo del berlusconismo?).

C’è poi l’imbarbarimento scolastico e universitario di un ceto di docenti inadeguati ma orientati ideologicamente a sinistra; l’imbarbarimento culturale degli intellettuali che cancellano chi non la pensa come loro, idee incluse; l’imbarbarimento irreligioso che cancella simboli, valori e tradizioni della nostra civiltà; la barbarie dell’equivalenza di unioni occasionali, trans e omosessuali rispetto al matrimonio e alla famiglia. Non è barbarica poi una società che legittima ogni trasgressione e nega ogni fedeltà, che esibisce gli orientamenti sessuali e inibisce quelli culturali e religiosi, che protegge l’immigrazione clandestina, tollera la criminalità diffusa, permette l’uso libero di droghe? Diciamo almeno che civiltà e barbarie si possono intendere in modi diversi. E a volte si confonde, a sinistra come a destra, la civiltà con la civilizzazione. Insomma, quel che c’è di barbaro in Italia o non è solo italiano, o non è solo berlusconiano. E c’è un’Italia incivile ma laureata e magari benestante, di marca sinistrese.
Insomma, concludo con tre note: la prima è che se un imbarbarimento c’è stato nel nostro Paese, di qualunque tipo, esso precede e trascende l’esperienza politica berlusconiana, investe l’Europa e larga parte del mondo contemporaneo. La seconda è che molte di quelle che vengono ritenute le cause dell’imbarbarimento, sono piuttosto effetti di un degrado e di una decadenza che passa da fattori profondi (denatalità, ossessione dei consumi, anche sessuali, assenza di valori e radici, perdita di riferimenti comunitari, materialismo ed egoismo). La terza è che forse la parola barbarie è eccessiva per indicare a volte più modestamente un involgarimento dei costumi, dei linguaggi, della politica, di cui sarebbe facile riconoscere la matrice in alcuni movimenti di «liberazione», come il ’68, tanto per toccare nel cuore e nella testata il quotidiano francese e i suoi tifosi italiani.

Infine non credo che un governo abbia la forza di cambiare così radicalmente un Paese, al punto da trasformarlo in così pochi anni, da civile in barbaro. Via, giudicate i governi su un piano più misurato e comparativo, paragonando quel che fanno con quel che promettono e con quel che hanno fatto i predecessori. Cari francesi, lasciate le invasioni barbariche al vostro cinema. Non fate i Galli. Barbara non è l’Italia di Berlusconi, ma il nome di sua figlia.


da Il Giornale.it, del 17 febbraio 2010

venerdì 12 febbraio 2010

Il sequel story sull'uomo molisano ex tutto continua...3

La svolta di Salerno e i suoi critici
di Antonio Polito


Il nuovo Di Pietro

La svolta di Salerno. Se due giornali agli antipodi come il Riformista e il Fatto ricorrono alla stessa metafora storica (seppur con intenti opposti) per descrivere ciò che accaduto al primo congresso dell'Italia dei valori, vuol dire che la novità è grossa.

La svolta di Salerno, quella vera, naturalmente fu ben altra cosa. Forse cambiò la storia d'Italia e certamente cambiò quella della sinistra italiana. Ma in fin dei conti anche quella servì ad accettare uno status quo (la monarchia), per ottenere uno status futuro (l'ingresso nel governo). Divenne per questo sinonimo di realismo politico e di lungimiranza, di rifiuto dell'estremismo sterile e di una concezione della politica come pura testimonianza.

Che Di Pietro la sua svolta l'abbia pubblicamente sancita accettando il sindaco di Salerno De Luca, due volte rinviato a giudizio, come candidato in Campania, è per noi solo un dettaglio. Ma per Travaglio è la smentita di anni di predicazione intransigente e moralistica. I colleghi del Fatto hanno dovuto constatare, con indignato stupore, che la politica è fatta per vincere, non per vendere libri, e che perfino Di Pietro - che di suo è cinico quanto basta - per vincere è disposto a passare sopra qualsiasi petizione di principio.
Ma il punto cruciale della svolta è in realtà altrove: con quello che ha detto al congresso, con il suo ripudio della piazza per la piazza, con la sua affermazione che «di opposizione si muore, come dice il mio amico Bersani», con la sua scelta per un'alternativa di governo, è nato davvero un nuovo Di Pietro, spendibile per una politica riformista di centrosinistra?

Personalmente, io la penso più o meno come scrive Marco Follini a pagina 6 di questo giornale: Tonino può perdere il pelo, difficilmente il vizio. Come ha scritto il nostro d'Esposito, mentre Di Pietro «svoltava» continuava perfino a parlare come un pm: «Invitiamo il procuratore Bersani a fare un supplemento di indagine in Calabria... ho invitato De Luca a rendere dichiarazioni spontanee al congresso». Di Pietro quello è.

Però Di Pietro fa anche politica, e qualche settimana fa, nel retropalco di «Otto e mezzo» dove eravamo ospiti insieme, mi aveva anticipato le ragioni della sua svolta. «Hai ragione quando dici che con il giustizialismo non si vincono le elezioni. Anche tra i miei elettori la gente mi applaude quando parlo dei processi di Berlusconi, ma poi aggiunge: però c'è il salario, la disoccupazione, la crisi...». L'ex pm l'ha detto con estrema chiarezza dal palco del congresso: «C'è il nostro zoccolo duro, che può andare dal 2 all'8% a seconda del mal di pancia che c'è in giro». Ma più di quello non c'è. Il giustizialismo è una tigre di carta, un sentimento possente e radicato in una minoranza del popolo di opposizione, in grado di grandi performance di piazza o di teatro o di edicola, ma limitato nei numeri elettorali e alla lunga politicamente debilitante.

La novità è che Di Pietro l'ha capito. E a chi chiede - come ha fatto Stefano Ceccanti su questo giornale - che differenza c'è tra l'alleanza elettorale di Veltroni con Di Pietro e quella attuale di Bersani con Di Pietro, la risposta l'ha data Tonino stesso: con Veltroni, era l'ex pm a tirare il Pd verso la sua politica; con Bersani - complici le regionali - è il Pd a tirare Di Pietro verso una politica meno ossessionata dal tema dell'anti-berlusconismo.

Naturalmente, Di Pietro farà di tutto, nei prossimi giorni, per smentire la nostra analisi. Ne sparerà anche di più grosse di prima - ha già cominciato ieri con «il governo para-mafioso». Farà in modo di rassicurare la lobby giustizialista - che già minaccia scissioni in nome di De Magistris - che niente è cambiato, che lui è quello di sempre, un po' come faceva il Pci che esaltava il comunismo ogni volta che doveva fare un passettino verso la Dc. Ma la sostanza è quella: una politica di alternativa muore nel recinto angusto delle aule di giustizia. E la stessa Italia dei valori ha fatto il pieno di quella roba lì, su quella strada di voti al Pd non ne toglie più.

Naturalmente il Pd, che ora può stringere alleanze con Di Pietro con un po' meno di imbarazzo di prima, non può considerare finita la concorrenza a sinistra dell'ex pm. Tutt'altro. Tonino è troppo furbo per non pensare anche alle sue fortune elettorali, mentre dice di pensare al Paese. E sa benissimo che c'è un altro campo libero da arare per togliere davvero voti al Pd, e infatti ha cominciato ad ararlo di gran lena.
Mentre si prende De Luca, e con ciò stesso rinnega un caposaldo del suo giuistizialismo, l'ex pm annuncia un referendum contro il nucleare e un altro contro la privatizzazione dell'acqua, puntando dritto dritto ai voti della sinistra radicale, non a caso uscita scornata dal congresso dell'Idv. Bersani, insomma, non ha da farsi illusioni: in questa veste, l'ex pm - populista d'istinto alla Vendola - può fargli anche più male elettoralmente. Per lui il problema Di Pietro non è svanito. Ma da oggi, almeno, può sperare che abbia cambiato di natura.

Il Riformista, Prima pagina, martedì, 9 febbraio 2010

Il sequel story sull'uomo molisano ex tutto continua...2

Una Tv chiusa finanziò Di Pietro


Contributo di 50mila euro all’Idv da "Sei Milano", che non trasmette da sette anni Il proprietario è in carcere per una vicenda di spot e tangenti. Sarà anche tutto regolare ma.... "Basta far politica con la pancia", Tonino prende in giro anche l'Idv

Tre signori sono stati protagonisti del primo congresso dell’Italia dei Valori. Ad applaudirli, in prima fila, il leader del Pd Pierluigi Bersani. Come dire, gente seria, garantisco io. Vediamo chi sono i tre. Il primo, ovviamente è Antonio Di Pietro, fondatore del partito, la cui immagine sta uscendo a pezzi da sospetti, supportati da fotografie, di collusioni con i servizi segreti italiani ed esteri ai tempi di Mani pulite e da accuse, da parte di suoi ex collaboratori, di scarsa trasparenza nella gestione dei fondi del partito (56 milioni di euro). Il secondo è un altro ex magistrato passato alla politica (è deputato europeo dell’Idv), Luigi De Magistris, che prima di entrare in politica fu trasferito e censurato dal Csm per «gravi anomalie» nelle sue inchieste, una delle quali provocò la caduta del governo Prodi (l’avviso di garanzia all’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, poi risultato completamente estraneo) e che forse per questo riceve oggi gli onori di Bersani. Il terzo è un ex poliziotto, Gioacchino Genchi, simpatizzante dipietrista, oggi consulente delle Procure di mezza Italia e balzato agli onori della cronaca per aver intercettato i telefonini di 350mila italiani, per questo finito sotto inchiesta e ancora al centro di una intricata vicenda giudiziaria che però non gli impedisce di continuare la sua attività, ben retribuita, al fianco di molti magistrati. Che non hanno ovviamente avuto nulla da ridire quando ieri, dal palco Idv, Genchi ha annunciato di sapere con certezza che l’attentato di Milano contro Silvio Berlusconi è stato una montatura organizzata dallo stesso premier per commuovere gli italiani e intimidire gli avversari.
 

Insomma, due discussi e discutibili ex magistrati e un ex poliziotto farneticante, spione di professione, si candidano a guidare il Paese in compagnia del Pd e in alternativa al Pdl, il più grande partito liberale europeo. In attesa che il sogno si avveri suggeriamo al trio investigativo di tenersi allenato risolvendo il seguente rebus. Nel 2008 la maggior offerta spontanea all’Italia dei valori è stata fatta da una piccola emittente milanese, «Sei Tv». Si tratta di 50mila euro. Nulla di illegale, ovviamente, ma è legittimo chiedersi come mai una emittente che non trasmette più dal 2002, e che alla data dell’elargizione risulta alla Camera di commercio «inattiva» e con un solo dipendente, sia stata così generosa con Di Pietro. Proprietario di «Sei Tv» è Raimondo Lagostena, noto imprenditore televisivo, titolare del gruppo Odeon, che attualmente si trova in carcere. È coinvolto in una storia di presunte false fatturazioni e fondi neri sulla cessione di spazi pubblicitari televisivi a favore dell’assessore regionale lombardo Gianni Prosperini, anche lui agli arresti.
Del resto Di Pietro conosce è apprezza le tv di Lagostena, tanto che alle ultime elezioni europee l’Idv utilizzò su quelle reti spazi pubblicitari per un valore di oltre 200mila euro. Che però, a quanto ci risulta, nonostante le rigide norme che regolano la pubblicità elettorale, non furono fatturati in prima battuta al partito dell’ex Pm, ma acquistati direttamente da Lagostena. Quasi 50mila euro di quei 200, finirono poi alla inattiva «Sei Tv», la benefattrice dell’Idv. Insomma, una storia sicuramente legale ma complicata, come tutte quelle che vedono protagonista Di Pietro. E che forse solo lui, insieme con De Magistris e Genchi, può dipanare e spiegare. E se questa volta, e su questo caso, qualcun altro, per esempio la Procura di Milano provasse a capirci qualcosa, così, tanto per dissipare inutili dubbi? Difficile, ma non impossibile.

di Alessandro Sallusti
il Giornale.it, domenica 07 febbraio 2010, 09:28

Il sequel story sull'uomo molisano ex tutto continua...

Gli ex amici minacciano Di Pietro

Il peso del passato

È bene che Di Pietro cominci a preoccuparsi. Troppi suoi ex amici prendono le distanze da lui e cominciano a rivelare cose scabrose sulla sua biografia. C’è molto dipietrismo in questo anti-dipietrismo nascente.
Ha cominciato Elio Veltri a pubblicare notizie e dati sul tesoretto accumulato dall’ex pm nella sua pur breve avventura politica. Ha continuato Flores d’Arcais, il direttore della rivista “Micromega”, con l’appoggio di De Magistris, a fare le pulci alle retrovie dipietresche scoprendo dirigenti dell’Idv di non specchiata moralità.

Ora si aggiunge la foto pubblicata dal Corriere della Sera che ritrae Antonio Di Pietro impettito e allegro in compagnia di molti ufficiali dei carabinieri e del prefetto Bruno Contrada assiso alla sua destra.

La carriera di Di Pietro è stata travolgente in polizia, in magistratura e in politica. Dovunque sia andato ci sono state ombre sulla sua attività. I maldicenti dicono di una laurea ottenuta con un cursus universitario troppo breve, raccontano di un ingresso in magistratura ottenuto con un “aiutino” dall’alto, parlano di una carriera da inquirente che è disinvoltamente passata dalle frequentazioni craxiane alla ferocia anti-socialista, documentano di prestiti ottenuti dai suoi imputati, rivelano missioni segrete in paesi esteri con annesse relazioni ai servizi, narrano di fughe in America Latina per sfuggire alla vendetta delle cosche, infine di un abbandono dell’attività di magistrato su cui nessuno ha fatto luce. La sua breve carriera politica è costellata anche di altri punti oscuri. Un sistema di potere costruito con ex arnesi di altri partiti, gente di mano messa nelle liste, un figliolo aduso alla clientela, un patrimonio immobiliare senza precedenti. Questa è la cronaca nera di Di Pietro.

La foto del Corriere è interessante soprattutto se osservata con la lente dell’autodifesa di Di Pietro. Avrebbe potuto ammettere quel convivio e la conoscenza di tutti i commensali. Invece Di Pietro ha dimenticato che accanto a lui c’era Bruno Contrada e non ricordava la presenza del capo della Kroll, il controspionaggio privato americano impegnato nel mondo della finanza newyorchese. Per di più la cena veniva dopo una giornata passata a Roma con Gherardo Colombo suo collega nel pool che non era stato informato, né lo saranno altri esponenti del gruppo di Mani pulite, delle frequentazione nella capitale dell’ex pm.

Eppure non era una cena come un’altra. Non era come dice Di Pietro l’incontro fra un pm ed esponenti della polizia giudiziaria che lo avevano aiutato nelle indagini.
Quell’incontro conviviale era stato organizzato perché durante la libagione sarebbe stato consegnato a Di Pietro un premio dell’agenzia spionistica legata alla Cia. Per quanto scarsa possa essere la memoria un premio è un premio e quella sera il convitato illustre era proprio lui, Antonio Di Pietro. Il capo dell’Italia dei valori cade dalle nuvole quando gli ricordano la presenza del prefetto Bruno Contrada. Eppure Contrada sedeva alla sua destra, posto di prima scena in una cerimonia di quel tipo. Soprattutto Contrada, anche nove giorni prima di essere arrestato e di iniziare la via crucis delle condanne, non era uno sconosciuto. Era il più potente poliziotto palermitano nonché uomo di punta dei servizi nell’attività antimafia. Anche il più acceso degli innocentisti non può negare che la sua presenza alla cena dava lustro all’incontro. Eppure Di Pietro minimizza e finge di non ricordare.

La tesi di chi dà importanza alla foto è che il candido Di Pietro abbia nel suo armadio scheletri ingombranti. Il più ingombrante di tutti riguarda i suoi rapporti con i servizi. Nel passato di Di Pietro ci sono molte amicizie chiacchierate. Per anni è stato sospettato di aver fatto comunella con quel mondo finanziario legato a Craxi che di lì a poco avrebbe tradito. Altri hanno sostenuto che avesse una particolare frequentazione con quel mago dello spionaggio che è l’ex presidente Francesco Cossiga. Altri ancora parlano ormai esplicitamente di Di Pietro come longa manus di servizi interni e americani nell’avvio dell’indagine che ha distrutto la Prima Repubblica e due suoi partiti cardine, la Dc e il Psi.

Il Di Pietro di oggi conosce invece il sospetto di aver costruito una organizzazione politica clientelare che non è più in grado di rappresentare la voglia di purezza che emerge dal mondo giustizialista.
L’inchiesta di Flores D’Arcais su MicroMega ha portato alla luce le magagne dell’ex pm nel costruire un sistema di consenso fondato su personaggi a dir poco discutibili, a cominciare dal figlio. L’ex pm De Magistris è spesso rappresentato come il suo rivale interno in grado di sferrare l’attacco finale al potere del capo dell’Italia dei Valori. Tre giorni fa l’eurodeputato ha dichiarato in un incontro con Nichi Vendola di essere pronto a fare un nuovo partito con i vendoliani, pezzi del Pd e una parte del mondo dipietrista pronto a lasciare il gran capo molisano.

Fra politica e gossip giudiziario per Di Pietro stanno suonando le campane a morto. Probabilmente molti, che lo hanno utilizzato in questi anni, considerano conclusa la sua carriera e vogliono liberarsi di lui. E con stile assolutamente dipietresco lo stanno crocifiggendo annegandolo nei sospetti e demolendo il suo partito politico. Chissà se arriverà, e come arriverà, l’ex pm alle prossime lezioni politiche. La sensazione è che il suo mandato sia scaduto e che i suoi sponsor si vogliano liberare di lui con gli stessi mezzi che gli hanno messo a disposizione per demolire un ceto politico. La bolla elettorale dipietresca è un boccone troppo ghiotto per lasciarla nelle mani di un uomo dal passato pieno di ombre e così incapace di trasformare la sua creatura in una formazione politica spendibile sul mercato della politica alta. La coalizione giustizialista cerca disperatamente uno sbocco che non può essergli assicurato da un personaggio che ha svolto il suo ruolo di demolitore dei partiti ma che è incapace di diventare il magnete di altre aggregazioni. Ci sarà un Di Pietro nella vita futura di Di Pietro

di Peppino Caldarola, da Il Riformista di mercoledì, 3 febbraio 2010

Pillola di saggezza

Bocca sa che gli italioti hanno la memoria corta, ecco perché si può permettere di scrivere tali castronerie, come faceva, da giovane giornalista fascista, che ne scriveva anche di peggiori. Qui la prova.


Diritto & Rovescio
PRIMO PIANO



Giorgio Bocca è un indignato speciale. Anche il suo ultimo libro minaccia sfracelli e apocalissi varie. Di un evento, Bocca, è certo per il semplice motivo che, secondo lui, si è già verificato: l'Italia è sotto il fascismo. Bocca se ne intende. Infatti, quando era studente universitario (e non un sbarbatello analfabeta) e quattro anni dopo le leggi anti-ebraiche, Bocca scriveva: «Sarà chiara a tutti... la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Uno che ha scritto queste infamie, in un paese normale, se ne starebbe defilato, con la coda tra le gambe per la vergogna.

Fonte: ItaliaOggi Numero 035  pag. 1 del 11/2/2010

lunedì 8 febbraio 2010

Gli ex amici minacciano Di Pietro


Ne avevo già scritto ampiamente, ormai la dipietro's story apre un capitolo al giorno.

Parafrasando l'homus molisanus, che per minimizzare i dubbi che sia stato pilotato per costruire Mani pulite, ha dichiarato che la CIA non avrebbe saputo che farsene di uno come lui che non sa neanche parlare l'italiano, io dico: 
cosa ce ne facciamo di uno come lui al governo?

Ecco il capitolo odierno:
Il peso del passato

È bene che Di Pietro cominci a preoccuparsi. Troppi suoi ex amici prendono le distanze da lui e cominciano a rivelare cose scabrose sulla sua biografia. C’è molto dipietrismo in questo anti-dipietrismo nascente.
Ha cominciato Elio Veltri a pubblicare notizie e dati sul tesoretto accumulato dall’ex pm nella sua pur breve avventura politica. Ha continuato Flores d’Arcais, il direttore della rivista “Micromega”, con l’appoggio di De Magistris, a fare le pulci alle retrovie dipietresche scoprendo dirigenti dell’Idv di non specchiata moralità.

Ora si aggiunge la foto pubblicata dal Corriere della Sera che ritrae Antonio Di Pietro impettito e allegro in compagnia di molti ufficiali dei carabinieri e del prefetto Bruno Contrada assiso alla sua destra.

La carriera di Di Pietro è stata travolgente in polizia, in magistratura e in politica. Dovunque sia andato ci sono state ombre sulla sua attività. I maldicenti dicono di una laurea ottenuta con un cursus universitario troppo breve, raccontano di un ingresso in magistratura ottenuto con un “aiutino” dall’alto, parlano di una carriera da inquirente che è disinvoltamente passata dalle frequentazioni craxiane alla ferocia anti-socialista, documentano di prestiti ottenuti dai suoi imputati, rivelano missioni segrete in paesi esteri con annesse relazioni ai servizi, narrano di fughe in America Latina per sfuggire alla vendetta delle cosche, infine di un abbandono dell’attività di magistrato su cui nessuno ha fatto luce. La sua breve carriera politica è costellata anche di altri punti oscuri. Un sistema di potere costruito con ex arnesi di altri partiti, gente di mano messa nelle liste, un figliolo aduso alla clientela, un patrimonio immobiliare senza precedenti. Questa è la cronaca nera di Di Pietro.

La foto del Corriere è interessante soprattutto se osservata con la lente dell’autodifesa di Di Pietro. Avrebbe potuto ammettere quel convivio e la conoscenza di tutti i commensali. Invece Di Pietro ha dimenticato che accanto a lui c’era Bruno Contrada e non ricordava la presenza del capo della Kroll, il controspionaggio privato americano impegnato nel mondo della finanza newyorchese. Per di più la cena veniva dopo una giornata passata a Roma con Gherardo Colombo suo collega nel pool che non era stato informato, né lo saranno altri esponenti del gruppo di Mani pulite, delle frequentazione nella capitale dell’ex pm.

Eppure non era una cena come un’altra. Non era come dice Di Pietro l’incontro fra un pm ed esponenti della polizia giudiziaria che lo avevano aiutato nelle indagini.
Quell’incontro conviviale era stato organizzato perché durante la libagione sarebbe stato consegnato a Di Pietro un premio dell’agenzia spionistica legata alla Cia. Per quanto scarsa possa essere la memoria un premio è un premio e quella sera il convitato illustre era proprio lui, Antonio Di Pietro. Il capo dell’Italia dei valori cade dalle nuvole quando gli ricordano la presenza del prefetto Bruno Contrada. Eppure Contrada sedeva alla sua destra, posto di prima scena in una cerimonia di quel tipo. Soprattutto Contrada, anche nove giorni prima di essere arrestato e di iniziare la via crucis delle condanne, non era uno sconosciuto. Era il più potente poliziotto palermitano nonché uomo di punta dei servizi nell’attività antimafia. Anche il più acceso degli innocentisti non può negare che la sua presenza alla cena dava lustro all’incontro. Eppure Di Pietro minimizza e finge di non ricordare.

La tesi di chi dà importanza alla foto è che il candido Di Pietro abbia nel suo armadio scheletri ingombranti. Il più ingombrante di tutti riguarda i suoi rapporti con i servizi. Nel passato di Di Pietro ci sono molte amicizie chiacchierate. Per anni è stato sospettato di aver fatto comunella con quel mondo finanziario legato a Craxi che di lì a poco avrebbe tradito. Altri hanno sostenuto che avesse una particolare frequentazione con quel mago dello spionaggio che è l’ex presidente Francesco Cossiga. Altri ancora parlano ormai esplicitamente di Di Pietro come longa manus di servizi interni e americani nell’avvio dell’indagine che ha distrutto la Prima Repubblica e due suoi partiti cardine, la Dc e il Psi.

Il Di Pietro di oggi conosce invece il sospetto di aver costruito una organizzazione politica clientelare che non è più in grado di rappresentare la voglia di purezza che emerge dal mondo giustizialista.
L’inchiesta di Flores D’Arcais su MicroMega ha portato alla luce le magagne dell’ex pm nel costruire un sistema di consenso fondato su personaggi a dir poco discutibili, a cominciare dal figlio. L’ex pm De Magistris è spesso rappresentato come il suo rivale interno in grado di sferrare l’attacco finale al potere del capo dell’Italia dei Valori. Tre giorni fa l’eurodeputato ha dichiarato in un incontro con Nichi Vendola di essere pronto a fare un nuovo partito con i vendoliani, pezzi del Pd e una parte del mondo dipietrista pronto a lasciare il gran capo molisano.

Fra politica e gossip giudiziario per Di Pietro stanno suonando le campane a morto. Probabilmente molti, che lo hanno utilizzato in questi anni, considerano conclusa la sua carriera e vogliono liberarsi di lui. E con stile assolutamente dipietresco lo stanno crocifiggendo annegandolo nei sospetti e demolendo il suo partito politico. Chissà se arriverà, e come arriverà, l’ex pm alle prossime lezioni politiche. La sensazione è che il suo mandato sia scaduto e che i suoi sponsor si vogliano liberare di lui con gli stessi mezzi che gli hanno messo a disposizione per demolire un ceto politico. La bolla elettorale dipietresca è un boccone troppo ghiotto per lasciarla nelle mani di un uomo dal passato pieno di ombre e così incapace di trasformare la sua creatura in una formazione politica spendibile sul mercato della politica alta. La coalizione giustizialista cerca disperatamente uno sbocco che non può essergli assicurato da un personaggio che ha svolto il suo ruolo di demolitore dei partiti ma che è incapace di diventare il magnete di altre aggregazioni. Ci sarà un Di Pietro nella vita futura di Di Pietro

di Peppino Caldarola, da Il Riformista di mercoledì, 3 febbraio 2010

Altro che DC, quella di Casini è una politica del doppio ascaro

Questi ex demoscristiani... immarcescibili buoni a tutto e per tutti.
 
Pier Ferdinando Casini è un ragazzo fortunato, un giovin signore. "He married up" (come dicono gli americani di chi sposa in alto loco o partner affluenti), bambini a cascata, un divorzio e-che-sarà-mai, una vita varia tra le Repubbliche, cariche importanti, in apparenza poca fatica di vivere, e anche poco dolore politico; Casini possiede un talentaccio democristiano per la navigazione a vista, per la sopravvivenza, né la vita pubblica lo ha messo in condizioni di dover far troppo soffrire gli altri, la sua lealtà non è mai stata veramente messa alla prova (ci si limita a presumerla inesistente), i voti glieli hanno sempre portati gli altri e il granaio era nella Sicilia di Cuffaro, gli si legge in viso una certa soddisfazione di sé che deve dar molto fastidio agli invidiosi e ai frustrati, ed è invece un
fattore di buonumore per tutti gli altri. Quando Berlusconi lo scaricò in un batterd`occhio, perché nella sua ingenuità maliziosa il giovane ex presidente della. Camera gli aveva fatto capire alla vigilia
delle elezioni politiche che tutto sommato era venuto il momento di cedere a lui stesso il timone, suggerimento parecchio intempestivo a dimostrare che ogni limite ha la sua furbizia (come direbbe Totò), Pierferdi non si mosse di pezza, restò dov`era con la protezione di Camillo Ruini, sfruttò tutti i larghi spazi di potere televisivo e di stampa concessi a un broker di potere che un giorno forse verrà utile avere per amico, e si tenne stretta la sua rendita di posizione, divenendo irrilevante nello scacchiere parlamentare, ma restando vivo. Ora sta sbagliando, credo, con questa improvvisazione della politica dei due forni. I giornali sono pigri, gli accreditano il calco della gloriosa predisposizione della vecchia De a fornirsi di voti e sostegni per i suoi governi in diverse direzioni, dai centristi alle destre quando era il caso, dai socialisti ai comunisti quando il caso faceva girare la ruota. Ma "per i suoi governi", questo è il punto. La politica democristiana dei due forni aveva una sua grandezza perché inchiodava l`Italia alla perpetuazione di un potere, quello della Dc, che l`aveva trasformata e la reggeva dentro i confini di un regime morbido ma di stoffa immarcescibile.
La politica dei due forni era la richiesta ambigua e a mani libere di appoggi per governare, quella odierna di Casini sembra invece una politica del doppio ascaro, una disponibilità a portare acqua
al governo degli altri con qualche contropartita di serie B.
 
Pierferdi, forse anche per gusto o inclinazione personale, per una impronta laica chissà dove e come coltivata, ha cinicamente scelto di non partecipare in alcun modo alla discussione sul cristianesimo
come elemento dello spazio pubblico plurale nell`Italia e nell`Europa contemporanee.
Non che sia un mistico, uno spiritualista, è un credente sodo, di quelli che come diceva Montanelli parlano col prete più spesso che con Dio, ma nel suo cinismo penso ritenga perdente, dunque assurdo, ogni capriccio etico, ogni torsione non utilitaristica del discorso della Montagna.
E va bene. Ma che la politica del doppio ascaro lo abbia condotto ad allearsi in Piemonte con Silvio Viale, mentre presuntivamente combatte la Bonino a Roma, molto presuntivamente, è un gesto di molle subalternità che non finisce di stupirmi.

da Il Foglio del 1 febbraio 2010.

domenica 7 febbraio 2010

Quanti amici inquisiti per lo iellato Tonino

Ecco alcune verità sull'attuale parlamentare Antonio Di Pietro che nell'artico precedente il suo amico e sodale Travaglio cerca di sminuire.


Antonio Di Pietro non sapeva e non poteva sapere che il funzionario del Sisde Bruno Contrada sarebbe stato arrestato nove giorni dopo la famosa cena dei servizi segreti. Non sapeva che la Procura di Palermo - con cui lo stesso Tonino diceva di collaborare - diffidava di Contrada come pure ne diffidavano Falcone e Borsellino. Del resto non poteva certo sapere, Di Pietro, che il suo amico d’infanzia Pasqualino Cianci sarebbe stato condannato per omicidio pochi mesi fa: mica ha la palla di vetro. Così come non sapeva che il proprietario della Aster - azienda che Tonino sorvegliava quando era un giovane dipendente del ministero dell’Aeronautica - sarebbe stato condannato per associazione mafiosa a 3 anni e 6 mesi per lo scandalo della scalata del casinò di Sanremo. Non lo sapeva neanche nel 1992, quando i cronisti del Palazzaccio milanese assistettero a un commovente incontro tra Michele Merlo e Di Pietro: «Il mio maestro...» disse Tonino appropinquandosi a lui. Ma non sapeva, poveretto. Di Pietro non sapeva neppure che l’appuntato Roberto Stornelli, quando Tonino era vicecommissario in via Poma, a Milano, sarebbe stato inquisito per corruzione e mafia e condannato nel 1996 a tre anni di carcere. Ai tempi non poteva saperlo, né immaginava: e infatti cooptò l’amico Stornelli e ne fece uno dei suoi principali collaboratori durante l’inchiesta Mani pulite. Stornelli peraltro racconterà di un sedicente «metodo Di Pietro» così riassumibile: sfondare la porta e sorprendere i ricercati mentre erano a letto con le loro donne. Due biografie descrivono l’episodio di una poveretta che cerca di sedurre Di Pietro perché non arresti il suo uomo, e Tonino a fare battutine assieme all’amico appuntato. Colpisce che Stornelli e i biografi narrino l’episodio con fierezza. Così pure si racconta dei fine settimana che i due passavano nei boschi, a castagne, prendendole a revolverate: Tonino con la P38, Roberto con la Beretta 91. Ma che ne sapeva, Di Pietro.
Il quale, poi, divenne segretario a Bergamo. Ma non poteva sapere che il suo segretario personale, il maresciallo Giuseppe Di Rosa, era un concussore: ecco perché attese sino al 23 giugno 1985 - giorno del suo trasferimento a Milano - per arrestarlo mentre incassava una mazzetta da dieci milioni.
Perché non sapeva. Si fece svendere una Mercedes d’occasione dall’imprenditore Giancarlo Gorrini e accettò anche un altro paio di piaceri: tipo cento milioni senza interessi, decine o centinaia di milioni - cifra imprecisata - per ripianare i debiti di gioco dell’amico Eleuterio Rea, pacchetti di pratiche legali per la moglie Susanna, impiego del figlio - due volte - alla Maa assicurazioni, omaggi vari tra i quali ombrelli, agende, penne e cartolame vario, uno stock di calzettoni al ginocchio, alcuni viaggi in jet privato per delle partite di caccia in Spagna e in Polonia; accettò tutto questo, ma non sapeva che Giancarlo Gorrini fosse inquisito per bancarotta fraudolenta e risultasse già condannato per appropriazione indebita.
Di Pietro accettò dal costruttore Antonio D’Adamo altri cento milioni senza interessi, altre decine o centinaia di milioni - cifra imprecisata - per ripianare il debito dell’amico Rea, una Lancia Dedra per sé e la moglie, l’utilizzo stabile di una garçonnière dietro piazza Duomo, l’utilizzo saltuario di una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, consulenze legali per la moglie Susanna, consulenze legali per l’amico Giuseppe Lucibello; accettò anche questo, ma non sapeva che sulle società di D’Adamo fosse stata aperta un’inchiesta (chiusa nel ’91, riaperta nel ’92) e non lo seppe neppure dalla moglie Susanna, che pure da D’Adamo ci lavorava, e del resto, forse, Di Pietro non poteva neppure sapere che D’Adamo sarebbe finito a processo per turbativa d’asta e corruzione. Tantomeno poteva immaginare che a far bisboccia con lui, la sera, ci fosse un manipolo di futuri inquisiti: peraltro da lui. Non lo sapeva a proposito del sindaco Paolo Pillitteri e del cassiere socialista Sergio Radaelli, che tanto si dannarono per procurargli un bilocale in equo canone dietro Piazza della Scala; non sapeva né immaginava nulla del cassiere democristiano Maurizio Prada, dell’architetto socialista Claudio Dini, dell’imprenditore Valerio Bitetto. Le prime biografie su di lui non a caso tendono a raccontare un Di Pietro che già in quel periodo indagasse per Mani pulite, anzi, indagava praticamente da sempre, era una sorta d’infiltrato che anziché vivere conduceva indagini preliminari da circa quarantadue anni. A cena da D’Adamo, non cenava: raccoglieva materiale probatorio. Con Radaelli, fingeva amicizia: difatti sbirciò nel suo portafoglio – questo scrivono ancora le biografie – e annotò il nome delle banche in cui aveva i conti. Se Di Pietro era un infiltrato, si era infiltrato benissimo. Ecco perché non sapeva che il suo commercialista, l’uomo che redigeva il suo 740, il primo febbraio 1996 sarebbe stato arrestato per un giro di squillo d’alto bordo. Ecco perché non poteva sapere che un poliziotto della sua scorta personale, nell’autunno dello stesso anno, sarebbe stato arrestato a sua volta per un giro di prostitute di bordo decisamente meno alto.
Ecco perché l’elenco degli indagati e dei condannati che sono stati regolarmente candidati nell’Italia dei Valori, a livello locale o nazionale, in questa pagina non ci starebbe. Non sapeva che quella volta ad Amantea, in Calabria, fece due comizi con un personaggio già allora indagato per brogli elettorali e condannato per abuso, poi riarrestato con l’accusa di aver ricevuto aiuti elettorali dalla ‘ndrangheta, dunque in attesa di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Di Pietro non era informato. Non sapeva. Non poteva sapere. Non poteva immaginare. Forse è stupido.

di Filippo Facci
Libero-news.it
06/02/2010

Ecco un'altra perla travagliesca di "vero" giornalismo


Dall'unico giornalista omnisciente ed anche pregiudicato per diffamazione vi riporto quello che, nelle sue intenzioni, deve essere un  artcolo a favore del suo amico e sodale , l'ex pubblico ministero, ex operaio, ex poliziotto, ex emigrato, ecc.

Tonino Di Pietro, davanti e di dietro
di Marco Travaglio
Il 6 aprile 2008, vigilia delle ultime elezioni, la polizia penitenziaria ascolta il boss della ‘Ndrangheta di Gioia Tauro, Giuseppe Piromalli, ergastolano al 41-bis, chiacchierare del governo prossimo venturo con altri detenuti di Cosa Nostra nell’ora di “socialità” nel carcere di Tolmezzo. Piromalli ha un incubo che gli leva il sonno: che rivinca il centrosinistra e che stavolta non metta alla Giustizia un Mastella, ma Di Pietro. Lo dice al medico mafioso Antonino Cinà e i capimafia Carlo Greco e Paolo Amico (killer del giudice Livatino): “Speriamo che non facciano ministro della Giustizia Di Pietro, quello è incorruttibile, è uno come quel Martelli (il Guardasigilli che nel 1992 inventò il 41-bis, ndr) che ci ha rovinati. E questo Di Pietro è ancora più pesante. Quando faceva il giudice ‘sto cornuto condannava tutti senza pietà, figurati se fa il ministro della Giustizia che cazzo combina. Questo ci fa uscire dal carcere dentro alla bara”.

Negli stessi giorni il figlio di Piromalli e altri amici poi arrestati per mafia incontravano Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo. Lui sì, ottimo per la Giustizia. Piromalli aveva ragione. Infatti Di Pietro non è mai stato né mai sarà ministro della Giustizia, perché rischierebbe di farla funzionare davvero: “Figurati che cazzo combina ‘sto cornuto”. In 15 anni di Seconda Repubblica, se la classe politica non ha ancora smantellato del tutto il Codice penale, lo dobbiamo al fattore Di Pietro. Non si contano le volte che, mentre destra e sinistra erano sul punto di accordarsi sulle peggiori leggi pro-mafia e pro-corruzione, l’ex pm s’è messo a urlare e le ha bloccate in extremis. Senza la concorrenza spietata delle sue truppe raccogliticce, il Pd avrebbe fatto molto peggio del peggio che è sotto gli occhi di tutti. Per questo l’establishment lo detesta, per questo il Corriere lo martella ogni giorno con memorabili patacche tipo la foto con Contrada o le rivelazioni a puntate dell’avvocato ex dipietrista Mario Di Domenico, avvocato si fa per dire perché è stato espulso dall’Ordine (un Ordine di stomaco talmente forte da non aver ancora espulso definitivamente Previti, quattro anni dopo le condanne definitive per corruzione giudiziaria). Il tutto, si capisce, alla vigilia del congresso dell’Idv.

L’ha detto il grande Giorgio Bocca l’altra sera ad Annozero: la guerra infinita a Di Pietro, iniziata nell’estate ‘92 col “poker d’assi” di Craxi, proseguita con decine di inchieste-farsa a Brescia sui dossier Gorrini e D’Adamo, distillata ancora un anno fa con le bufale intorno al figlio Cristiano che aveva addirittura raccomandato un elettricista di Termoli, e ora giunta alla comica finale con la cena delle beffe, non è dovuta ai suoi difetti, ai suoi limiti, ai suoi errori. Che pure sono evidenti e numerosi. E’ dovuta ai suoi meriti: al suo ruolo di unica opposizione anti-inciucio, di unica diga che ha frenato in questi anni la soluzione finale, l’impunità totale per le classi dirigenti (anzi, digerenti). Ma proprio qui sta l’errore di Di Pietro, anzi la coazione a ripetere sempre lo stesso errore: ha sottovalutato che, in casa sua, una leggerezza diventa un crimine da ergastolo, una pulce diventa un elefante, una pagliuzza diventa una trave. E ha seguitato a imbarcare di tutto, salvo i pregiudicati: il che già lo distingue da tutti gli altri partiti, ma non basta la fedina penale pulita per rendere affidabile e credibile un partito.

Lamentarsi col Tg1 di Scodinzolini perché lo rincorre con domande “del cazzo” su una normalissima cena, mentre censura tutte le porcate del padrone, è comprensibile ma inutile. Si sa come vanno le cose e perché. Occorre prenderne atto e farne tesoro una volta per tutte. Il congresso potrebbe essere l’ultima occasione. Quanti personaggini alla Di Domenico pascolano ancora nell’Idv? E quanti poltronòmani, alla prima astinenza o al primo invito ad Arcore, sono pronti a vendicarsi come Gorrini e D’Adamo? Meglio cacciarli subito, prima del prossimo libro o del prossimo dossier.

da Il Fatto Quotidiano del 6 febbraio 2010

venerdì 5 febbraio 2010

Più di mille parole può una foto!

Eccovi una interessante fotostory del presidente della Repubblica islamica dell' IRAN, l'ing. Mahmud Ahmadinejad.  


 Da giovane rivoluzionario accompagnava i condannati a morte al patibolo:
 

Tutti gli vogliono bene:
 

Il vero uomo si riconosce da come saluta gli amici: 
  

L'unico che può essere eletto presidente degli iraniani: 
  

Lo giura all'americana:  
  

Saluta gli amici nazisti: 
  

E sorridendo saluta anche gli amici comunisti: 
  

 Ricorda a chi non lo voterà, cosa gli farà fare:
  

Non crede alla sfortuna, ma non si mai, meglio fare corna, doppie: 
  

Manterrà amicizia e accordi solo con i compagni in camicia rossa:  
  

Tutte le vere donne devono essere come la moglie, irriconoscibili:
  

Se le donne sono in politica, il massimo che possono mostrare è quello che fa vedere la moglie: