mercoledì 31 agosto 2011

Quando Pericu, l'ex sindaco di Genova, perse la causa di Esselunga a favore della Coop

Su questo tema delle agevolazioni indebite alle COOP ed il trattamento loro riservato nelle regioni amministrate dalle Sinistre ho già scritto qui, qui, e qui.
Vi propongo il seguente articolo per mantener viva la memoria proprio in questi giorni che le COOP si lamentano si essere trattate come tutte le altre normali società, cosa che avevo consigliato giorni addietro (vedi qui) al ministro Tremonti che pare abbia letto il mio blog. 

Se nella nostra regione (Liguria NdB) i prezzi sono mediamente più alti che in altre zone, e Genova spesso si conquista il triste primato di «città più cara d'Italia», il colpevole non è l'inflazione, il petrolio o la corsa interminabile del caro vita, ma un potentato economico che agisce in condizione di monopolio da Sarzana a Ventimiglia: Coop Liguria. La denuncia, documentata con nomi, cognomi e cifre, viene dal libro «Falce e carrello - Le mani sulla spesa degli italiani» di Bernardo Caprotti (Marsilio Editore). Caprotti non è uno sconosciuto nel panorama industriale italiano. Infatti è il titolare dei supermercati Esselunga e il suo libro nasce più che altro come sfogo per raccontare a tutto il Paese di che cosa è capace la macchina bellica di Coop Italia che, come si domanda Geminello Alvi nella sua prefazione al volume, «con un fatturato di oltre 12 miliardi di euro, rientra ancora negli scopi di mutualismo che giustificano i privilegi fiscali, e non solo, di cui gode?».
La domanda è pertinente, in quanto le Coop, espressione economico-finanziaria dell'ex Pci, poi dei Ds e oggi del Pd, approfittano del loro ridotto carico fiscale per estendersi a macchia d'olio in tutta Italia e, invece di fornire prezzi più bassi, in nome di quel solidarismo sociale che sta alla base della loro costituzione, fanno di tutto per consolidare un monopolio della distribuzione che si manifesta con un rialzo artificiale dei prezzi. E l'esempio più eclatante di questo andazzo, ma guarda il caso, è proprio in Liguria. «All'inizio del 2006 - scrive Caprotti - avendo in programma l'apertura di un nostro negozio a La Spezia, abbiamo incaricato una qualificata società francese di rilevare lo stato del mercato in Liguria, raffrontato con altre piazze. Lo abbiamo fatto due volte. Il risultato è stato sorprendente. In quella regione il livello dei prezzi praticato dalla Coop è mediamente più alto (di una percentuale variabile tra l'8,2 ed il 20,2) che nelle altre piazze monitorate».
Perché questo succede? Perché in Liguria le quote di presenza delle Coop sono addirittura superiori a quelle di Reggio Emilia: siamo al 48,10 per cento a Genova, al 51,35 per cento a Savona e al 52,89 per cento a La Spezia. Solo Imperia, area «bianca» da sempre, si salva con un semplice 10,4 per cento. In altre parole, più aumenta la presenza delle Coop sul territorio, più si alzano i prezzi. Alla faccia dello slogan commerciale: «La Coop sei tu, chi può darti di più?».
Ma vediamo nel concreto come si muovono le Coop in Liguria, confrontando i prezzi degli articoli in comune tra gli Ipercoop liguri e quello di Sesto Fiorentino, in Toscana. Tutti, infatti, appartengono a Coop Italia, ma per qualche misteriosa ragione in Liguria i prezzi vengono aumentati. I prezzi rilevati nella terza settimana del luglio 2006 rivelano infatti che, nella Coop di Genova Rivarolo, erano più cari del 18,8 per cento rispetto a quelli dell'Ipercoop di Sesto Fiorentino, del 14,4 per cento quelli dell'Ipercoop Aquilone, del 19 per cento quelli della Coop Sanremo, del 10,6 per cento quelli della Coop La Spezia. E sapete perché nello Spezzino i rincari sono meno accentuati? Perché lì la concorrenza è più organizzata, per cui la Coop è costretta ad abbassare le proprie pretese. Il resto della distribuzione si uniforma infatti ai prezzi del monopolista…
 Ma quello che ha fatto uscire dai gangheri Caprotti è stata una vicenda del 1984 quando Esselunga acquistò a Rivarolo un immobile di proprietà della società Pastore & Baldazzi per aprirvi un supermercato. Non appena le Coop lo vennero a sapere, scoppiò il finimondo e, casualmente, il Comune si rifiutò di rilasciare i permessi a Esselunga. La faccenda è lunga, ma in sintesi alla fine Esselunga si vide costretta a vendere il suo immobile alle Coop che, come per incanto, subito ottennero i permessi e vi aprirono un loro supermercato. 



Per ironia della sorte, in quell'occasione Esselunga si fece difendere (ma con scarso successo) da uno dei migliori civilisti di Genova, l'avvocato e professore Giuseppe Pericu (Poi diventato sindaco di Genova per ben due volte ed iscrittosi al PD, NdB).
 

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Iniziano ad aprire gli occhi!




Anche Giorgio Bocca spara a zero sul Pd:
"Rubano tutti". 
Bersani? "Si tuffi in mare". 


Il giornalista commenta il caso Penati: 
"Assoluta identità con il Psi e tangentopoli. Vogliono solo potere e soldi"
Giorgio Bocca

"Non c'è nulla di nuovo rispetto a Craxi". 
E' rievocando gli anni Ottanta, il Psi e Tangetopoli che Giorgio Bocca commenta l'affaire Filippo Penati che sta travolgendo il Partito democratico. E non non si tratta di lontane somiglianze, ma di "un'assoluta identità". Intervistato da Il Fatto Quotidiano, il giornalista quasi 91enne, sulla cosiddetta questione morale della sinistra taglia corto: 
"Ma è la solita storia della corruzione politica: tutti i partiti, in tutte le epoche, quando amministrano hanno bisogno di soldi e li rubano. Nulla di nuovo sotto il sole". E allora cosa dovrebbe fare il segretario Bersani: un passo indietro? "Altro che far passi indietro. Dovrebbe fare un tuffo nel mare".

"I politici rubano tutti" - D'altronde, spiega, lo diceva lo stesso Craxi: "I mariuoli ci sono ma i soldi servono ai partiti. 
L’unica cosa che si capisce da questa vicenda è che la sinistra è la stessa cosa della destra, quanto a onestà"
"Tutti i politici hanno lo stesso interesse: avere il potere e fare soldi". 
La differenza, rispetto al passato, è che "non c'è nessun disegno politico, questa è la cosa grave".

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Il costo dei furbi del sindacato: lo Stato paga 500 milioni l'anno


Un esercito di un milione di persone gode di finte pensioni: delegati, dirigenti politici e sindacali godono dei contributi aggiuntivi.

Sono un vero esercito. Poco meno di un milione di persone. Qualcuno per otto ore al mese, qualcuno per 16, altri ancora per giornate, non pochissimi tutti i giorni. Sono gli italiani che hanno un lavoro, ma ne fanno un altro a spese di tutti i contribuenti. In gran parte sindacalisti, in parte politici a tutti i livelli. Tutti insieme valgono circa 60 mila dipendenti a tempo pieno all’anno. Oggi in servizio, domani in pensione. Grazie ai contributi figurativi che lo Stato e quindi i contribuenti  versano loro. Perché basta essere delegato o dirigente sindacale o godere di permessi e aspettative, in parte retribuite in parte no, per mandato elettivo per vedersi versare figurativamente dall’Inps contributi pensionistici aggiuntivi.

Quei permessi costano alla collettività quando vengono presi perché in gran parte vengono retribuiti. Ma costano il doppio perché per ogni ora accumulata viene versato il relativo contributo figurativo dall’Inps. È  un regalo vero e proprio fatto grazie alle leggi che si sono sovrapposte nel tempo a centinaia di migliaia di rappresentanti sindacali. A cui è stato aggiunto un altro regalo: con un minimo di contribuzione aggiuntiva da parte della struttura sindacale in cui militano, tutti loro potranno prendere una pensione più ricca al momento opportuno. Lo stesso accade per tutti i parlamentari eletti, per i consiglieri regionali, provinciali e comunali. Due caste che si sono incontrate - politici e sindacati - e sono subito andate a nozze mandando naturalmente il conto agli italiani.

Quel privilegio vale oro. E passa davanti a tutti gli altri. Il periodo di mandato elettivo, così come il tempo passato a fare attività sindacale in distacco o permesso può essere conteggiato anche ai fini dei 35 anni di contributi per ottenere la pensione di anzianità. Per fare un esempio, la normativa in vigore non consente di calcolare in quei 35 anni il periodo di malattia o di disoccupazione (due condizioni non certo scelte dai lavoratori) in cui sia scattata la contribuzione figurativa. E ora sembra non conteggiare nemmeno più il periodo di servizio militare e quello trascorso in università prima di arrivare alla laurea. A sindacalisti e politici invece è concesso un tappeto rosso perfino a livello previdenziale. Nella pubblica amministrazione secondo il censimento - non esaustivo - compiuto da Brunetta, fra distacchi e permessi sindacali con o senza retribuzione annessa ci sono ogni anno 4.442 dipendenti pubblici a tempo pieno a cui vengono versati i contributi figurativi e che senza calcolare questi hanno già un costo annuo per lo Stato di 121 milioni di euro. A questi si aggiungono nel comparto pubblico aspettative e permessi per ricoprire funzioni pubbliche elettive per 2.239 persone fisse all’anno. Costano nell’immediato 67 milioni più i contributi figurativi che l’Inps deve versare.

Nel comparto privato ci sono altri 4 mila dipendenti in aspettativa o permesso per ricoprire funzioni pubbliche elettive, e oltre a questi c’è tutto l’esercito di sindacalisti in distacco, aspettativa o permesso. Secondo il cislino Bruno Manghi (citato da Stefano Livadiotti nel suo libro-inchiesta “L’altra casta”) «oggi in Italia ci sono 700 mila persone con mandato sindacale a tutti i livelli: delegati, dirigenti, membri di commissioni». Metà di loro ha diritto a otto ore di permessi retribuiti al mese, al di là dei distacchi. Gli altri possono prenderne il doppio. In tutto fanno otto milioni e 400 mila ore mensili di permessi. Valgono 43 mila assunti a tempo pieno all’anno. Il costo dei permessi viene pagato dai datori di lavoro, imprese pubbliche o private. La contribuzione figurativa su quelle ore valide per la pensione è a carico invece di tutti gli italiani, visto che la versa l’Inps.

A questi privilegi assoluti (di cui godono più della metà dei componenti delle segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil) si aggiungono quelli scandalosi consentiti a 40 mila italiani, dipendenti di partito e sindacalisti, dalla legge Mosca che consentì con centinaia di falsi e abusi la ricostruzione post guerra di carriere previdenziali. Furono regolarizzati gratis 8 mila funzionari del Pci, 9 mila della Cgil, 4 mila della Dc, 3 mila della Cisl, 2 mila del psi, 1.385 della Uil. 
Beneficiarono di quel dono-scandalo personaggi oggi ancora ben noti alle cronache politico-sindacali: da Sergio D’Antoni a Giorgio Napolitano, da Franco Marini ad Achille Occhetto. Questi contributi graziosamente regalati valgono secondo stime attendibili più di 500 milioni di euro all’anno. Più di quanto pesi il no al riscatto della laurea. Bisognerebbe farci un pensiero serio.

di Fosca Bincher [FONTE]

lunedì 29 agosto 2011

Berlinguer: corruzione non ci deve sfiorare. Su Penati ho sentito il dovere di agire

Quanto dichiarato dall'ex compagno Berlinguer mi sembra essere la barzelletta degli ultimi due secoli. 
Solo ora si accorge del "malaffare" che ruota intorno al suo partito? 
Era davvero convinto che il partito comunista si sovvenzionasse con la vendita delle salamelle, della piadina e del lambrusco alle feste dell'Unità?  
Prescindendo dagli introiti del sindacato rosso CGIL, o di quelli delle COOP o MANUTENCOOP, tutte chiamate in causa nel sistema democratico alla Penati, il signor Berlinguer crede che gli italiani che non hanno le fette di salamelle sugli occhi, abbiano ancora l'anello al naso, oppure sono minorati mentali e moralmente inferiori perché non di sinistra?

Ecco le dichiarazioni dell'ex compagno Luigi Berlinguer:

"La corruzione non deve minimamente sfiorare il Pd. Noi dobbiamo essere più rigorosi della moglie di Cesare". Lancia questo messaggio - dai microfoni di Radio 24 - al suo partito, Luigi Berlinguer, presidente della Commissione di Garanzia del Pd, che ha convocato una riunione sul caso Penati (l'ex braccio destro del segretario indagato a Monza).

"Ho sentito il dovere di prendere l'iniziativa, perché - dice - noi dobbiamo sapere, per dettare i nostri comportamenti. Io ho chiesto a Penati se ha informato delle sue vicende la Commissione provinciale". Berlinguer anticipa che "il 9 settembre a Pesaro ci sarà una riunione di tutti i presidenti delle Commissioni regionali, per discutere di correttezza e regole di comportamento nel partito. Vogliamo far uscire un messaggio forte, perché noi - dichiara a Radio 24 - siamo un partito che combatte la corruzione politica, che alberga in modo diffuso nel nostro Paese. E' una degenerazione non tollerabile per la democrazia".

Il richiamo di Berlinguer è ad evitare "non solo l'interesse privato, perseguibile penalmente, ma anche quello del partito, se può portare alla violazione di alcune norme di comportamento corretto della cosa pubblica. Evitare cioé - spiega - anche i rischi di mala interpretazione, che portano scandali". Da queste riunioni, il presidente della Commissione di garanzia vorrebbe far emergere il messaggio che "chi fa politica, non lo deve fare per la carriera o per un suo tornaconto". Un appello alla questione morale? "E' diverso da quello che succedeva in passato. Vogliamo ricordare che la politica è servizio". Ci sono nel Pd atteggiamenti simili a quelli di altri partiti? "In tante cose siamo simili agli altri, ma ogni giorno noi dobbiamo ripetere questa funzione pubblica della politica. O c'è il rischio che qualcuno lo dimentichi".

Al peggio non vi è mai fine. Lor signori sì che sanno vivere...!

La casta del sindacato 
Ecco chi sono i furbetti con la doppia pensione (tre fra i tanti! NdB).

I due ex segretari Cisl Franco Marini e Sergio D'Antoni incassano 14mila euro al mese come parlamentari. Ma si sono procurati altri due ricchi assegni mensili

Cerco studente che sia andato a le­zione da Sergio D'Antoni. Giuro: lo voglio trovare. Qualcuno me lo segna­­li, mi faccia scrivere o telefonare: vo­glio avere la prova che l'ex sindacali­sta della Cisl ha avuto una grande car­riera da professore, come la sua pen­sione lascia intendere. 
Eh sì: perché da quando ho scoperto che D'Antoni riceve dall'Inpdap un assegno mensi­le di 5.233 euro netti (netti!) al mese (103.148 euro lordi l'anno) come ex docente universitario non mi do pace: voglio parlare con qualcuno che sia andato a lezio­ne da lui. Qualcuno che si sia ab­beverato alle fonti di così costoso sapere. Se entro una settimana non lo trovo, sarò costretto a un gesto malsano: mi rivolgerò a «Chi l'ha visto?» e lancerò un ap­pello in Tv.

Guardando ieri la prima pagi­na del Giornale sui sindacalisti che diventano ricchi organizzan­do gli scioperi ho fatto un salto sulla sedia: alcune persone cita­te, infatti, non solo ricevono il già abbondante stipendio parlamen­tare ma ad esso uniscono una pensione maturata grazie alla mi­tica legge Mosca, quella che ha consentito a 40mila persone fra sindacalisti e dirigenti di partito di vedersi riconoscere con un col­po di bacchetta magica contribu­ti di fatto mai versati. Privilegio su privilegio: lo vedete che a orga­n­izzare scioperi conviene davve­ro? I lavoratori no, loro ci perdo­no soldi e, in casi come questi, an­che la faccia. I loro capi, invece, ci guadagnano. In carriera. In bene­fit assortiti. E, di conseguenza, in conto in banca.


Prendete Franco Marini, l'ex presidente del Senato, una vita da democristiano, sempre lì a pe­dalare fra un vino d'Abruzzo e una dichiarazione in Tv. Ebbene a voi, leggendo il Giornale di ieri, sarà sembrato esagerato il com­penso mensile che si è assicurato difendendo gli operai: 14.557 eu­ro, che corrisponde per l'appun­to all'indennità da senatore. Ma per la verità non è quello il solo de­naro che riceve dalle casse pub­bliche: infatti egli percepisce an­che una pensione Inps di circa 2.500 euro al mese, che gli piove in tasca dal 1991, cioè da quando aveva 57 anni. Merito della legge Mosca, che evidentemente se ne è sempre impipata dell'allunga­mento dell'età lavorativa chiesto ai cittadini comuni... 


Fra l'altro, visto che si parla di di­fensori del popolo, ci sia permes­so di ricordare che della legge Mo­sca beneficia anche il compagno Cossutta: la incassa dal 1980, cioè da quando aveva 54 anni (avete presente il 1980? Tanto per dire: in Urss c'era ancora Breznev, a Sanremo Bobby Solo cantava «Ge­losia » e il capitano del Milan era Aldo Maldera...). Dal 2008, poi il compagno Cossutta ha unito alla pensione Inps maturata grazie al­la legge Mosca anche il vitalizio parlamentare (9.604 euro al me­se). E per non farsi mancare nulla al momento dell'uscita dal Parla­mento s'è assicurato anche la li­quidazione- monstre di 345mila euro, tutti in una volta. Un vero re­cord. Dimenticavo: la liquidazio­ne d­ei parlamentari viene chiama­ta tecnicamente «assegno di rein­serimento » o «assegno di solida­rietà». E,a differenza delle liquida­zioni dei normali lavoratori, è esentasse. Si capisce, con la solida­rietà bisogna essere generosi...

345mila euro di liquidazione. La pensioncina Inps grazie alla legge Mosca e 9.604 euro come vita­­lizio parlamentare: lo vedete? Pro­clamarsi paladini degli operai conviene. Salire sulle barricate de­gli scioperi è un affare. Infatti non c'è niente che renda in Italia come l'attività sindacale: fra Caaf, patro­nati, corsi di aggiornamento pro­fessionale, trattenute e balzelli va­ri Cgil, Cisl e Uil gestiscono ogni anno un patrimonio gigantesco, che fra l'altro viene amministrato con le stesse regole della cassa del coro alpino di Montecucco o della bocciofila di Pizzighettone. Non esistono bilanci consolidati, non esistono organi di controllo. E per di più c'è la possibilità, gestendo quel tesoro, di diventare in un amen parlamentari, europarla­mentari o mal che vada presidenti della Regione Lazio... Non male, no?

A conti fatti organizzare sciope­ri è come fare bingo. Alle spalle dei lavoratori. In effetti: alla ricchezza dei sindacati (l'ultimo vero organi­smo della Prima Repubblica) si unisce la ricchezza dei sindacali­sti. Che, come si è detto, riescono ad accumulare prebende, inden­nità, stipendi, pensioni e benefici di varia entità. Come quelli che ab­biamo citato qui, a cominciare na­turalmente dall'uomo che amava la Jacuzzi e i vestiti di Brioni, il sin­dacalista Sergio D'Antoni. Lui, in­fatti, come si è detto oltre all'inden­nità da parlamentare (14.269 eu­ro lordi al mese) incassa la pensio­ne Indpad da ex professore (5.233 euro netti al mese): ma sapete da quando la incassa quest'ultima? Da quando aveva 55 anni. E sape­te perché quella pensione è così al­ta? Perché, grazie al meraviglioso meccanismo dei contributi figura­tivi, a 55 anni risultava pensionabi­le con 40 anni di anzianità. Tutto regolare, tutto a norma di legge. Si capisce. Ma a me resta il dubbio: l'ex sindacalista Cisl, non solo è stato un grande docente, come di­mostra la sua pensione d'oro. È stato anche un docente molto pre­coce. 
A 15 anni già saliva in catte­dra e insegnava. 
E allora è possibi­le c­he io non riesca a trovare nean­che uno che è andato a lezione da lui?

di Mario Giordano  
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lunedì 22 agosto 2011

500 mila baby pensionati!!!

Via dal lavoro prima dei 50 anni. Costano 9 miliardi e mezzo l'anno
 
In Italia ci fu un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui si regalavano le pensioni. Era prima della grande crisi petrolifera. Erano gli anni del centrosinistra, quando ancora ci si cullava nell'illusione di una crescita senza fine e una classe politica miope arrivò al punto, nel 1973 (governo Rumor, con Dc, Psi, Psdi e Pri), di concedere alle impiegate pubbliche con figli di andare in pensione dopo 14 anni, sei mesi e un giorno, mentre era già possibile per gli statali lasciare il servizio dopo 19 anni e mezzo e per i lavoratori degli enti locali dopo 25 anni.Come definire la pensione ai trentenni, se non un regalo? E se vi pare impossibile, basta riprendere gli articoli di Elisabetta Rosaspina e Gian Antonio Stella che sul Corriere della Sera , nel 1994 e nel 1997, raccontarono i casi delle signore Ermanna Cossio e Francesca Zarcone, che erano riuscite ad andare in pensione, rispettivamente, a 29 e a 32 anni, dopo aver lavorato come bidelle, con assegni quasi pari alla retribuzione. Insomma, mentre oggi non sono pochi quelli che a 30-35 anni non hanno ancora trovato un lavoro, fino al 1992 (riforma Amato), c'erano giovani che a questa stessa età andavano in pensione!
 Se poi vogliamo avere un'idea della disastrosa eredità che quelle leggi ci hanno lasciato, basta elaborare i dati del Casellario centrale dei pensionati, aggiornati al primo gennaio 2001. Si scopre che ci trasciniamo ancora più di mezzo milione di pensioni baby, liquidate a lavoratori con meno di 50 anni d'età: 535.752 per la precisione, che costano allo Stato circa 9,5 miliardi di euro l'anno. Ancora oggi l'Inpdap, l'ente di previdenza del pubblico impiego, paga 428.802 pensioni concesse sotto i 50 anni: di queste più di 239 mila vanno a donne e quasi 185 mila a uomini, per una spesa nel 2010 di 7,4 miliardi. A queste pensioni si sommano 106.905 pensioni liquidate a persone con meno di 50 anni nel sistema Inps (regimi speciali e prepensionamenti) per un costo di altri 2 miliardi.
 Proprio un baby pensionato, Franco Tomassini, ha fatto tornare d'attualità il tema scrivendo al Corriere una lettera pubblicata mercoledì, nella quale l'ex «dirigente di una grande azienda Iri», dopo aver raccontato di aver lasciato il lavoro a 50 anni, conclude: «Sento un po' di rimorso per aver contribuito a defraudare le generazioni seguenti. Per questo, non avrei alcuna difficoltà a versare il 10% dei miei duemila euro mensili a un Fondo Giovani. La mia vita non cambierebbe, e mi sentirei più vicino alle nuove generazioni». Venerdì, nella pagina dei commenti, il Corriere ha rilanciato l'idea di Tomassini, chiedendosi se non sia il caso di studiare un contributo, qui davvero di solidarietà, per chi è andato in pensione con meno di 20 o 25 anni di contributi e prima dei 50 anni e che abbia un reddito familiare superiore a 25 mila euro, magari modulandolo per fasce di reddito (5% tra 25 e 50 mila euro, 10% sopra). La proposta ha ricevuto il sostegno di moltissimi lettori che hanno chiesto di tornare sull'argomento.
Sempre secondo i dati del Casellario centrale, l'età media di questo mezzo milione di pensionati baby sta tra 63,2 anni (per chi ha lasciato il lavoro nella fascia d'età 35-39 anni) e 67 (per chi ha lasciato a 45-49 anni). Questo significa che stanno prendendo l'assegno come minimo da 18-24 anni e che, considerando la speranza di vita, continueranno a prenderlo per un'altra quindicina d'anni. I baby pensionati ricevono in media una pensione lorda di circa 1.500 euro al mese. Importi generosi considerando che mediamente vengono pagati per più di 30 anni e che hanno alle spalle pochi contributi. Tanto che di solito un pensionato baby incassa minimo tre volte quanto ha versato. Se anche si volesse limitare il contributo a coloro che sono andati in pensione prima dei 45 anni, la platea sarebbe ampia: 240.063 assegni per un costo di 3,8 miliardi l'anno. Le pensioni concesse sotto i 50 anni sono concentrate al Nord (il 65% circa). Al primo posto c'è la Lombardia con 110.497 baby pensioni e una spesa di 1,7 miliardi. Seguono: Veneto, Emilia Romagna e Piemonte.

Qualche lettore ha osservato che prima di tutto bisognerebbe colpire i parlamentari che, come ha documentato ieri Maria Antonietta Calabrò sul Corriere , prendono una buonuscita anche dopo solo 5 anni: 47 mila euro che diventano 140 mila dopo tre legislature. Privilegi assurdi. Ma forse non tutti sanno che per alcuni parlamentari questi si sommeranno a quelli già goduti da baby pensionati. 
Prendiamo per esempio il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, che, come scrive Mario Giordano nel libro Sanguisughe , è andato in pensione da magistrato a 44 anni (oggi ne ha 60) e incassa 2.644 euro lordi al mese. Difficile aspettarsi che possa farsi promotore di un contributo sulle baby pensioni. Così come è difficile che possa farlo Umberto Bossi, visto che la moglie Manuela Marrone, è andata in pensione a 39 anni dopo aver fatto l'insegnante e prende 766 euro al mese.

di Enrico Marro, [FONTE]

A proposito della moglie del senatur padagno Basso, ecco cosa ha scritto, qualche mese addietro, Luca Telese.
La moglie di Bossi?
È una baby pensionata

La notizia è di quelle a cui ci ha abituato questo Paese, afflitto dalla maledizione dei paradossi, degli sprechi, e delle ingiustizie sancite per decreto e controfirmate con i sigilli di ceralacca. La notizia è questa: la moglie del nemico giurato di Roma, la moglie del guerrigliero indomito che si batte contro lo Stato padrone e che fa un vanto di denunciare gli sprechi dello Stato assistenzialista, è una baby pensionata. Proprio così, avete letto bene. La moglie di Umberto Bossi, Manuela Marrone, riceve un trattamento previdenziale dal lontano 1992, da quando, cioè, alla tenera età di 39 anni, decideva di ritirarsi dall’insegnamento. Liberissima di farlo, ovviamente, dal punto di vista legale: un po’ meno da quello dell’opportunità politica, se è vero che suo marito tuona un giorno sì e l’altro pure contro i parassiti di Roma. E si sarebbe tentati quasi di non crederci, a questa storia, a questo ennesimo simbolo di incoerenza tra vizi privati e pubbliche virtù, se a raccontarcela non fosse un giornalista a cui tutto si può rimproverare ma non certo l’ostilità preconcetta alla Lega Nord e al suo leader.

Eppure, nello scrivere il suo ultimo libro inchiesta (Sanguisughe, Mondadori, 18 euro, in uscita martedì prossimo), Mario Giordano deve essersi fatto una discreta collezione di nemici, se è vero che l’indice dei nomi di questo libro contiene personaggi noti e ignoti, di destra e di sinistra, gran commis e piccoli furbi, una vera e propria pletora di persone che a un certo punto della loro vita, anche se molto giovani, hanno deciso di vivere alle spalle della collettività e di chi lavora, approfittando dei tanti spifferi legislativi che il Palazzo ha generosamente concesso in questi anni.

Il libro di Giordano (sottotitolo: Le pensioni d’oro che ci prosciugano le tasse) però ha un attacco folgorante. Ed è la riproduzione dell’estratto conto di una pensione di 78 centesimi. Una incredibile “busta paga” autentica che nasce così: “Pensione lorda 402,12 euro, trattenute Irpef 106,64 euro, saldo Irpef 272.47, addizionale regionale 23.00, arrotondamento 0.78. Totale: 0.78”. Scrive Giordano: “Quando uno Stato si accanisce su una pensione minima di 402 euro (che è già una miseria) e la riduce a 0.78 centesimi (che è appunto un insulto) mentre lascia inalterati i supervitalizi dei parlamentari, il loro insindacabile diritto al cumulo, o gli assegni regalati a qualche burocrate d’oro, ebbene, noi non possiamo far finta di niente”.

Allora, forse, si può leggere questo libro saltando da un assurdo all’altro. Dalla “pensione centesimale” a quella della signora Marrone in Bossi, che è – in Italia – non un caso isolato, ma una delle 495.000 persone, come racconta il direttore dell’agenzia NewsMediaset, “che ricevono da anni la pensione senza avere i capelli grigi e senza avere compiuto i sessant’anni di età”. Nel 1992, quando la Marrone aveva 39 anni, Bossi attaccava “la palude romana” e chiedeva di cambiare. “Come no? – chiosa Giordano – Il cambiamento, certo. E intanto la baby pensione, però”.

Manuela Marrone, seconda moglie di Bossi, siciliana d’appartenenza attraverso il nonno Calogero “che arrivò a Varese come impiegato dell’anagrafe e finì deportato nei lager nazisti, dopo aver aiutato molti ebrei a scappare”, custodì Bossi nella convalescenza dopo l’ictus e favorì l’ascesa del figlio Renzo. “Fra le attività che ha seguito con più passione – annota Giordano – la scuola elementare Bosina, da lei medesima fondata nel 1998, ‘la scuola della tua terra’, che educa i bambini attraverso la scoperta delle radici culturali, anche con racconti popolari, leggende, fiabe, filastrocche legate alle tradizioni locali. E sarà un caso che nelle pieghe della Finanziaria 2010, fra tanti tagli e sacrifici, sono stati trovati i soldi per dare un bel finanziamento (800 mila euro) proprio alla Bosina?”. Tutto sembrerebbe fuorché un caso.

La signora Bossi, d’altronde, ha molto tempo libero perché riceve un vitalizio regolarmente. “Aveva diritto a prendere i suoi 766,37 euro al 12 di ogni mese, ha diritto a percepire l’assegno, che in effetti incassa regolarmente da 18 anni, da quando suo figlio Renzo, il Trota, andava in triciclo, anziché andare in carrozza al consiglio regionale” (Già, perché se tra pensione, parlamento e Regione, se non ci fosse lo Stato assistenzialista, il reddito di casa Bossi passerebbe da quasi trecentomila euro a zero).

Ma Manuela non è sola: il corposo capitolo sui baby pensionati si apre con la storia di Francesca Z., che si è messa a riposo nel 1983, quando aveva appena 32 anni (“L’ex collaboratrice scolastica ha già ricevuto dallo Stato 280 mila euro, cioè 261 mila euro più di quanto abbia versato in tutta la sua carriera – si fa per dire – lavorativa”). E prosegue con i casi di Carlo De Benedetti (in pensione a 58 anni), Cesare Romiti (2.500 euro a 54: ai tempi della marcia dei quarantamila, nel 1980, era pensionato da tre anni!). Ma non mancano i grandi moralisti. 
Adriano Celentano è in pensione da quando aveva 50 anni. Oppure le artiste: Raffaella Carrà e Sophia Loren (in pensione da quando avevano 53 anni) e i duri come Carlo Callieri (l’ex uomo forte della Fiat) che prende la bellezza di 5 mila euro al mese da quando aveva 57 anni. Ecco perché, in mezzo a questa selva di nomi il consiglio è di non leggere i capitoli sulle pensioni onorevoli, sulle pensioni d’oro, e sulle pensioni truffa. Vi incazzereste troppo.

di Luca Telese, 31/3/2011[FONTE]

Bankitalia tempio del rigore? E' tutto un magna-magna!



Funziona tutto alla rovescia tra le mura di via Nazionale. 

A Palazzo Koch si tuona contro gli italiani chiedendo sacrifici. Ma lì gli stipendi aumentano - la media è di 115 mila euro - e nel 2011 i baby pensionati sono già arrivati a quota 56.


Quando hanno letto il testo definitivo del decreto legge di agosto, in Banca d'Italia sono corsi in mensa. A seconda del rango potevano trovare un brut metodo classico della Banfi spumante o un prosecco di Valdobbiadene. Ce ne è sempre qualcuno in ghiaccio nelle foresterie di via Nazionale da quando il gruppo britannico Compass ha vinto il principesco appalto per le mense della banca centrale italiane. Ma i aprimi di agosto sono volati i tappi di quegli spumanti. Perché nel decreto per gran parte dei dirigenti e dei funzionari di via Nazionale c'era una buona notizia: quella del contributo di solidarietà sui redditi sopra i 90 e i 150 mila euro. Per tutti gli altri italiani è stata una mazzata. Per i guardiani del rigore dei conti pubblici nazionali, no.

A loro quel prelievo del 5% (sopra i 90 mila euro) e del 10% (sopra i 150 mila euro) era già scattato fra la fine del 2010 e l'inizio del 2011 sulla base di un decreto legge del 31 maggio 2010 che tagliava gli stipendi più alti dei dipendenti pubblici. Banca d'Italia ha la sua autonomia, e non è che il taglio sia scattato in automatico in via Nazionale. Ma di fronte al pressing dell'opinione pubblica e anche per essere coerente con le proprie prediche, il governatore Mario Draghi decise di estendere in quel territorio riservato la legge che nel resto d’Italia valeva per tutti i dipendenti pubblici. Con il nuovo decreto però le norme a cui Draghi e i il direttorio facevano riferimento, sono state abrogate. Per questo si è stappato lo spumante in banca: i tagli dei loro stipendi sono salvi. E anche quel che finora è avvenuto dovrà essere restituito. Certo, anche lì come accadrà a tutti gli altri italiani, si dovrà pagare il contributo di solidarietà. Ma anche nella peggiore delle ipotesi sarà più leggero: è deducibile (i tagli precedenti non lo erano) e quindi verrà dimezzato. Può essere che venga ulteriormente alleggerito durante il passaggio parlamentare, magari verrà calibrato secondo il quoziente familiare, può anche essere che salti tutto o in parte. La notizia quindi è certa: le buste paga in Bankitalia verranno rimpinguate, e non di poco.

Funziona tutto a rovescio lì fra le mura di via Nazionale. Si passa il giorno a tuonare contro il resto del Paese che vive al di sopra delle sue possibilità, e in Banca di Italia la possibilità crescono, si allargano a dismisura, sembrano più vicine a quelle di una corte reale che ai già generosi palazzi contigui della Repubblica. Il bando sui servizi di ristorazione che regola la pagnotta quotidiana sia nelle foresterie dei piani nobili che nelle più ordinarie mense sembra essere nato da Buckingham Palace e non da quel severo custode del rigore e del risparmio pubblico che la Banca d'Italia è, almeno nell'immaginario collettivo. Potrebbe trattarsi solo di uno sfizio, o di una particolare estrema attenzione alla buona alimentazione. Ma non è un caso isolato: il mondo capovolto sembra davvero essere la regola in via Nazionale.

Basta prendere i contratti del personale. Anche lì i sindacati come ovunque si lamentano ogni tre per due. Eppure l'ultimo ha regalato scatti trasversali che si sognano altri dipendenti del settore pubblico e di quello privato, facendo lievitare oltremodo la spesa per il personale. Nel 2009 la media degli stipendi pro capite in Banca di Italia era di 93.800 euro. L'anno scorso è salita a 95.900 euro. Con gli oneri accessori il dato medio delle retribuzioni è stato addirittura di 114.900 euro. Non ci sono molti altri posti dove si possano vantare buste paga medie così elevate. Le prediche del Governatore dunque sono assai efficaci fuori, un po' meno dentro le mura.

Non molto diverso il doppio concetto che in Banca di Italia si ha del welfare. Quello italiano dovrebbe tirare la cinghia, ridurre la spesa sanitaria e quella pensionistica, alzando l'età del meritato riposo. All'interno della Banca il concetto è capovolto. Nel 2010 sono state mandate via 511 persone, e buona parte di queste (uno su tre) grazie agli scivoli (53 milioni di euro) pagati dalla banca verso il pensionamento anticipato di anzianità. In bilancio sono stati subito accantonati ulteriori 23 milioni e nel primo bimestre 2011 altri 119 se ne sono andati via dalla banca centrale, e la metà (56) si sono presi lo scivolo verso la pensione di anzianità. Quindi lì si fa quel che si vorrebbe (giustamente) vietare al resto di Italia.

Non male a proposito di welfare anche l'ultimo accordo sottoscritto dai dipendenti sulla assistenza sanitaria.
La polizza assicurativa attuale costava 1.180 euro all'anno: 830 li metteva la banca centrale, e 350 ciascun dipendente. La nuova formula sottoscritta a luglio allarga il campo delle prestazioni, prevede una polizza base di 1.250 euro, di cui 1.180 saranno a carico della banca e solo 70 pagate dai dipendenti. E' come se nella sistema sanitario nazionale invece di mettere i ticket ai cittadini si fossero allargate invece le prestazioni a carico dello Stato.Nel mondo che vive alla rovescia, mentre l'Italia tira la cinghia e vive preoccupata dalla crisi, in Banca d'Italia i dipendenti hanno una sola preoccupazione: le promozioni a condirettore e gli avanzamenti di carriera per cui da settembre saranno sottoposti a prove di valutazione che ritengono troppo stringenti. Ma di promozioni dicono che c'è gran bisogno: fin qui nel 2011 hanno avuto lo scatto di grado solo 95 dipendenti e da un po' di tempo non si stava largheggiando. 69 promozioni nel 2010, 79 nel 2009, 92 nel 2008, 78 nel 2007. Certo, uno lavora tutto il giorno senza mai protestare e si immagina di potere fare carriera un po' più velocemente. 
Se Draghi era di manica corta, magari il suo successore largheggerà un po'…

di Franco Bechis, [FONTE]

sabato 20 agosto 2011

Un gravissimo errore di Tremonti che Berlusconi non ha considerato!

 Un gravissimo errore di Tremonti è quello di non aver tassato i privilegi delle cooperative - specialmente le COOP - che, all'origine, erano nate per aiutare i "poveri contadini", ma che adesso sono delle vere e proprie multinazionali con guadagni iperbolici e privilegi ormai ingiustificabili, come quello che lo statuto dei lavoratori non è applicabile ai loro dipendenti in quanto "soci", oppure di non pagare le tasse per intero come tutte le società di capitali.
Invece il signor ministro ha preferito fare come i democristiani d'antan, tassare i soliti noti, ovvero noi semplici cittadini. Probabilmente per non finire schiacciato dalla macchina del fango mass-mediale delle sinistre, ad iniziare dal quotidiano la Repubblica. Ecco un ottimo commento sulla vicenda  scritto da Filippo Facci.

Se le Coop non pagano la crisi: niente tasse sul 70% dell'utile
Altro che aiutare i contadini, sono vere e proprie multinazionali.
Capital-comunismo su cui il fisco non si accanisce come con noi.

Nacquero per aiutare i contadini a comprarsi il trattore, sono diventate una multinazionale che ha un giro d'affari spaventoso (8 per cento del Pil) e che razzola nella grande finanza e si immischia in banche e finanziarie: in sostanza la cosa più capitalista che esista, ma fondata su un principio anti-capitalistico che alcune imprese siano più legittimate di altre a stare sul mercato. Le coop sono dei colossi con le agevolazioni riservate ai piccoli: non pagano le tasse sul 70 per cento dell'utile purché sia reinvestito, ma riescono ad aggirare il problema distribuendo benefit o stipendi stellari ai soci amministratori.

Solo la Legacoop ha un giro d'affari da almeno 50 miliardi (altro che Mediaset) con in più un conflitto d'interessi da paura, perché oltre a fare i prezzi che vogliono - muovendosi in monopolio nelle regioni rosse, e facendo fuori tutti gli altri, vedi caso Esselunga - le coop finanziano regolarmente il Pd che le ripaga rifinanziandole e intruppandole nei grandi appalti: capita che gli stessi uomini siano dirigenti nei Ds e nelle coop, le quali in pratica godono delle agevolazioni riservate ai piccoli ma hanno imbastito un capitalismo di Stato e di Regione, un capital-comunismo che introita ricavi e paga meno tasse rispetto a noi poveri deficienti. 
«La Coop sei tu» un accidente: sono loro.

di Filippo Facci, 20/8/2011 [FONTE]

venerdì 19 agosto 2011

Fra gli squali della speculazione e il dragone rosso

Contrordine compagni, la storia si è voltata indietro: una inversione a u.

Dal 1989-1991 si racconta questa favola: il comunismo è sparito dal mondo e trionfa la liberaldemocrazia in tutto il globo. Fine della storia, decretò un politologo americano facilone.

Ebbene, venti anni dopo ci si sveglia bruscamente dal sonno: nella realtà la storia si è rimessa in moto e corre all’indietro.

I sistemi liberaldemocratici sono alla frutta (in certi casi alla grappa) e trionfa invece la superpotenza cinese: un regime comunista che si appresta a diventare la prima potenza economica mondiale.

Un Paese che col suo miliardo e 300 milioni di abitanti ha il 20 per cento della popolazione mondiale (un essere umano su cinque è cinese).

Una superpotenza che già oggi detiene un pacchetto enorme del debito europeo e americano ed è in condizioni di prendere per le orecchie l’inquilino della Casa Bianca prescrivendogli – come ha fatto nei giorni scorsi – le misure economiche da assumere e intimandogli pure di fare in fretta.

Un mese fa Obama, che si era preso la libertà di ricevere il Dalai Lama, è stato persino costretto ad accoglierlo in una sala secondaria e – se ho letto bene – a farlo poi sgattaiolare da un’uscita secondaria della Casa Bianca per non dispiacere ai “padroni” cinesi che non avevano gradito quell’incontro.

Così come la Cina ha fatto sentire il suo ruggito alle paurose democrazie perfino nell’assegnazione del premio Nobel per la pace al dissidente cinese Liu Xiaobo, tanto da indurre una ventina di “coraggiosi” Paesi a disertare la cerimonia per non dispiacere a Pechino.

Tramonto dell’Occidente e ascesa del Dragone rosso d’oriente. Questo è il titolo del film che sta scorrendo davanti ai nostri occhi.

Il peso politico di condizionamento del regime cinese che si dispiegherà da ora in poi (come già sta accadendo in Asia) è facile a immaginarsi.

Comincia un’era durissima per le democrazie. Anche perché sono minacciate in casa da un altro nemico, che poi ha favorito e alimentato la crescita del dragone: un potere finanziario selvaggio, anonimo e privo di vere regole e vincoli, favorito da dispositivi finanziari e tecnologie informatiche devastanti, che è capace di puntare a colossali guadagni speculativi mettendo in ginocchio interi stati.

Un potere al quale nemmeno la superpotenza americana sa far fronte. Anche perché le classi dirigenti occidentali appaiono prone o impotenti davanti a tali poteri.

La corsa ai guadagni speculativi illimitati – che arriva a scommettere sul fallimento di interi stati – ha messo in ginocchio le economie occidentali, anche grazie al cattivo governo o a errori di lunga durata delle classi politiche, ma soprattutto ha demolito l’autonomia e la sovranità degli stati e il primato stesso del sistema democratico.

Siamo dunque stritolati da una tenaglia costituita da un lato dai poteri forti della finanza internazionale e della tecnocrazia anonima e dall’altra da un colosso economico e demografico cinese che ha fatto propria la cultura del profitto illimitato pur mantenendo la ferrea dittatura politica del partito comunista (del resto il primato assoluto del fattore economico era già alla base della filosofia marxista).

Entrambe queste potenze manifestano un certo disprezzo per la sovranità popolare e per le procedure delle democrazie: lo si è visto con clamorosa evidenza nei giorni scorsi quando, sia le divinità dei “mercati” che il Dragone rosso, hanno espresso irritazione per le “lentezze” delle decisioni dei politici.

E disappunto per l’incapacità delle democrazie di agire tempestivamente nel dissanguamento dei cittadini contribuenti.

La democrazia insomma è diventato un inutile intralcio agli interessi di lorsignori, l’ “internazionale del denaro” e la nuova internazionale rossa con gli occhi a mandorla.

Possiamo dormire sonni tranquilli? A me pare proprio di no.

Del resto – come dicevo – il Dragone rosso è stato alimentato e cresciuto proprio dagli smisurati appetiti del “mercatismo” che ha nutrito e ha fatto ingigantire il colosso cinese con una serie incredibile di “regali” politici e commerciali, infischiandosene totalmente del problema dei diritti umani e sociali e travolgendo ciò che una volta era, per ogni Paese, l’ “interesse nazionale”.

L’ingresso di botto (senza tappe e tempi intermedi) della Cina nel WTO, nell’organizzazione del commercio mondiale, l’11 dicembre 2001, è la data simbolo di questa politica.

Che si è replicata mille altre volte (basti ricordare l’accettazione della sottovalutazione della moneta cinese o le clausole protettive della Cina nei trattati internazionali, come quello di Kyoto).

La politica cinica e miope dei governi occidentali che, credendosi furbi, hanno chiamato “realpolitik” il cinismo (“pecunia non olet”), in realtà ha scavato la fossa ai propri paesi.

Quante volte i Clinton e i Prodi hanno spiegato che la Cina “non è un pericolo, ma un’opportunità”. E quanti capitalisti si eccitavano alla vista di una immensa massa di manodopera a basso costo e senza protezioni sociali e senza problemi di politica ambientale (col miraggio di un mercato di un miliardo e mezzo di persone).

Così al regime cinese – senza costose clausole relative ai diritti sociali e umani – è stato permesso di fare una colossale concorrenza sleale alle economie del mondo democratico.

La supercrescita dell’economia cinese oltretutto è una delle cause del grande aumento dei prezzi delle materie prime che è fra le concause della crisi mondiale.

I dragoni hanno messo in ginocchio l’industria dell’Occidente, appropriandosi enormi quote di mercato e addirittura comprando i titoli del debito Usa perché i dissennati americani consumassero cinese.

Oggi non è l’Occidente che, a rimorchio degli affari, ha contagiato la Cina con la democrazia e i diritti sociali – come teorizzavano i progressisti dell’era Clinton e Prodi – ma al contrario è la Cina che porta l’occidente verso una restrizione della democrazia e delle garanzie sociali.

Lenin previde che i capitalisti avrebbero fornito all’Urss la corda con cui impiccarli. In effetti così hanno fatto con la Cina. Ma gli impiccati siamo noi.

Oggi vediamo se e quanto avevamo ragione a ostinarci a parlare di comunismo e diritti umani prendendoci per venti anni gli insulti di quei “progressisti” che – trattandoci da dementi – sdottoreggiavano che il comunismo è finito, che attardarsi a parlarne era da fissati, da paranoici, da gentaglia con secondi fini.

E’ questa cultura “progressista” che ha permesso ai politici occidentali di non fare i conti con la questione della democrazia e dei diritti umani e sociali in Cina.

Ora siamo serviti. Una dittatura comunista che per ferocia non è seconda a nessun totalitarismo del XX secolo espande la sua egemonia sul mondo e prende per le orecchie perfino il presidente americano.

E’ bene sapere infatti che il regime comunista cinese è di gran lunga il più sanguinario della storia. Basta mettere in fila gli orrori dei suoi sessant’anni di storia. Le vittime si contano – letteralmente – a centinaia di milioni.

Da quelle fatte per la presa del potere (e la repressione) da parte di Mao, nel 1949, a quelle dell’invasione del Tibet (qualcosa assai simile al genocidio), dal mare di vittime del folle “Grande balzo in avanti”, fino allo scatenamento da parte di Mao della farneticante “rivoluzione culturale”, che fu un immane bagno di sangue, fino dall’imposizione della legge sul figlio unico, con l’aborto obbligatorio di massa, dagli anni Ottanta, arrivando al massacro di Piazza Tien-an-men e alle moderne repressioni col sistema dei Laogai o con le condanne a morte di massa.

Per non dire di una politica estera che ha appoggiato i regimi più sanguinari, da quello cambogiano di Pol Pot e coreano di Kim Il-Sung, fino all’appoggio, dato in questi anni, al feroce regime sudanese che ha permesso a Pechino di accedere al petrolio africano.

Ora davvero la Cina è vicina. Auguri.

di Antonio Socci, 14/8/2011[VIA

La Sicilia detiene il record di sprechi: commissariamo l'amministrazione dell'isola

Per normalizzare la situazione è necessario mettere mano alla Costituzione: altro che ricorso presentato dai Consiglieri.

Bisognerebbe prendere la Sicilia, commissariarla all'istante e cambiare la Costituzione per normalizzare la sua amministrazione parassita: altro che il ricorso presentato da un gruppo di consiglieri siciliani (capofila il sindaco di Messina, vedi articolo) che mirano a mantenere il doppio stipendio alla faccia di una sentenza della Consulta e soprattutto alla faccia nostra, che non possiamo neppure linciarli: in luglio l'assemblea siciliana si è assicurata contro il «rischio insurrezione» («tumulti e aggressioni», polizza estesa ai familiari) e hanno fatto bene, visti gli incredibili privilegi di cui godono: dai pranzi a 9 euro al «contributo sepoltura» di 5mila euro in caso di morte (tutto vero) e questo da parte di una classe dirigente che costa 496.400 euro annui a consigliere (più dei parlamentari di Montecitorio) quando i consiglieri sono 90 perché rifiutano di ridurli. Aggiungi 20mila dipendenti strapagati (1,7 miliardi annui, quasi come tutte le altre regioni messe insieme) che vanno in pensione prima degli altri e che costano 349 euro annui a cittadino, quasi venti volte il costo di un dipendente lombardo. Dimenticavamo il record nazionale di consulenze e auto blu. Dimenticavamo i 1428 dirigenti che secondo la Corte dei Conti sono in sovrannumero rispetto alla legge. Dimenticavamo ogni volta, il problema è questo.

 Dalla casta siciliana a quella dei due rami del Parlamento. Gianluigi Paragone spiega che "l'esecutivo ha annunciato la sforbiciata delle poltrone, ma finché i provvedimenti non diventano realtà c'è ragione di dubitarne". Inoltre, lo spettacolo desolante di Palazzo Madama animato dalla pochezza di undici senatori (gli onorevoli hanno provato a giustificarsi: "Era una seduta di poco conto...") dimostra soltanto una cosa: poiché i parlamentari non lavorano tanto vale dimezzarli. Leggi il commento di Paragone.

di Filippo Facci, 19/08/2011 [FONTE]

Il caso Penati affosserà il Pd

L’inchiesta che coinvolge Filippo Penati, ex sindaco della Stalingrado d’Italia ed ex capo della segreteria di Pierluigi Bersani, avrà conseguenze pesantissime sul Partito democratico. Non penso alla cosiddetta “questione morale”, che qualche esponente del Pd comincia assai timidamente a riportare alla luce, come se dovesse rivendicare la “superiorità” di berlingueriana memoria.
Non penso nemmeno alle lotte interne al Pd, sempre più diviso su tutto e sempre meno in grado di guidare un’alternativa all’attuale maggioranza. Né mi meraviglia il silenzio dello stesso Bersani, reduce da una disastrosa campagna giustizialista contro il pdl Papa e contro il suo ex compagno Tedesco che ha mandato in cella il primo e salvato il secondo. Ricordo che il dalemiano Tedesco era stato mandato in Senato – con un’abile manovra – proprio dopo le dimissioni da assessore regionale della giunta Vendola in quanto sfiorato dalle indagini.
Del caso Penati mi colpisce maggiormente la tempistica. Egli lasciò la poltrona di sindaco di Sesto San Giovanni nel 2002: ad allora risalgono gli avvenimenti per cui è indagato. In questi dieci anni scarsi, molti giornali si sono occupati delle vicende urbanistiche di Sesto San Giovanni e del relativo, vorticoso giro d’affari. Eppure la magistratura si è mossa soltanto negli ultimi mesi. Come mai?
Da quando è entrato in politica Silvio Berlusconi, la sinistra ha avuto un solo collante: è stata il partito delle procure. Ha affidato ai pm il compito di dettare i tempi e i modi della sua strategia politica. Ha puntato a rovesciare il Cavaliere per la via delle inchieste giudiziarie, poi attraverso il gossip giudiziario (le intercettazioni su Rai e Ruby o le registrazioni della D’Addario), quindi con le sanzioni pecuniarie giudiziarie (lodo Mondadori), ultimamente con le inchieste giudiziarie a margine (le varie P3 e P4 colpiscono uomini del Pdl ma ultimamente puntano a Berlusconi).
Il pallino, dunque, non è mai stato in mano al centrosinistra, ma alla magistratura. Che oggi, mentre ritorna l’infuocato clima dell’anti-politica, dell’anti-casta, si sente le spalle coperte non più dal Pds-Ds-Pd, ma dalla stessa opinione pubblica più esasperata, da altri movimenti politici e da parte del sistema mediatico. E perché sia ben chiaro chi detiene il vero potere, mette nel mirino lo stesso Pd.
Bersani tace perché gli viene meno il principale strumento di lotta politica degli ultimi anni. E perché sa che lo tsunami-Penati terremoterà l’intero partito.

di Stefano Filippi [Fonte]
 
GLI AFFARI DEI DEMOCRATICI

Non vogliono più essere chiamate «coop rosse». I loro vertici sostengono che il collateralismo con la politica è morto con il Pci. Basterebbe scorrere i resoconti dei finanziamenti alle campagne elettorali per smentirli. Un dato per tutti: nel rendiconto 2010 del Partito democratico figurano contributi per 146mila euro stanziati dalla Legacoop Lombardia al Pd di Milano. O l’intreccio con gli organigrammi del Pci-Pds-Ds-Pd. Lo stesso Filippo Penati prima di dedicarsi interamente alla vita politica è stato insegnante, assicuratore e vicepresidente regionale dell’Associazione cooperative.
Il collateralismo la sinistra ha garantito privilegi e creato distorsioni del mercato, «muri antistorici» e «barriere all’entrata»: lo sostiene un ex manager della cooperazione rossa, Mario Frau, nel libro La coop non sei tu pubblicato l’anno scorso dagli Editori Riuniti. Questa saldatura tra politica e affari ha garantito al partito la supremazia elettorale, alle società mutualistiche (aggettivo sempre più evanescente) il monopolio commerciale, carriere mirabolanti agli uomini che attraversavano queste oliatissime porte girevoli, e una girandola di denari per tutti.
Il sistema è complesso. I capi del Partito comunista (e poi del Pds) eletti nelle pubbliche amministrazioni si facevano assumere dalle coop per raddoppiare le indennità e caricare i contributi previdenziali sull’Inps anziché sul partito. Le coop finanziano i candidati di sinistra alle elezioni ed essi, una volta eletti, ricambiano il favore con laute sovvenzioni. Fino a Tangentopoli, Botteghe Oscure ordinava alle maggiori cooperative di rilevare imprese in dissesto per non perdere voti, oppure di finanziare l’Unità e le relative feste: l’imprenditore ferrarese Giovanni Donigaglia, lasciato fallire con la sua Coop costruttori, è stato il primo a raccontare questa cinghia di trasmissione.
Le società, formalmente autonome, sono organizzate e controllate dalla Lega delle cooperative, a sua volta articolata regione per regione in modo da rendere più capillare il lavoro di lobby. Dalle aziende industriali nei settori più vari alle società finanziarie e assicurative, dalle banche alla grande distribuzione, dal commercio ai servizi sociali, l’immensa rete della cooperazione rossa vive dell’appoggio della politica e delle amministrazioni. E viceversa.
I gruppi dirigenti delle coop sono intercambiabili con i quadri di partito e i vertici delle amministrazioni locali. In una veste o nell’altra accomodano i piani regolatori, erogano appalti, sottoscrivono convenzioni, assegnano lavori, firmano contratti a trattativa privata, dispensano consulenze.
La nomenclatura è infinita. Il modenese Lanfranco Turci fu presidente della regione Emilia Romagna, presidente nazionale di Legacoop e senatore Ds. L’attuale presidente nazionale di Legacoop, Giuliano Poletti, è stato assessore all’Agricoltura a Imola e consigliere provinciale a Bologna mentre guidava Legacoop di Imola e dell’Emilia Romagna. Pierluigi Stefanini, presidente delle assicurazioni Unipol, nella sua Bologna è stato segretario del partito, consigliere comunale, presidente di Legacoop locale e di Coop Adriatica. L’ex sindaco diessino di Foligno, Giorgio Raggi, vicinissimo all’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, è presidente della Coop Centro Italia di Castiglione del Lago. Antonella Spaggiari, ex sindaco di Reggio Emilia e presidente della fondazione Manodori-Cassa di risparmio, era responsabile del settore servizi della Legacoop cittadina.
Il professore napoletano Ricciotti Antinolfi, docente di economia all’Università Federico II ed ex assessore del sindaco comunista Maurizio Valenzi, ha raccontato che dopo il terremoto in Irpinia le coop si assicuravano gli appalti «fuori da ogni competizione rapportandosi direttamente al Pci nazionale e locale».
Il cerchio si chiude con l’afflusso di denaro dalle coop al partito.
Sergio Sabattini, a lungo leader del Pci-Pds bolognese, due volte deputato e ora sindaco di Porretta Terme, lo ammise candidamente a Repubblica: «Abbiamo avuto soldi dalle coop ma non siamo corrotti. I cooperatori vengono dalla nostra storia, danno i soldi per sostenere il loro partito. È vero, non abbiamo mai badato granché a tener presenti i confini del finanziamento. Il nostro partito non può negare di aver ottenuto soldi illeciti. Ma è un reato di una natura infinitamente più modesta di quegli altri».

 Il blog di Stefano Filippi [FONTE]

Coop, manager-pentito svela gli stipendi d’oro

Caso Unipol, speculazioni, corsa al profitto: l’ex dirigente Mario Frau rende pubblici in un libro i segreti dell’organizzazione dove ha lavorato per 25 anni. I presidenti delle grandi sedi guadagnano fino a un milione l’anno e non vanno in pensione

Le coop sono organismi geneticamente modificati, centri di potere politico ed economico lontanissimi dai principi ispiratori, governati da una casta oligarchica slegata dai soci e alla ricerca del profitto a tutti i costi, al pari di una qualsiasi altra società. Non lo scrive Bernardo Caprotti, patron di Esselunga, in una riedizione di Falce e carrello ma un ex manager coop, Mario Frau, in un libro appena pubblicato dagli Editori Riuniti intitolato La coop non sei tu.

Frau ha lavorato nel movimento cooperativo per 25 anni, è stato consigliere delegato della piemontese Novacoop e membro della Direzione nazionale dell’Ancc, il massimo organo di governo del sistema. Nel 2006 ha dato le dimissioni, nauseato - spiega - da «una gestione troppo personalistica del presidente», da «operazioni immobiliari di stampo speculativo come la Spina 3 di Torino» e dall’assalto alla Bnl condotto dall’Unipol di Giovanni Consorte assieme ai «furbetti del quartierino».

Frau parla di contraddizioni, trasformazioni e degenerazioni avviate negli Anni ’80, gli anni degli spot con il Tenente Colombo, dei primi ipermercati e della finanziarizzazione del sistema. In origine, le coop garantivano ai soci servizi e prodotti a prezzi bassi e se chiudevano i bilanci in utile ne distribuivano loro una parte. Oggi invece questo «ristorno» è quasi inesistente (nel 2007 Coop Adriatica e Coop Estense hanno restituito lo 0,3 per cento del fatturato), gli utili vengono incamerati per aumentare il patrimonio e raramente i prezzi sono più bassi rispetto alla concorrenza.

Con il «prestito sociale», certifica Frau, nel 2009 le «nove sorelle» coop hanno raccolto 12 miliardi e 110 milioni di euro, una somma quasi pari al giro d’affari complessivo: l’attività finanziaria ha raggiunto quella della distribuzione alimentare. I supermercati sono filiali di una banca mai autorizzata da Bankitalia, sottratta ai relativi controlli e soggetta a un regime fiscale di favore, con investimenti in prodotti finanziari e partecipazioni in società del sistema Legacoop. La cosiddetta tutela del risparmio è in realtà un’attività finanziaria a fini di lucro, che distribuisce briciole ai soci e determina un sistema di concorrenza sleale verso le banche e le altre catene distributive, le quali per crescere devono indebitarsi a costi largamente superiori.

«Lo spirito di solidarietà e mutualità è stato sacrificato per sposare la logica del mercato, della competizione e del profitto alla pari delle imprese di capitale - dice Frau - con la differenza che queste ultime pagano le tasse sul 100 per cento degli utili, mentre le coop soltanto sul 55 per cento. Nonostante la Costituzioni tuteli la «funzione sociale» e il «carattere di mutualità e senza fine di speculazione privata», le coop non svolgono più da tempo tali funzioni avendo scelto di operare sul mercato inseguendo il profitto e la speculazione in tutti i campi dell’economia: dalle assicurazioni (Unipol e Aurora) alla grande distribuzione (marchi Coop e Conad), dal settore immobiliare e abitativo a quello delle grandi opere infrastrutturali, fino alla raccolta del risparmio su vasta scala».

Il collateralismo con Pci-Psi-Pds-Ds con le annesse corsie preferenziali nell’ottenere le autorizzazioni ha garantito privilegi e creato una distorsione del mercato, «muri antistorici» e «barriere all’entrata».

Collateralismo politico, riduzione dei benefici per i soci, vantaggi fiscali, raccolta del risparmio, regole interne che blindano contro qualsiasi ipotesi di scalata: ecco i pilastri che hanno consentito alle coop di occupare grandi spazi commerciali, sfruttando sia i vantaggi dell’economia di mercato sia quelli esclusivi delle società cooperative.

A ciò si aggiunge la casta degli intoccabili formata dai manager, con relativi stipendi: i presidenti delle grandi coop stanno nella fascia tra i 500mila e il milione di euro annuali, più i bonus che loro stessi si sono attribuiti come indennità di uscita. Anche se, invece di andare in pensione, spesso restano alla guida di società minori che assicurano gettoni e benefit vari.


 [FONTE]

Dopo quella di Consorte scoperta un’altra maxi speculazione: 300 manager Coopservice con 42 milioni in Lussemburgo. Tra i beneficiari Rinaldini, dirigente Legacoop Coop rosse, spunta un «tesoretto» all’estero!

La cooperativa emiliana possiede la maggioranza di Servizi Italia, società da poco quotata in Borsa

Il caso Consorte-Unipol ha fatto scuola nel mondo delle cooperative rosse, l’ebbrezza di forti e rapidi guadagni nei paradisi fiscali non riguarda più pochi manager di Legacoop ma ha contagiato addirittura 300 fra amministratori e soci di Coopservice, colosso di Reggio Emilia con cinquemila soci e 400 milioni di fatturato, che possiede il 60 per cento di Servizi Italia, società quotata in Borsa da tre giorni. Proprio questo collocamento ha fruttato ai 300 lungimiranti cooperatori la somma di 42 milioni di euro in Lussemburgo, un «tesoretto» esentasse assai vicino ai 50 milioni che l’ex presidente di Unipol Giovanni Consorte aveva messo da parte all’estero.
La maxi-speculazione è stata rivelata ieri dal Sole24Ore e, sia pure con meno particolari, dal quotidiano L’Informazione di Reggio, quello che esattamente un anno fa scoprì la donazione dei coniugi Prodi ai figli. I 300 in questione sono soci della finanziaria lussemburghese First Service Holding e quasi tutti anche di Coopservice. La Fsh, costituita due anni e mezzo fa, ha in carico circa cinque milioni di azioni Servizi Italia (il 40 per cento del capitale) trasferite alla vigilia della decisione di entrare a Piazza Affari al prezzo unitario di 1,149 euro. Ma il collocamento, eseguito con la consulenza di Unipol Merchant, è avvenuto a 8,5. La Fsh dunque ha realizzato una plusvalenza di 36,5 milioni.
Tra i beneficiari (per la quasi totalità persone fisiche) c’è Pierluigi Rinaldini, presidente di Coopservice e Servizi Italia e membro della direzione nazionale di Legacoop. Nella lista figurano anche la stessa Coopservice, che ha il 16,4 per cento della finanziaria lussemburghese, e altri pezzi grossi delle due società: Luciano Facchini (ex consigliere di Coopservice ed ex direttore generale di Servizi Italia), Barbara Piccirilli (vicepresidente della prima e consigliere della seconda), Enea Righi e Ilaria Eugeniani (rispettivamente amministratore delegato e consigliere della quotata). Gli altri nomi sono sconosciuti.
Nessuno sapeva di questa operazione fino all’altro giorno, quando è stato pubblicato il prospetto informativo di Servizi Italia. Coopservice acquistò Servizi Italia nel 2002, ma nel 2004 la cedette alla controllata Aurum, posseduta al 100 per cento. Un anno dopo, mentre si era già affacciata l’ipotesi della quotazione, Aurum passò il 43 per cento di Servizi Italia alla Fondazione Manodori a 1,11 euro per azione con un’opzione di riacquistare il 40 per cento a 1,149 euro. Presidente della Manodori (nata dalla Cassa di risparmio di Reggio Emilia e ora azionista di Capitalia) è Antonella Spaggiari, ex sindaco Ds nonché responsabile delle cooperative di servizi della Legacoop reggiana.
Aurum esercitò il diritto di riacquisto nel settembre dell’anno scorso in nome e per conto di Fsh, finanziaria costituita a fine 2004 nel Granducato, la quale divenne così proprietaria del 40 per cento di Servizi Italia mentre il restante 60 era ancora in mano a Coopservice. Al termine di questo complicato domino si arriva al collocamento in Borsa, con il prezzo fissato a 8,5 euro per azione: Fsh incassa 13,1 milioni di euro da Aurum (che si era impegnata a rilevare da Fsh un milione e mezzo di titoli al futuro prezzo di quotazione) e altri 28,9 milioni dall’offerta pubblica di vendita. Totale 42 milioni di euro che, a fronte di un esborso di 5 milioni e mezzo, si traduce in una plusvalenza di 36,5 milioni. La quota di Rinaldini, che avrebbe il 3 per cento di Fsh, sarebbe pari a 1,3 milioni; idem per Facchini.
 L’altro pomeriggio la direzione Legacoop di Reggio ha convocato una riunione urgente che ha espresso netto dissenso dall’operazione, accusando i vertici di Coopservice di essere venuti meno ai principi mutualistici della cooperazione.

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Scandalo coop rosse, il presidente si dimette
di Stefano Filippi nostro inviato a Reggio Emilia


Cadono le teste della Coopservice, la coop rossa reggiana al centro di una speculazione piuttosto ardita per una società mutualistica: alcune centinaia di soci (sono in tutto 5000) pilotati dai vertici hanno sfruttato la recentissima quotazione in Borsa della controllata Servizi Italia per accumulare in Lussemburgo un «tesoretto» di 36 milioni di euro esentasse. La coop è stata commissariata, presidente e vice (tra i maggiori beneficiari dell’operazione) dimissionati, tre studi legali sono stati incaricati di trovare il sistema per far rientrare le ricche plusvalenze nelle casse della holding entro un mese.
L’altro pomeriggio il consiglio di amministrazione non ha dato scampo a Pierluigi Rinaldini e Barbara Piccirilli, numeri uno e due della coop di Cavriago, che lasceranno a giugno mentre Marco Bianchini, amministratore indipendente della Servizi Italia, se ne è già andato. Al cda è passata la linea di Legacoop, presente in forze con il presidente regionale Paolo Cattabiani e provinciale Ildo Cigarini: «L’operazione lussemburghese è risultata confliggere con il sentimento e l’idea di mutualità dei cooperatori reggiani», sentenzia una nota.
In effetti è stata una speculazione finanziaria a uso di pochi: Coopservice (servizi alle imprese) compra Servizi Italia (lavaggio e sterilizzazione di materiali ospedalieri) e decide di quotarla, ma prima del collocamento sposta il 40 per cento del capitale a una finanziaria del Granducato, la First Service Holding, i cui 300 soci sono quasi tutti soci della Coopservice. Al momento dell’offerta pubblica di vendita, la Fsh incassa 8,5 euro per ogni azione Servizi Italia (quasi cinque milioni) collocata: tenuto conto che l’acquisto era avvenuto a 1,149 euro, il calcolo è presto fatto. La plusvalenza lussemburghese supera i 36 milioni di euro.
Quando Legacoop seppe, mancava ancora un mese alla quotazione ma Rinaldini ha tenuto duro, convinto che anche per le coop era giunto il tempo di sfruttare le occasioni del mercato. I capi della Lega sono stati però di diverso avviso. L’altro pomeriggio è arrivata la resa dei conti ed è passata la linea dura del repulisti, dopo cinque ore di discussione serrata conclusa dal voto unanime su un documento.
Via dunque Rinaldini (un milione 276mila euro di plusvalenza) e Piccirilli (798mila), vittime di un’operazione più da raider che da cooperatori. Cancellata l’avventura lussemburghese, ma non il «tesoretto» ancora interamente depositato nel Granducato: non si sa ancora come, ma i 36 milioni di euro (o quello che ne resterà dopo aver pagato le spese e restituito i capitali inizialmente investiti) andranno alla Coopservice. La quale caccia Rinaldini incassando però i proventi della sua operazione. Nessuna novità invece sui nomi dei 40 soci Fsh non ancora resi noti.

Scandalo coop rosse: «Restituite il tesoro»
  Contrordine compagni: la favolosa plusvalenza di oltre 36 milioni di euro esentasse realizzata in Lussemburgo da 300 soci di Coopservice dovrà essere restituita. «È stata ottenuta in modo non corrispondente ai criteri di mutualità cooperativa», tuona il presidente di Legacoop Reggio Emilia. Ildo Cigarini è furibondo. Immaginiamolo: le coop rosse stanno cercando di rifarsi l'immagine dopo le scorribande finanziarie Unipol-Consorte; nella città di Prodi hanno sede alcune delle maggiori società mutualistiche italiane (Orion, Cantine riunite, Unieco tra le altre); lo stesso Cigarini è presidente di Unibon Salumi che sta portando in Borsa i Grandi Salumifici Italiani; una coop di Reggio (Coopservice tramite Servizi Italia) sbarca a Piazza Affari prima di lui e dagli anfratti di questa operazione salta fuori una «scatola» finanziaria in Lussemburgo dalla quale sono transitati cinque milioni di azioni collocate a un prezzo sette volte superiore a quello di acquisto.

La direzione provinciale di Legacoop Reggio ha votato all'unanimità una dura reprimenda contro Pierluigi Rinaldini, numero uno di Coopservice e Servizi Italia, il quale è stato costretto a fare marcia indietro. «Inviterò tutti i soci a donare alla coop la plusvalenza e chiuderò la società del Granducato - ha annunciato a denti stretti -. Abbiamo concordato di smontare l'operazione. Non vogliamo strumentalizzazioni». La censura è arrivata dopo un'inchiesta interna condotta da una commissione di tre saggi durata un mese. Rinaldini ha resistito alle perplessità iniziali di Legacoop, alla fine però ha dovuto cedere.
A Coopservice, colosso dei servizi alle imprese (pulizia, sicurezza, logistica) con sede a Cavriago, dovrebbero andare circa 22 dei 36 milioni di euro realizzati al termine di una complessa manovra. La coop decide di quotare la controllata Servizi Italia spa di Soragna (lavanderie industriali e sterilizzazione di biancheria e strumentazione chirurgica). Attraverso una società posseduta al 100 per cento (Aurum) e un «portage» con la Fondazione Manodori (presieduta da Antonella Spaggiari, ex sindaco Ds e funzionario di Legacoop Reggio) sposta 4.945.600 azioni, il 40 per cento del capitale, nella finanziaria lussemburghese First Service Holding. Il prezzo unitario di acquisto è di 1,149 euro. Il collocamento, coordinato da Unipol Merchant Bank, è avvenuto a 8,5 euro. Fsh ha ceduto l'intero pacchetto, realizzando una plusvalenza di oltre 36 milioni di euro esentasse ed evitando le oscillazioni del titolo che in pochi giorni di quotazione è sceso a 8 euro.
Chi sono i soci di Fsh? In altre parole, chi si è arricchito con questa speculazione da raider che la stessa Legacoop considera scorretta e indegna della mutualità cooperativa? Sono gli stessi soci di Coopservice, a partire dai vertici che hanno architettato l'operazione. Coopservice possiede infatti il 16,4 per cento della finanziaria del Granducato; Rinaldini e altri amministratori o ex consiglieri raggiungono il 9,5 per cento. A Guido Maria Pedone, professionista milanese con studio a Lugano e fondatore della Fsh, è intestato un altro 10 per cento della società lussemburghese: e chissà se anche lui donerà la sua fetta di guadagno (3,6 milioni di euro) a Coopservice.
Gli altri 293 soci della First Service sono soci di Coopservice che lo scorso novembre hanno aderito a un aumento di capitale. «Lo hanno fatto in maniera libera e consapevole», dice Rinaldini. Ma il singolo socio poteva investire al massimo 2000 euro, un tetto che non valeva per i vertici.
Rinaldini, per esempio, è arrivato al 3,1 per cento della Fsh: significa una plusvalenza di 1,3 milioni di euro; la vicepresidente di Coopservice Barbara Piccirilli, ex consigliere provinciale Ds, ne ha realizzati 800mila. Ed ecco la rabbia di Cigarini: «È sbagliato che solo 300 dei 5.000 soci di Coopservice traggano vantaggio da un'operazione effettuata sulla base di uno schema gerarchico inaccettabile». Aggiunge il presidente di Legacoop Reggio che «sarebbe stato più giusto rilevare direttamente le azioni anziché usare una finanziaria lussemburghese. Doveva essere Coopservice a riacquistare le azioni dalla Manodori, così le plusvalenze sarebbero rientrate nella cooperativa».
Sul «tesoretto» l'azzurro Fabio Filippi ha presentato un'interpellanza in Regione, rilevando che Servizi Italia e Coopservice «intrattengono strettissimi rapporti con la sanità pubblica che fa capo alla Regione Emilia Romagna». Filippi chiede «la verifica dei contratti in essere» e che siano resi pubblici i nomi di tutti i soci della Fsh: «Non è un mistero per nessuno che i vertici Coopservice facciano riferimento essenzialmente ai Ds, principale partito della maggioranza che governa la Regione e occupa ogni poltrona possibile».

 Il blog di Stefano Filippi [FONTE]