venerdì 19 agosto 2011

Il caso Penati affosserà il Pd

L’inchiesta che coinvolge Filippo Penati, ex sindaco della Stalingrado d’Italia ed ex capo della segreteria di Pierluigi Bersani, avrà conseguenze pesantissime sul Partito democratico. Non penso alla cosiddetta “questione morale”, che qualche esponente del Pd comincia assai timidamente a riportare alla luce, come se dovesse rivendicare la “superiorità” di berlingueriana memoria.
Non penso nemmeno alle lotte interne al Pd, sempre più diviso su tutto e sempre meno in grado di guidare un’alternativa all’attuale maggioranza. Né mi meraviglia il silenzio dello stesso Bersani, reduce da una disastrosa campagna giustizialista contro il pdl Papa e contro il suo ex compagno Tedesco che ha mandato in cella il primo e salvato il secondo. Ricordo che il dalemiano Tedesco era stato mandato in Senato – con un’abile manovra – proprio dopo le dimissioni da assessore regionale della giunta Vendola in quanto sfiorato dalle indagini.
Del caso Penati mi colpisce maggiormente la tempistica. Egli lasciò la poltrona di sindaco di Sesto San Giovanni nel 2002: ad allora risalgono gli avvenimenti per cui è indagato. In questi dieci anni scarsi, molti giornali si sono occupati delle vicende urbanistiche di Sesto San Giovanni e del relativo, vorticoso giro d’affari. Eppure la magistratura si è mossa soltanto negli ultimi mesi. Come mai?
Da quando è entrato in politica Silvio Berlusconi, la sinistra ha avuto un solo collante: è stata il partito delle procure. Ha affidato ai pm il compito di dettare i tempi e i modi della sua strategia politica. Ha puntato a rovesciare il Cavaliere per la via delle inchieste giudiziarie, poi attraverso il gossip giudiziario (le intercettazioni su Rai e Ruby o le registrazioni della D’Addario), quindi con le sanzioni pecuniarie giudiziarie (lodo Mondadori), ultimamente con le inchieste giudiziarie a margine (le varie P3 e P4 colpiscono uomini del Pdl ma ultimamente puntano a Berlusconi).
Il pallino, dunque, non è mai stato in mano al centrosinistra, ma alla magistratura. Che oggi, mentre ritorna l’infuocato clima dell’anti-politica, dell’anti-casta, si sente le spalle coperte non più dal Pds-Ds-Pd, ma dalla stessa opinione pubblica più esasperata, da altri movimenti politici e da parte del sistema mediatico. E perché sia ben chiaro chi detiene il vero potere, mette nel mirino lo stesso Pd.
Bersani tace perché gli viene meno il principale strumento di lotta politica degli ultimi anni. E perché sa che lo tsunami-Penati terremoterà l’intero partito.

di Stefano Filippi [Fonte]
 
GLI AFFARI DEI DEMOCRATICI

Non vogliono più essere chiamate «coop rosse». I loro vertici sostengono che il collateralismo con la politica è morto con il Pci. Basterebbe scorrere i resoconti dei finanziamenti alle campagne elettorali per smentirli. Un dato per tutti: nel rendiconto 2010 del Partito democratico figurano contributi per 146mila euro stanziati dalla Legacoop Lombardia al Pd di Milano. O l’intreccio con gli organigrammi del Pci-Pds-Ds-Pd. Lo stesso Filippo Penati prima di dedicarsi interamente alla vita politica è stato insegnante, assicuratore e vicepresidente regionale dell’Associazione cooperative.
Il collateralismo la sinistra ha garantito privilegi e creato distorsioni del mercato, «muri antistorici» e «barriere all’entrata»: lo sostiene un ex manager della cooperazione rossa, Mario Frau, nel libro La coop non sei tu pubblicato l’anno scorso dagli Editori Riuniti. Questa saldatura tra politica e affari ha garantito al partito la supremazia elettorale, alle società mutualistiche (aggettivo sempre più evanescente) il monopolio commerciale, carriere mirabolanti agli uomini che attraversavano queste oliatissime porte girevoli, e una girandola di denari per tutti.
Il sistema è complesso. I capi del Partito comunista (e poi del Pds) eletti nelle pubbliche amministrazioni si facevano assumere dalle coop per raddoppiare le indennità e caricare i contributi previdenziali sull’Inps anziché sul partito. Le coop finanziano i candidati di sinistra alle elezioni ed essi, una volta eletti, ricambiano il favore con laute sovvenzioni. Fino a Tangentopoli, Botteghe Oscure ordinava alle maggiori cooperative di rilevare imprese in dissesto per non perdere voti, oppure di finanziare l’Unità e le relative feste: l’imprenditore ferrarese Giovanni Donigaglia, lasciato fallire con la sua Coop costruttori, è stato il primo a raccontare questa cinghia di trasmissione.
Le società, formalmente autonome, sono organizzate e controllate dalla Lega delle cooperative, a sua volta articolata regione per regione in modo da rendere più capillare il lavoro di lobby. Dalle aziende industriali nei settori più vari alle società finanziarie e assicurative, dalle banche alla grande distribuzione, dal commercio ai servizi sociali, l’immensa rete della cooperazione rossa vive dell’appoggio della politica e delle amministrazioni. E viceversa.
I gruppi dirigenti delle coop sono intercambiabili con i quadri di partito e i vertici delle amministrazioni locali. In una veste o nell’altra accomodano i piani regolatori, erogano appalti, sottoscrivono convenzioni, assegnano lavori, firmano contratti a trattativa privata, dispensano consulenze.
La nomenclatura è infinita. Il modenese Lanfranco Turci fu presidente della regione Emilia Romagna, presidente nazionale di Legacoop e senatore Ds. L’attuale presidente nazionale di Legacoop, Giuliano Poletti, è stato assessore all’Agricoltura a Imola e consigliere provinciale a Bologna mentre guidava Legacoop di Imola e dell’Emilia Romagna. Pierluigi Stefanini, presidente delle assicurazioni Unipol, nella sua Bologna è stato segretario del partito, consigliere comunale, presidente di Legacoop locale e di Coop Adriatica. L’ex sindaco diessino di Foligno, Giorgio Raggi, vicinissimo all’ex governatrice umbra Maria Rita Lorenzetti, è presidente della Coop Centro Italia di Castiglione del Lago. Antonella Spaggiari, ex sindaco di Reggio Emilia e presidente della fondazione Manodori-Cassa di risparmio, era responsabile del settore servizi della Legacoop cittadina.
Il professore napoletano Ricciotti Antinolfi, docente di economia all’Università Federico II ed ex assessore del sindaco comunista Maurizio Valenzi, ha raccontato che dopo il terremoto in Irpinia le coop si assicuravano gli appalti «fuori da ogni competizione rapportandosi direttamente al Pci nazionale e locale».
Il cerchio si chiude con l’afflusso di denaro dalle coop al partito.
Sergio Sabattini, a lungo leader del Pci-Pds bolognese, due volte deputato e ora sindaco di Porretta Terme, lo ammise candidamente a Repubblica: «Abbiamo avuto soldi dalle coop ma non siamo corrotti. I cooperatori vengono dalla nostra storia, danno i soldi per sostenere il loro partito. È vero, non abbiamo mai badato granché a tener presenti i confini del finanziamento. Il nostro partito non può negare di aver ottenuto soldi illeciti. Ma è un reato di una natura infinitamente più modesta di quegli altri».

 Il blog di Stefano Filippi [FONTE]