domenica 27 febbraio 2011

Tortora, dopo 22 anni ecco un’altra ingiustizia

Quando avremo in questa nostra Italia martoriata da una esigua casta di funzionari e politicanti una gIUSTIZIA degna di tale nome?
Quando avremo dei veri politici capaci rappresentare il meglio degli italiani che meritano di essere amministrati saggiamente e nell'interesse di tutti e non dei pochi amici degli amici.

Ecco una storia che poteva succedere soltanto qui in Italia!

I giornalisti Jannuzzi e De Gregorio (oggi senatore Pdl) condannati a versare 280mila euro al giudice che inquisì l’ex volto tv, poi assolto. La colpa? Aver raccontato un processo orrore.

Ventisette anni dopo l’arresto di Enzo Tortora la seconda sezione civile del Tribunale di Napoli ha condannato Lino Jannuzzi e Sergio De Gregorio a pagare, in solido tra di loro, la somma di 150mila euro, più gli interessi calcolati a partire dal 1991 (in tutto 280mila euro) a favore di Giorgio Fontana, il giudice istruttore che ha gestito l’inchiesta su Tortora e che si era poi dimesso dalla magistratura in polemica con il Csm, che aveva aperto un procedimento disciplinare su di lui e sui due pm del processo Lucio Di Pietro e Felice di Persia (procedimenti che poi finirono nel nulla) e che ora fa l’avvocato a Napoli. In questa veste Fontana aveva già querelato Lino Jannuzzi in sede penale, ne aveva ottenuta la condanna e ne aveva già riscosso un risarcimento di diversi milioni di lire. Sergio De Gregorio, attualmente senatore del Pdl, è stato cronista giudiziario de Il Giornale di Napoli, di cui Lino Jannuzzi è stato direttore, e in occasione della morte di Enzo Tortora, stroncato dal cancro il 20 maggio 1988, aveva scritto un articolo su Tortora, su Fontana e sul processo. Per quell’articolo l’autore e il direttore del giornale sono stati condannati oggi, ventidue anni dopo.
L’INIZIO DELL’INCUBO
Enzo Tortora fu arrestato alle quattro del mattino, mentre dormiva all’Hotel Plaza di Roma, venerdì 17 giugno 1983. Fu portato in questura e vi fu trattenuto fino alle undici, nonostante fosse stato colpito da collasso cardiaco, prima di trasferirlo a Regina Coeli: il tempo necessario perché la notizia del suo arresto si diffondesse e si raccogliesse dinanzi alla questura una folla di giornalisti e di fotografi.
L’ordine di arresto per associazione a delinquere di stampo camorristico era stato spiccato dalla procura di Napoli sulla base delle accuse partite da due «pentiti», Pasquale Barra e Giovanni Pandico. Pasquale Barra, detto «’o animale», è un feroce assassino, famoso per avere ucciso in carcere Francis Turatello, per avergli sventrato a calci il torace e strappato il cuore per poi mangiarselo. Giovanni Pandico «o pazzo», dichiarato psicolabile e paranoico, è entrato e uscito dai manicomi giudiziari, ha sparato al padre, ha avvelenato la madre, ha dato fuoco alla fidanzata, ha fatto una strage nel municipio del suo paese, ha sparato al sindaco e alle guardie e ha ucciso gli impiegati che tardavano a consegnargli il certificato di nascita.
LA GRANDE RETATA
Sulla base delle dichiarazioni di questi due «pentiti», vennero spiccati 855 mandati di cattura e quel «venerdì nero» vennero arrestati assieme a Tortora 412 presunti camorristi (gli altri quattrocento erano già in carcere). Ma 87 di costoro saranno scarcerati perché arrestati per sbaglio, per «omonimia». Comunque la maggior parte degli arrestati sono personaggi sconosciuti e ignoti. Ma l’operazione viene fin dall’inizio presentata dagli inquirenti, e gonfiata dalla maggioranza dei compiacenti giornalisti, come una «crociata», la «guerra alla camorra», il colpo mortale inferto alla «nuova camorra organizzata» di Raffaele Cutolo.
Ma gli inquirenti accreditano le voci, sempre amplificate dai giornalisti, che nella rete sono caduti personaggi «insospettabili». Quando si tireranno le somme si vedrà che codesti «insospettabili» si riducono a una manciata di mediocri personaggi, quattro o cinque sui quattrocento arrestati. L’unico personaggio noto e conosciuto e «insospettabile» tra gli arrestati è Enzo Tortora, e questa è la radice delle sue disgrazie e dell’accanimento che si scatena contro di lui. Ed è la ragione per cui la «crociata», lo storico «processo alla camorra», finisce per diventare fatalmente il processo a Enzo Tortora, e come tale verrà vissuto, discusso e ricordato.
Dopo sei mesi dall’arresto Tortora venne messo a confronto con due nuovi «pentiti»: Gianni Melluso, detto «Cha cha cha», che racconta di aver consegnato a Tortora pacchi di cocaina agli angoli delle strade di Milano, e Andrea Villa, che viene introdotto nella stanza dell’interrogatorio con la testa coperta da un cappuccio nero e afferma di aver visto Tortora a Milano a pranzo e a cena con Francis Turatello, di cui Villa faceva il guardaspalle. Mano a mano che si va avanti, e tanto più che mancano sempre più i riscontri, aumenta il numero dei «pentiti» che accusano Tortora. Alla fine se ne conteranno una ventina.
I «PENTITI» A COMANDO
Michele Morello, il giudice che ha scritto la sentenza con cui in appello Tortora verrà poi assolto, ha severamente censurato il sistema con cui i nuovi «pentiti» venivano ammaestrati. Si procedeva così: si prendevano i presunti «affiliati» indicati da Barra o da Pandico o da Melluso, e li si rinchiudeva nella stessa caserma, la famosa caserma Pastrengo, dove erano rinchiusi Barra, Pandico e Melluso, e la notte si lasciavano aperte le porte delle celle, in modo che i nuovi arrivati potessero «fraternizzare», magari banchettando e sbevazzando, con coloro che li avevano indicati, e questi potessero «ragionare» e istruirli e convincerli ad accusare Tortora. Sui giornali di quei giorni si poteva leggere tranquillamente che per Melluso, «Gianni il bello», in caserma era stata allestita una specie di garconnière con ragazze e champagne.
GLI INTERROGATORI
Tortora fu interrogato solo dopo settimane di cella di isolamento. In tutto lo interrogheranno per tre volte. Al primo interrogatorio tirano fuori la storia dei centrini: un camorrista detenuto, Domenico Barbaro, ha spedito dal carcere a Tortora, perché li mostrasse ai telespettatori di «Portobello», certi centrini da lui stesso ricamati in cella. Ma i centrini si persero nei meandri della Rai e non furono mostrati in video. Spuntano allora delle lettere di Barbaro a Tortora in cui il camorrista si lamenta: rivuole indietro i centrini o li vuole pagati. Secondo gli inquirenti è la prova del traffico di stupefacenti: i «centrini» starebbero per «cocaina». Si scoprirà alla fine che le lettere a «Portobello» per conto di Barbaro le ha scritte Pandico, che è stato Pandico a combinare con Barbaro il trucco della trasformazione dei centrini in cocaina e poi a raccontare la storiella agli inquirenti.
Al secondo interrogatorio gli inquirenti si presentano a Tortora, dopo qualche mese, con in mano una «prova schiacciante» della sua affiliazione alla camorra. Nella agendina sequestrata a Giuseppe Puca, detto «’o giappone», uno dei più feroci killer di Cutolo, hanno trovato il nome di Enzo Tortora con due numeri di telefono. A condurre l’interrogatorio è personalmente il giudice istruttore Giorgio Fontana, il cui onore sarebbe stato offeso dall’articolo di Sergio De Gregorio sul giornale diretto da Lino Jannuzzi in occasione della morte di Tortora. Ma un giorno si presenta in procura una signora: mi chiamo Catone Assunta, dice, e sono la donna di Puca, questa agendina che avete sequestrata a casa di Puca non è la sua ma la mia, potete controllare, ci sono i numeri dei miei parenti e delle mie amiche, e questi due numeri dove avete letto «Enzo Tortora», io ho scritto, la grafia è mia, «Enzo Tortona». È un mio amico di Caserta, il prefisso è 0823, provate a chiamare.
Al primo interrogatorio hanno scambiato centrini per cocaina, al secondo interrogatorio hanno letto «Tortora» per «Tortona», al terzo interrogatorio l’inquisizione napoletana porta come testimone Gianni Melluso, un balordo, un ladruncolo di periferia, che ha già collezionato un bel po’ di condanne per truffe e rapine, in genere non riuscite.
IL VALZER DELLE SENTENZE
È sulla base di «pentiti» come questi e delle storie da loro raccontate che, dopo sette mesi di dibattimento e 225 udienze, il 17 dicembre del 1985, due anni e mezzo dopo il blitz del venerdì nero, i giudici di Napoli hanno condannato Enzo Tortora a dieci anni e sei mesi di carcere.
Meno di un anno dopo, il 15 settembre del 1986, Tortora è stato assolto in appello con formula piena. Con lui sono stati assolti altri 131 imputati, che con i 102 assolti in primo grado fanno 233 e con i 70 assolti nel secondo troncone salgono a oltre 300, senza contare gli 87 «omonimi» arrestati e poi liberati: fanno quasi tre quarti della grande retata.
Otto mesi dopo, il 18 maggio del 1987, la Cassazione completerà l’opera, confermando l’assoluzione di Tortora e degli altri 131 e annullando un altro po’ di condanne.
Nel frattempo Tortora era stato candidato dai Radicali alle elezioni europee, quando era ancora agli arresti domiciliari, ed era stato eletto con 800mila voti di preferenza, ma si era dimesso, sollecitando personalmente dal Parlamento europeo l’autorizzazione all’arresto, era tornato in Italia e si era «consegnato» alla polizia a Milano, in piazza del Duomo, la vigilia di Natale.
Un anno dopo la sentenza della Cassazione Tortora morirà, stroncato da un tumore: «In quelle orrende mura del carcere - dirà nell’ultima sua apparizione in televisione collegato dal suo letto nell’ospedale - mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro...». È il 20 maggio del 1988,e per l’occasione il cronista giudiziario de Il Giornale di Napoli, diretto da Lino Jannuzzi, ha rievocato le vicende del processo. Ventidue anni dopo altri giudici, sempre di Napoli, hanno condannato il cronista e il direttore a pagare.
INSULTATO ANCHE DA MORTO
A Gianni Melluso è andata meglio. Dopo avere calunniato impunemente il vivo, prese a calunniare il morto. Nel novembre del 1992, quattro anni dopo la morte di Tortora, il settimanale Gente pubblicò una sua intervista sotto il titolo: «Gianni Melluso esce dal carcere e insiste: Tortora era colpevole». Dice proprio così: «Io gli davo la droga e lui mi pagava». Le figlie di Tortora sporsero querela per calunnia. Due anni dopo la pubblicazione dell’intervista e la querela, il gip del tribunale civile e penale di Milano Clementina Forleo respinge la querela, condannando le figlie di Tortora alle spese processuali, e motiva: «La sentenza di assoluzione del Tortora rappresenta soltanto la verità processuale sul fatto-reato a lui attribuito e non anche la verità reale del fatto storicamente verificatosi».
Due mesi dopo, l’allora sostituto procuratore generale della Repubblica a Milano Elena Paciotti, che poi sarà membro del Csm, presidente dell’Associazione magistrati e infine deputato europeo nelle liste Pd-Pds, respinge l’istanza di apertura del procedimento con questa motivazione: «L’assoluzione di Enzo Tortora con formula piena non è conseguenza della ritenuta falsità delle dichiarazioni di Gianni Melluso e di altri chiamanti in correità, ma della ritenuta inidoneità delle stesse a contribuire valida prova d’accusa...».
L’ULTIMO SFREGIO
Nessuno dei «pentiti» sbugiardati è stato incriminato, processato e condannato per calunnia. Nessuno dei magistrati che hanno gestito l’inchiesta è stato inquisito e punito dal Csm. Anzi, hanno fatto tutti una splendida carriera. Nessun risarcimento è stato riconosciuto ad Enzo Tortora o ai suoi eredi. Anzi, le sue figlie hanno dovuto pagare le spese per la querela fatta a Melluso. I giornalisti (pochi) che hanno raccontato e denunciato i misfatti del processo sono stati condannati a risarcire lautamente i magistrati «per avere offeso la loro reputazione». 

 [Fonte]
 


Restando sul tema case...

Nella Bibbia c'è scritto:  " (...) ma non fate secondo le loro opere, perché dicono e non fanno".(Matteo 3.23)
Oppure: Fai quello che prete dice e non quello che prete fa.
Questo proverbio è citato da Celestino V ne <> di Silone.

Casa a prezzo scontato, spunta la Finocchiaro.
La senatrice PD ha acquistato a Roma un appartamento dalla Cassa del notariato: 30% in meno sul valore reale e senza averne i requisiti.
Alla fine c'è cascata anche Anna Finocchiaro. La capogruppo del Pd al Senato poco meno di un anno fa ha comprato un appartamento di 180 metri quadrati sul colle che sale sopra San Pietro, dietro la Gregorio VII, a Roma. Fin qui niente di male, perché dopo 24 anni a fare la spola tra la Capitale e la natia Sicilia è normale che la papavera del centrosinistra abbia scelto di rendersi la vita più facile. Un po' troppo comoda, però, visto che per l'appartamento ha speso 745mila euro, prezzo più che di favore visto zona e metratura (in più, altri 45mila euro per un box auto). L'investimento a prezzo speciale, fatto per le figlie, che risultano acquirenti dell’immobile, ma con usufrutto per la senatrice ed il marito Melchiorre Fidelbo, rientra a pieno titolo nel faldone dell'Affittopoli (in questo caso vendopoli) romana. Perché a cedere casa e box è stata il 17 maggio scorso la Cassa nazionale del notariato, ultimo atto di una campagna di vendita del proprio patrimonio immobiliare.
Primo problema: la Finocchiaro ha pagato poco più di 4.000 euro al metro quadrato, contro la media di circa 6.400 euro nella zona. Vale a dire, circa il 30% in meno rispetto ai valori di mercato. Capita, come sottolina oggi su Libero Franco Bechis, quando si compra dagli enti previdenziali.
Ecco il secondo problema: di solito, lo 'sconto' è riservato agli inquilini o a notai. Ma la famiglia Finocchiaro-Fidelbo non ha mai abitato in quella casa né risulta abbia legami parentali con alcun notaio. Tutt'al più, la Finocchiaro per carriera politica ha maturato ottimi rapporti di amicizia con l'ex presidente dei notai Gennaro Mariconda e, presumibilmente, con il direttore della Cassa che le ha venduto l'appartamento, Valter Pavan. Che, tra l'altro, ha acquistato un appartamento nello stesso palazzo.

[Fonte]

sabato 26 febbraio 2011

Case regalate e prestiti: tutti i record di Di Pietro

Come sempre pubblico con piacere quanto scrive Filippo Facci, uno dei pochi giornalisti, se non l'unico, che conosce  a menadito il passato dell'ex tutto Di Pietro. 

  Il leader Idv protesta al Trivulzio e sente odore di nuoiva Tangentopoli. Ma si scorda il suo passato...

«Gheddafi!, Noriega!, Hitler!, Videla!, Dracula!, Nerone!, Pilato!, Erode!, Saddam!, Vanna Marchi!, nazista!, fascista!, razzista!, piduista!, antisemita!, mafioso!, serpente a sonagli!». A tutte le volanti, attenzione, si segnala la presenza di un pazzo urlante che si dirige in direzione Sud Milano: dovrebbe trattarsi del noto Di Pietro Antonio, parlamentare della Repubblica, figuro che ha già preannunciato i propri movimenti a mezzo di apposito comunicato: «Lunedì 28 febbraio, alle 10,30, organizzerò un presidio davanti la sede del Pio Albergo Trivulzio. Vado per testimoniare che in 19 anni non ho mai mollato il mio impegno civile rispetto a quello che ritengo sia il problema dell’Italia, la legalità. E per denunciare che dalla lezione del Trivulzio la politica non ha tratto nessun insegnamento per modificare i propri comportamenti (Sic! NdB)».
Qui centrale, a tutte le volanti: alla luce del predetto comunicato è perciò possibile vaticinare il percorso che il Di Pietro seguirà da qui al citato 28 febbraio; i turni di sorveglianza andranno di conseguenza organizzati tenendo conto delle future probabili tappe:

A tutte le volanti
1) Passaggio romano in via Principe Eugenio, dove il Di Pietro nel 2005 acquistò un appartamento di 235 metri quadri (costo: 1.045.000 euro) e poi lo affittò al Partito per una cifra che andava a coprire e superare la rata mensile del mutuo che intanto aveva acceso: il Di Pietro cioè affittava ad Antonio Di Pietro che pagava coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti. In concreto: Di Pietro, con il denaro pubblico del partito, cioè dei contribuenti, comprava casa per sé. In seguito ad articoli di stampa e interpellanze parlamentari che scopriranno l’altarino, il Di Pietro nel 2007 deciderà di vendere l’immobile a 1.115.000 euro.
2) Passaggio bergamasco via Antonio Locatelli, in pieno centro, dove il Di Pietro nel 2006 acquistò un appartamento di 178 metri quadri (costo: 261.661 euro, un incredibile affare regalato dalla cartolarizzazione degli immobili dell’Inail) per poi ancora affittarlo al partito Italia dei Valori, cioè a se stesso, che lo ripagò con soldi pubblici.
3) Passaggio milanese in via Andegari, angolo via Manzoni, presso lussuosa palazzina in affitto: il Di Pietro la ottenne dal Fondo Pensioni Cariplo nel 1991 con canone cosiddetto equo di 234 mila lire il mese, comprese le spese di ristrutturazione. L’appartamento fu poi passato al figlio Cristiano - procedura irregolare, perché il contratto proibiva ogni genere di subaffitto - e l’assegnazione ebbe luogo non solo ignorando la prevista graduatoria d’attesa, ma saltando di netto anche l’apposita commissione affittanze: questo grazie al cordiale appoggio dell’allora sindaco Paolo Pillitteri e del vicepresidente Cariplo Sergio Radaelli, già cassiere socialista.
4) Passaggio milanese in via Felice Casati, dove il Di Pietro nel 2004 acquistò un appartamento di 188 metri quadri (costo: 614.500 euro) e subito dopo lo affittò al partito Italia dei Valori per 2800 euro al mese, cifra che andava a coprire e superare la rata mensile del mutuo che intanto aveva acceso: lo stesso schema seguito sopra. Di Pietro, con il denaro pubblico del partito, cioè dei contribuenti, comprava casa per sé.

Camaleontico
Qui centrale, a tutte le volanti, si tenga conto che il suddetto percorso è suscettibile di cambiamenti: avendo il Di Pietro genericamente parlato di comportamenti poco ortodossi della classe politica - ergo di prebende e di privilegi favoriti dal potere ottenuto - è possibile che il citato, prima di passare al Trivulzio per cospargersi il capo di cenere, possa modificare il proprio pellegrinaggio anche in virtù dei seguenti riferimenti personali: cento milioni senza interessi presi in prestito dall’imprenditore inquisito (allora) Giancarlo Gorrini, soldi restituiti con assegni circolari poi incassati e avvolti in carta di giornale poco prima di dimettersi nel 1994; altri cento milioni senza interessi dall’imprenditore inquisito (allora) Antonio D’Adamo, soldi restituiti nel 1995 in una scatola da scarpe; decine o centinaia di milioni (cifra imprecisata) ottenuti per il pagamento del debito dell’amico Eleuterio Rea (da Gorrini, D’Adamo e Franco Maggiorelli); una Mercedes Ce da 65 milioni (da Gorrini) rivenduta all’avvocato Giuseppe Lucibello per 20 milioni (cinquanta, secondo una sentenza bresciana) con i quali il magistrato si è poi comprato una Fiat Tipo bianca, soldi che sono stati restituiti con assegni circolari emessi nel maggio 1994 ma incassati in novembre; una Lancia Dedra la moglie (da D’Adamo); utilizzo stabile di una garçonnière dietro piazza Duomo (da D’Adamo) fino all’inizio del 1994; utilizzo di una suite da 5-6 milioni al mese, per almeno un anno e mezzo, al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto (da D’Adamo) a partire dall’89; ottenimento di pacchetti di pratiche legali per la moglie di Di Pietro (da Gorrini); altre consulenze legali per la moglie (da D’Adamo) con contratti di consulenza per complessivi sessantadue milioni; impiego del figlio, due volte, alla Maa (da Gorrini); vestiario di lusso nelle boutique Tincati, Fimar e Hitman di Milano (da D’Adamo) con taglia drop 56; un telefono cellulare per sé (da D’Adamo) e poi un altro intestato al suo collaboratore Rocco Stragapede (da D’Adamo): almeno quindici biglietti aerei Milano-Roma (da D’Adamo); ombrelli, agende, penne e cartolame vario (da Gorrini); stock di calzettoni al ginocchio (da Gorrini); viaggi in jet privato per partite di caccia in Spagna, Polonia e nella riserva astigiana di Giovanni Conti (da Gorrini); una libreria destinata alla casa di Curno (acquistata tramite D’Adamo).
A tutte le volanti, forse è meglio raddoppiare i turni di sorveglianza.

di Filippo Facci, 26/02/2011

Mastella alla gogna, il governatore Vendola no

Possiamo dire d'avere una giustizia, equa, imparziale e corretta che funziona in Italia? Pare proprio di no!


Mastella alla gogna, il governatore no 

Per la medesima fattispecie di reato la legge si applica oppure si «interpreta», a seconda della provenienza politica dell’indagato. A questa desolante constatazione si arriva dopo aver raffrontato le conclusioni dell’inchiesta sulla sanità a Bari (dov’è coinvolto il Pd e dove esce malconcio il governatore Nichi Vendola) con l’inchiesta sulla sanità in Campania, che ha travolto i coniugi Mastella. Due pesi, due misure, due differenti decisioni dei giudici: per i politici pugliesi impegnati a gestire e occupare ogni tassello del comparto sanitario, il rischio è una tirata d’orecchie o poco più; per Clemente Mastella e la consorte Sandra Lonardo, invece, il rinvio a giudizio scatta in automatico. Eppure sia a Bari che a Napoli l’oggetto del contendere è il medesimo: posti e poltrone, nomine di primari, pressioni sui dirigenti Asl.
Leggere per credere. Prendete quel che è successo all’ex Guardasigilli, che qualche giorno fa si è ritrovato davanti al giudice dell’udienza preliminare napoletano per difendersi da accuse relative a fatti ritenuti illeciti, per molti versi simili, se non identici, a quelli che spuntano qua e là nell’ordinanza che ha chiesto l’arresto per il senatore Alberto Tedesco. L’imputato Mastella, infatti, nel suo processo si è ritrovato a ricoprire una posizione incomprensibile. Nella dichiarazione spontanea rilasciata al gup, il padre dell’Udeur si è difeso con rabbia e sarcasmo negando d’aver fatto pressioni nei confronti di un direttore generale per far diventare primario un determinato medico. Non solo. Mastella ha dimostrato di non avere la più pallida idea di chi fosse quel medico, di non averci mai parlato, insomma, di non averlo mai conosciuto, nemmeno per interposta persona. Lo stesso direttore generale, oggetto della presunta concussione, ha negato di aver ricevuto telefonate o pressioni dal politico di Ceppaloni. Non solo. Nel corso dell’udienza s’è scoperto che quel primario non poteva esser stato destinatario di interessamenti e raccomandazioni politiche perché… primario già lo era. Per una non notizia di reato, nemmeno supportata da uno straccio di intercettazione, Mastella è ancora appeso alla decisione del gup. Mentre nei confronti di Vendola - per dire – l’archiviazione è arrivata ieri nonostante la fastidiosa mole di intercettazioni che portò i carabinieri a ipotizzare numerosi episodi di concussione (anche tentata) «per aver imposto nel maggio 2008 ai direttori generali delle Asl e di differenti presidi ospedalieri pugliesi le nomine dei direttori amministrativi e sanitari, nonché di primari di strutture operative complesse al fine di rafforzare la presenza della propria coalizione politica nelle istituzioni».
A leggere bene l’ordinanza del gip, il doppiopesismo col caso Mastella appare smaccato. «La prassi politica dello spoil system era talmente imperante da indurre Vendola, pur di sostenere alla nomina di direttore generale un suo protetto, addirittura il cambiamento di una legge per superare, con una nuova legge ad usum delphini, gli ostacoli che la norma frapponeva». Rispondendo a Tedesco che gli faceva presente come il suo protetto non avesse i requisiti, Vendola dice: «O madonna santa, ma la legge non la possiamo modificare?». Anche se il Governatore pugliese ieri ha sostenuto che quella frase era «dovuta» al passaggio di competenze nel settore da Stato a Regione, non osiamo immaginare cosa sarebbe successo a un Mastella qualunque che avesse ipotizzato, sotto intercettazione, una tentativo di prefabbricarsi una legge ad personam. In un altro processo all’ex Guardasigilli è stata contestata la concussione per una nomina all’Asi di Benevento che il «concusso» Bassolino, mai interrogato, ha dichiarato essere di natura politica. Al processo principale di Mastella i pm sono arrivati a equiparare l’Udeur a un’associazione per delinquere perché, in modo sistematico, faceva della raccomandazione una concussione continua. Insomma: c’è concussione e concussione. Vendola che arriva a pensare di cambiare una legge per raccomandare il suo protetto, non rischia niente. Gianfranco Fini che raccomanda la suocera al dirigente Rai Guido Paglia, nemmeno. Mastella che nega d’aver fatto pressioni per nominare primario uno sconosciuto che primario già lo era, è alla gogna. Da anni.


GMC-MMO


mercoledì 23 febbraio 2011

L'accordo segreto fra Di Pietro e i Verdi


 L'ex tutto e quelli che non vorrebbero fare nuilla purchè si salvaguardi la natura lasciando al loro destino le persone hanno deciso di unire i loro destini... elettorali.  



C'é un accordo, finora segreto, tra Idv e Verdi. 

Siglato da Antonio Di Pietro e Angelo Bonelli con i luogotenenti Silvana Mura e Francesco Borrelli, prevede liste comuni alle politiche per parare l'egemonia del Pd di Pier Luigi Bersani sul centrosinistra e l'avanzata di Nichi Vendola.

In comune anche i referensdum contro il nucleare e il sostegno ai recipsroci candidati sindaci. 
A cominciare da Luigi De Magistris a Napoli. 


Dimenticano i lor signori che gli italiani non sono fessi!


 [Fonte

domenica 20 febbraio 2011

Ultimo pezzo del trittico riservato alla questione procura di Milano Vs Berlusconi

IL TRAVAGLIO DEI DALEMONI - MARCOLINO AD ALZO ZERO CONTRO L’AVVOCATO GUIDO CALVI (OGGI MEMBRO LAICO DEL CSM IN QUOTA PD), CHE SULLE INTERCETTAZIONI del caso ruby SEMBRA IL VENTRILOQUO DEI BERLUSCONES (al pari di luciano VIOLANTE) - “VIOLAZIONI, ABUSI, UTILIZZAZIONI DISTORTE DA PARTE DI ALCUNI MAGISTRATI SONO REATI, E VISTO IL SUO RUOLO, FACCIA NOMI E DENUNCE O STIA ZITTO…”

 
Guido Calvi

Marco Travaglio per "Il Fatto Quotidiano"
   
"Quello delle intercettazioni... uno strumento di indagine essenziale per scoprire reati gravi, è stato poi soggetto ad abusi e utilizzazioni distorte da parte di alcuni magistrati. E spesso ha finito per coinvolgere e screditare la privacy di persone completamente estranee alle indagini. Un ulteriore arbitrio è stato poi compiuto da parte dei giornali, che hanno divulgato in maniera abnorme il loro contenuto, violando la dignità e l'immagine di molti cittadini.
Non credo affatto che esista un dovere per il giornalista di pubblicare ogni cosa... La 'formazione della prova'... rischia di essere influenzata proprio dalla simbiosi, dallo scambio reciproco di documenti fra magistrati e giornalisti, che va ben al di là del circuito mediatico-giudiziario di Mani Pulite".
Chi l'ha detto? Un berlusconiano in servizio permanente effettivo? No, l'avvocato Guido Calvi, già parlamentare Ds, già difensore di Massimo D'Alema e di altri esponenti ex comunisti, ora membro laico del Csm in quota Pd, intervistato dal Riformista sulle analoghe affermazioni fatte al Corriere della Sera da Luciano Violante (responsabile Istituzioni del Pd) fra gli applausi dei berluscones, Il Foglio di Giuliano Ferrara in testa. Cose che capitano - si dirà - quando nell'organo di autogoverno della magistratura, anziché giuristi di chiara fama e provata indipendenza, il Parlamento paracaduta gli avvocati dei leader politici.

 
MARCO TRAVAGLIO
 
Proprio in questi giorni un altro membro laico, l'avvocato Matteo Brigandì, ex parlamentare della Lega, ex difensore di Bossi, è sospettato di aver passato al Giornale gli atti segreti di un vecchio procedimento disciplinare su Ilda Boccassini. Il caso Calvi, del tutto diverso dal caso Brigandì, tiene banco nelle mailing list dei magistrati, molti dei quali chiedono ai membri togati del Csm di pretendere spiegazioni dal collega "laico".
Il Csm, infatti, non solo dovrebbe tutelare e non screditare la magistratura con accuse generiche. Ma, essendo depositario del potere disciplinare, dovrebbe giudicare le eventuali infrazioni deontologiche dei singoli magistrati.
Ora, gli "abusi" di intercettazioni e le "utilizzazioni distorte da parte di alcuni magistrati" denunciati da Calvi non sono soltanto passibili di azioni disciplinari: sono addirittura reati, esattamente come il presunto "scambio reciproco di documenti fra magistrati e giornalisti", che configurerebbe una violazione del segreto investigativo, tanto più grave in quanto commesso da chi quel segreto dovrebbe tutelare. La domanda - che si rincorre nelle mail di molte toghe - è semplice: quali prove ha Calvi che questo o quel magistrato "scambi" carte segrete con questo o quel giornalista?
 
D'Alema 
 
E, se le ha, perché non fa i nomi e i cognomi, magari in un bell'esposto ai titolari dell'azione disciplinare, cioè il ministro della Giustizia e il Procuratore generale della Cassazione? A quali casi concreti si riferisce? Se invece non ha prove e non fa nomi e non cita casi concreti, allora la sua intervista al Riformista è un'altra fascina di legna, l'ennesima, portata al fuoco della delegittimazione della magistratura. Come se ce ne fosse bisogno.
Lo stupore di molti magistrati, comunque, non riguarda soltanto lo sparare nel mucchio dell'avvocato dalemiano. Ma anche l'assenza di reazioni da parte dell'Associazione nazionale magistrati, dei leader delle varie correnti della magistratura associata e dei membri togati del Csm, così giustamente reattivi quando simili attacchi e insinuazioni partono da ambienti governativi. Peraltro, in un altro passo dell'intervista, Calvi se la prende direttamente con i pm milanesi del caso Berlusconi-Ruby: "Quanto all'inchiesta della Procura milanese, mi domando quale fosse l'urgenza di conoscere e pubblicare le carte, visto che i pm hanno chiesto il giudizio immediato".

 
LUCIANO VIOLANTE
 
E qui pare davvero di sognare: non sa, il consigliere Calvi, che le carte dell'inchiesta (peraltro solo una minima parte) si sono conosciute soltanto perché la Procura, come prevede la legge, ha dovuto chiedere l'autorizzazione alla Camera per perquisire gli uffici del ragionier Spinelli, equiparati a una residenza del presidente del Consiglio, e inviare alla giunta di Montecitorio le carte che spiegavano la necessità di quell'atto.
Forse il "garantista" Calvi pretendeva che il Parlamento votasse su una questione così cruciale per la politica italiana all'insaputa dei cittadini italiani? L'ex avvocato di D'Alema completa l'opera rammaricandosi per non essere riuscito, quand'era in Parlamento, a far approvare una legge-bavaglio che avrebbe fatto impallidire, quanto al rispetto per il diritto-dovere di cronaca, quelle di Mastella e di Alfano ("distruzione delle intercettazioni estranee alle indagini e divieto totale di pubblicazione fino al termine della fase istruttoria... responsabilità per il pm e multe severe per i giornalisti in caso di violazione del segreto").

 
Berlusconi Ruby
 
Ma anche perché "Silvio Berlusconi non abbia mai trovato il tempo di far approvare un provvedimento civile e garantista su questo tema". Ma sì che ci ha provato, anzi ci sta provando ancora con la controriforma Alfano, che il Csm (quello precedente a questo, in cui fortunatamente non sedeva ancora l'avvocato Calvi) ha definito devastante per le indagini e per la libertà di stampa.

 
Matteo Brigandi
 
Quanto a quel che avviene all'estero, Calvi racconta che "negli Usa il fotografo non può nemmeno entrare in aula e le udienze sono raffigurate da disegni": forse non sa che negli Usa i giornali, due anni fa, hanno pubblicato le intercettazioni del governatore di New York, Spitzer, coinvolto in un giro di squillo, e quelle del governatore dell'Illinois, Blagojevich, arrestato perché cercava di vendere il seggio lasciato libero al Senato da Obama. Il tutto ben prima che si celebrassero i processi col disegnatore al posto del fotografo.
Ma su questa concezione castale, diciamo pure stalinista del diritto-dovere di informare, dell'emissario del Pd nel Csm, stupisce anche il silenzio dell'Ordine dei giornalisti e della Federazione della stampa. Non stupisce invece che l'estate scorsa il centrosinistra abbia preferito un Calvi a un giurista davvero indipendente e liberale come il compianto Vittorio Grevi. Lui sì, rispettoso della libertà di stampa e impermeabile agli inciuci.

[Fonte

Sempre da DAGOSPIA riporto questa notizia che se vera, è lo p, la dice lunga sui metodi della procura di Milano!

I PM MILANESI HANNO INCONTRATO RUBY, LA SCORSA ESTATE, VENTIDUE VOLTE IN POCO PIÙ DI UN MESE: UNA VOLTA OGNI DUE GIORNI. MA DI QUESTA MESSE DI INTERROGATORI, SOLO CINQUE VERBALI SONO UFFICIALMENTE AGLI ATTI DELL’INCHIESTA. SUGLI ALTRI 17 È GIALLO. UN MARE DI PAROLE E INCONTRI IL CUI CONTENUTO È SCONOSCIUTO. CHE SI CELI QUI LA "PISTOLA FUMANTE" DI BOKASSA BOKASSINI?


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Gian Marco Chiocci e Massimo Malpica per Il Giornale
Ventidue faccia a faccia con i magistrati in un arco di poco più di un mese. I pm milanesi hanno incontrato Ruby, la scorsa estate, con una frequenza impressionante: praticamente una volta ogni due giorni. Ma di questa messe di dichiarazioni, solo cinque verbali sono ufficialmente agli atti dell'inchiesta, quella che vede Silvio Berlusconi rinviato a giudizio con rito immediato per concussione e prostituzione minorile. Sugli altri 17 è giallo.
berlusconi ruby mubarak 
 Ruby
Dalla procura filtra una mezza conferma: le dichiarazioni raccolte da Ruby sarebbero in effetti ventidue in tutto. E di certo, nel centro di accoglienza per minori di Sant'Ilario, a Genova, diretto da Gigliola Graziani, i magistrati milanesi sono stati di casa, tra giugno e agosto. Ruby, infatti, lascia la casa di Michelle Conceicao Santos Oliveira, la brasiliana a cui l'aveva affidata Nicole Minetti, il 5 giugno 2010. Quel giorno le due donne litigano, interviene la polizia e Karima alias Rubacuori viene portata via.
Il 23 giugno viene affidata al Kinderheim genovese, in via di Sant'Ilario 53. Il primo interrogatorio «ufficiale» porta la data del 2 luglio. L'ultimo, doppio, come noto è quello del 3 agosto, a Milano, nel quale la giovane marocchina offre versioni piuttosto incoerenti e diverse tra loro.
In mezzo altri due verbali di sommarie informazioni vengono redatti il 6 e il 22 luglio. Ma la sorpresa, appunto, è che a margine di questi atti c'è un mare di parole e di incontri il cui contenuto è al momento del tutto sconosciuto.
berlusca ruby nadia 
 Ruby da Vanity Fair
Che sia qui che si cela la «pistola fumante» della procura milanese? Si parla di almeno 17 «colloqui» tra i pm (soprattutto Pietro Forno) e la ragazza ospite del centro ligure. Se sono verbali ancora sconosciuti, è un bel pacco a sorpresa per il presidente del Consiglio.
Ma Luca Giuliante, avvocato di Ruby, interpellato sul tema non cade dalle nuvole, anche se la vede diversamente. «A me non risulta che ci siano stati 22 interrogatori, ma solo cinque, uno dei quali doppio. So però che ci sono state numerose visite da parte del pm, che però non mi sono mai state meglio specificate».
Visite? Per il legale è difficile definirle in altro modo: «Non ne conosco il motivo, però che ci siano state visite, non mediate dalla redazione di un verbale, è un dato che non mi sorprende».
L'ipotesi che il colpo di scena in vista del processo di inizio aprile sia nascosto in quei rendez-vous, dunque, non fa presa su Giuliante, che esclude la natura formale degli incontri liguri tra la ragazza e gli inquirenti. Perché «se ci fossero i verbali e non fossero stati depositati ci troveremmo di fronte a un gravissimo abuso, visto che c'è una norma del codice di procedura penale che parla della completezza delle indagini».
Ma allora, quella spola frenetica tra il capoluogo lombardo e Genova che senso aveva se le chiacchiere non venivano messe nero su bianco? «Ho la sensazione che non ci siano verbali, ma una serie di visite di natura colloquiale, variamente giustificate», continua il difensore di Ruby.
Ilda Boccassini dal Corriere
Per parlare di «bunga bunga», per leggere insieme il diario della ragazza? «Se mi domandate di che cosa si è parlato io non lo so, ma se saltasse fuori che si è parlato di Berlusconi, la cosa non mi sorprenderebbe», taglia corto l'avvocato. Lui, di certo, a questi incontri non c'era. E nessun avvocato ha assistito la giovane.
boccassiniocchiali
Eppure di assistenza legale Ruby avrebbe avuto bisogno. Non foss'altro perché sia in occasione del primo fermo (la famosa notte in Questura) per il presunto furto ai danni di Caterina Pasquina, che dopo la lite con la coinquilina brasiliana Michelle Oliveira, la marocchina - parte lesa nel procedimento contro il premier - s'era ritrovata con una denuncia sul groppone da parte delle ex amiche.
Era insomma due volte «indagata in pectore», e dunque anche se non imputata, sarebbe stato opportuno assicurarle il patrocinio legale prima di farla sedere di fronte ai magistrati, «colloqui» o «interrogatori» che fossero. Inoltre, essendo minorenne (elemento la cui conoscenza, incerta in capo a Berlusconi, non poteva invece sfuggire agli inquirenti), avrebbe dovuto essere sempre assistita o da un familiare (ma non è avvenuto) o - e certamente la procura milanese potrà confermare che è stato fatto - da una persona per lei di conforto, uno psicologo o un assistente sociale.
BOCCASSINI  
Quale che sia la natura di quegli incontri, sembra fuori di dubbio che siano avvenuti. E già così la novità rispetto a quanto era finora noto è vistosa: per quale fine uno dei pm che vogliono inchiodare Berlusconi tra fine giugno e luglio faceva il pendolare tra Milano e la collina di Sant'Ilario per incontrare Ruby?

[Fonte

Ecco come agiscono alcuni pubblici ministero italici.

Dal sito Dagospia riporto quant'esso scrive sulla questione della ragazza marocchina Ruby. 

Ogni commento è superfluo nel constatare, ancora una volta, come agiscono certi pubblici ministero che si sentono (auto) investiti di poteri salvifici.

1- IL COMMISSARIO DAVANZONI (alias il giornalista D'Avanzo di Repubblica) SBIRCIA I VERBALI DI RUBY E SCODELLA LA VITA DELLA MAROCCHINA PRIMA DEL CAVALIERE POMPETTA. FRA VIOLENZE DEL PADRE E MOLESTIE DEI VECCHIONI CHE INCONTRA NELLA SUA VITA RANDAGIA, LA STORIA DELLA PICCOLA FIAMMIFERAIA NELLA VERSIONE SHOW-BUSINESS (DAL POST-MODERNO AL POST-TRIBOLO) CONTIENE UNA BOMBA: UNA NOTTE DI SESSO, A 17 ANNI, CON IL REAL CRISTIANO RONALDO - 2- IL GIORNALE" RIBATTE: "RUBY NON DICE MAI DI AVER FATTO SESSO CON BERLUSCONI. EPPURE È STATO RINVIATO A GIUDIZIO CON RITO IMMEDIATO, ANCHE SE LA PRESUNTA VITTIMA NON CONFERMA. PERCHé I MAGISTRATI DI MILANO NON HANNO POTUTO CONTROLLARE IL RACCONTO DI RUBY CHE RIGUARDEREBBE IL CALCIATORE PORTOGHESE? - 3- TRABALLA PURE IL "CASO MUBARAK". RUBY DISSE DI ESSERE LA NIPOTE DEL RAIS GIÀ NEL 2009 -  

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1- RUBY 17ENNE: ANDAI A LETTO CON RONALDO EPPURE I PM INDAGANO SOLO SU BERLUSCONI
Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica per Il Giornale

Ruby Rubacuori, ancora minorenne, in uno dei suoi primi interrogatori racconta ai pm (vedi l'articolo a seguire di Repubblica, ndD) di aver fatto sesso con la stella del Real Madrid Cristiano Ronaldo. Fa il suo nome e non solo, perché aggiunge dettagli. Dice di averlo conosciuto la notte tra 29 e 30 dicembre 2009 alla discoteca Hollywood di Milano, di essersi scambiata con il calciatore i numeri di cellulare. Di averlo rivisto a cena qualche sera dopo, e di esserci finita a letto in un hotel di lusso, a Milano, alla fine di gennaio.

Una notte passata «in una suite, al quinto piano», per poi scoprire che lui se n'era andato, lasciandole un biglietto, piuttosto scortese («Spero che quando torno non ti trovo nella stanza»), e 4mila euro in contanti. E non è finita qui.

Ruby a verbale spiega di aver incontrato ancora il campione portoghese, per caso, un paio di settimane dopo alla discoteca The Club , e di averci pubblicamente litigato, lanciandogli addosso un bicchiere di champagne insieme ai soldi della «nottata» in banconote da 500 euro. Una scenata che avrà dato nell'occhio. E che, come racconta ancora Ruby ai magistrati milanesi, avrebbe colpito lo stesso Ronaldo.

Tanto che, a giugno scorso, quando i due si incontrano per caso ancora una volta (davanti al ristorante Ibiza di corso Garibaldi, sempre a Milano), lui le chiede scusa: «Pensavo fossi una ragazza come tutte le altre, che cercassi da me soltanto soldi». E alle parole, giura Ruby, Cristiano Ronaldo fa seguire i fatti, accompagnandola per farsi perdonare in comunità, dove «anche le suore lo hanno visto e si sono incuriosite», conclude la ragazza marocchina.

L'episodio, racconta Repubblica , è nei verbali. Quegli stessi verbali nel quali, come è noto, Ruby non dice mai di aver fatto sesso con Berlusconi. Eppure il premier, per l'accusa di prostituzione minorile (oltre che per concussione) è stato rinviato a giudizio con rito immediato, anche se la presunta vittima non conferma. Mentre «i magistrati - spiega il quotidiano diretto da Ezio Mauro - non hanno potuto controllare » il racconto di Ruby che riguarderebbe il calciatore portoghese. (Storia identica che già accadde all'epoca di Mani pulite quando questa stessa procura non potè controllare che fine fece il miliardo di lire finito nella sede del PCI alle Botteghe oscure quando i finanzieri trovarono i sigilli rotti e gli armadi vuoti! La procura di Milano non chiese l'arresto di nessuno ne inquisì il segretario che secondo la teoria dipietresca non poteva non sapere!)

Detto che, ovviamente, le pesanti accuse della ragazza sono tutte da dimostrare, riesce difficile comprendere l'assenza di qualsiasi riscontro da parte degli inquirenti alla storia, vera o falsa che sia, messa nero su bianco dalla ragazza. Soprattutto considerando con quanto zelo, invece, si sono sostenute le accuse nei confronti del primo ministro anche se in mancanza di dichiarazioni così esplicite.

Si attendeva la «pistola fumante » della procura, nascosta chissà dove tra le pieghe dei verbali o degli atti dell'indagine. Ma molte delle «rivelazioni» finiscono per ottenere l'effetto contrario, aggiungendo confusione al quadro complessivo delle accuse. Per esempio, c'è un dettaglio, collegato all'ipotesi di concussione, che due giorni fa è stato rivelato dal Fatto Quotidiano, giornale non certo vicino al premier, e che getta una luce diversa sui fatti della notte di maggio alla questura di Milano, quella della telefonata di Berlusconi per liberare la «nipote di Mubarak ».

E il dettaglio riguarda proprio quella panzana, che era stata attribuita al premier da diverse parti. Anche da Ruby, in uno dei suoi verba¬li, anche se quando è stata sentita per le indagini difensive, la ragazza ha sostenuto che l'idea di fingersi nipote del rais egiziano era stata sua. Ebbene, il Fatto è andato a raccogliere i ricordi di Ester Fragata, una donna messinese che a Ruby aveva dato un lavoro due anni fa.

Il rapporto tra le due è finito con una doppia denuncia (accusata di furto la marocchina, di induzione alla prostituzione la siciliana), ma tra le cose che la signora Fragata racconta ce n'è una decisamente rilevante: «(Ruby, ndr ) mi raccontò già allora di essere la nipote di Mubarak, in presenza di un mio amico, l'architetto Di Bernardo». Toh, ecco dunque che più di un anno prima che le strade di Ruby e di Berlusconi si incrociassero (perché la «prima volta » ad Arcore di Ruby, secondo la procura, è a febbraio del 2010), la «falsa parentela» era già nel campionario della ragazza.

E quanto ai risvolti giudiziari della doppia denuncia di Messina, a far luce dovrebbe provvedere il processo, che si aprirà mercoledì prossimo. Ruby, nella sua controdenuncia, oltre ad accusare la titolare del centro benessere di induzione alla prostituzione, cita anche un amico della donna, che avrebbe tentato di coinvolgerla in un gioco a luci rosse con dei dadi le cui facce suggerivano gli atti sessuali da compiere. Lei si sarebbe rifiutata. Ma l'uomo, allo stato, nonostante le parole di Ruby, non è nemmeno indagato.
  

  2- L'ARTICOLO DI IERI SU "REPUBBLICA": RUBY DAVANTI AI PM RACCONTA LA SUA VITA PRIMA DEL CAVALIERE. SEMBRA LA STORIA DI UNA PICCOLA FIAMMIFERAIA NELLA VERSIONE POSTMODERNA DELLO SHOW BUSINESS. DAL POST-MODERNO AL POST-TRIBOLO: SESSO CON CRISTIANO RONALDO
Piero Colaprico, Giuseppe D'Avanzo e Emilio Randacio per La Repubblica

E finalmente piange. Piange e rabbiosamente subito dopo ride. "Che vergogna!" dice Ruby, durante l'interrogatorio (è il 2 luglio 2010). Ruby cerca un fazzoletto per asciugarsi le lacrime, mentre anche il pubblico ministero vuole rasserenarla: "Sai, è positivo che ti sia venuta voglia di piangere" e l'assistente sociale, che le siede accanto, le sussurra premurosa: "Ruby, fai la dura, ma sei ancora una bambina...".

È questa "bambina" che Emilio Fede porterà ad Arcore. È questa "bambina" che Lele Mora vuol far entrare nella sua scuderia. E sono le semplici parole di Ruby a dimostrare che le "notti del Drago" calpestano anche chi è come lei indifeso, lei insieme con le "zoccole", le "ragazze delle favelas", le "zingare".

Ruby, Karima, ma quale vita ti ha portato a diciassette anni a oltrepassare la soglia di Arcore? Quante persone, tutte sempre e molto più anziane di te, ti hanno circondato e accompagnato e lusingato con le peggiori intenzioni? Come, secondo l'accusa, il presidente del Consiglio?

Leggere in filigrana l'adolescenza mancata di Ruby è dunque necessario per spiegare che quelle di Arcore non sono scene "tra persone perbene", come il premier va raccontando con i videomessaggi ai promotori della libertà. "Io ce l'ho una famiglia, non è che non ce l'ho, ma è come se non ci fosse", spiega Ruby nei suoi verbali d'interrogatorio. "Sono stata in Marocco sino a 9 anni, poi mio padre, che era immigrato in Italia, ci ha chiamato. Aveva avuto un incidente sul lavoro, lo hanno licenziato, non gli hanno dato la liquidazione e si è dovuto arrangiare... Alla fine ha raggiunto un po' il suo equilibrio trovandosi un lavoro a Randazzo, in un negozio di tappezzeria".

È un padre all'antica, legato alle tradizioni islamiche, severo. È anche violento. Fuori dal suo mondo non conosce le parole per educare o convincere: "In Marocco era anche un imam e in Italia ho lottato per frequentare la scuola. Mi ha fatto fare le medie, quando volevo iscrivermi alle superiori non era d'accordo".

È un eufemismo, il disaccordo. È conflitto. Il padre la picchia, più volte, senza misura. Accade quando Karima va a catechismo. Qualcuno pensa che lei abbia "una vera fede, perciò mi hanno detto: "Dovresti fare dei passi che sono importanti per la vita di un cattolico, che sarebbero il battesimo, la comunione e la cresima...". Mi sono rivolta a mio padre, gli ho chiesto il consenso e lui, che friggeva le patate, mi ha tirato addosso una padella di olio bollente". C'è un family day che queste ragazze dovrebbe proteggere, che di questi valori dovrebbe occuparsi. E poi ci sono Noemi Letizia, Patrizia D'addario e la povera Ruby-Karima.

Ascoltare dalla sua stessa voce gli anni di una giovinezza rubata serve a inquadrare l'enorme sproporzione tra chi non aveva niente e chi poteva offrirle tutto, come beni materiali, ma senza la minima solidarietà umana. Ruby avrebbe avuto bisogno di una educazione migliore e forse di un'altra occasione. Invece è rimasta segnata dalle legnate del padre. "Le sue cinture, eh, quante se n'è dovuto comprare, se ne sono rotte talmente tante sulla mia schiena. .. la schiena, sapete, si abitua dopo un po'... Diventi come un asino, ti abitui alle botte".

I pubblici ministeri fotografano quei segni sulle braccia della ragazza che si dice asino. Chiedono e impallidiscono. Ecco un altro episodio, quello che porta Ruby fuori da casa sua per sempre: "Un giorno torno a casa in ritardo e papà mi riempie di botte, alla sua cintura si era rotta persino la fibbia, allora ha continuato con il cavo della luce. Il giorno dopo vado a scuola, c'è educazione fisica, entro per ultima, per cambiarmi da sola. Alzo la maglietta ed entra una mia compagna, vede la schiena e urla. "Stai zitta", per favore, le dico. Ma lei va dalla professoressa e anche la prof vuole vedere: "Ma no, sono caduta dal motorino", provo a dire. "Tu non ce l'hai il motorino", dice. Alla fine ammetto... ".

E così, terminata l'ora di ginnastica, "il tempo di salire in scuola, ho trovato i carabinieri nell'ufficio del preside". Possibile che ad Arcore nessuno abbia visto queste cicatrici?
Purtroppo, a quell'intervento dei carabinieri non segue un vero aiuto. Ruby viene riportata a casa, litiga con il padre, che le dice: "Escitene". E lei "esce". Ruba una borsetta da un'auto per pagarsi la prima notte in albergo e raccapezzarsi. Poche ore dopo, è già beccata dagli stessi carabinieri del piccolo paese e comincia la trafila delle comunità.

"Mi hanno portato la prima volta a Mondo X, una comunità di tossicodipendenti. Ero l'unica femmina con quarantadue uomini, in Calabria e per giunta tossici, con orari assurdi. Il posto di lavoro era zappare la terra, spostare le pietre e tagliare legna". Dopo sei mesi Ruby scappa e torna in Sicilia. Va a Catania: "In città", e non ha ancora 14 anni. Trova una specie di casa alla discoteca Capannine: "Ero ancora con la valigia in mano e un tizio mi vede e mi fa: "Sei una bella ragazza", gli ho detto: "Hai fatto la scoperta dell'acqua calda". Mi dice: "Vorresti lavorare da me?"".
Ruby ottiene un posto da "selector", "la ragazza che fa cassa, oppure che ha la lista della discoteca. Poi quel signore, che ha tanti locali, mi ha detto: "Guarda, ti ospito io a casa mia". La prima sera ho dormito con lui nella sua stanza, non mi ha toccato neanche con un dito", anche se è chiaro che l'uomo, 46 anni, punta a ben altro: "Guarda, anche se hai 13 anni, cerco di fare il padre, però - le dice il mattino dopo - non ce la faccio, sei una ragazza con le sue curve, preferisco allontanare la tentazione da me. Io ho apprezzato la sincerità, mi sono detta: "Va bene, questo è un uomo"".

Errore: i complimenti non richiesti arrivano sempre. "Mi piacerebbe sprofondare nel tuo seno", dice. E qualche mese dopo, aprendo l'armadio del bungalow dov'era ospite, Ruby trova proprio il suo principale. É nudo: "E quando l'ho trovato nell'armadio della mia stanza, gli ho dato un pugno, gli ho fratturato lo zigomo sinistro". In cambio non una denuncia, ma una proposta: "Ti do i soldi, perché mia figlia è in politica, non voglio che si macchi il suo nome e neanche il mio".

Nel frattempo Ruby, che ferma non sa stare, ha conosciuto e frequenta un ragazzo di 24 anni, che vorrebbe persino farla prendere in affido dalla sua famiglia: "Sei piccola, e dovresti venire con me, parliamo con i miei genitori". Per l'appunto, Ruby è piccola. I suoi tentativi di sbarcare il lunario incrociano spesso i carabinieri. "Mi mandano a Villa Sant'Anna, a Messina, una casa di cura per psicopatici".

Ma minori, maggiori?, chiede il pm. "Maggiori, maggiori", ripete Ruby, aggiungendo: "Mi sono trovata, dopo un mese, con uno di 60 anni che mi molestava mentre dormivo. Ho riempito la valigia, sono andata verso la porta", addio. Passerà molto tempo prima che i carabinieri si accorgano di questa fuga ("Ruby, scendi dalla macchina, guarda che ti conosco", le dicono a un posto di blocco, mesi dopo), mentre lei entra ed esce dai locali, cerca lavori, vive con quello che chiama il suo "fidanzato", viene spedita in altre due comunità e, la notte del 28 dicembre 2009 decide di abbandonare la Sicilia. Milano l'attende.

A chiamare Ruby a Milano è una ragazza bellissima. Ha poco più di trent'anni. Ruby la conosce ché lavorano insieme in un negozio di abbigliamento di Catania, "Le Bretelle". Con lei ha anche parlato dei concorsi di bellezza, che ha vinto e dove ha partecipato, quello dove "Emilio Fede e Fiorello erano nella giuria", c'è "Miss Venere" a Capo Sant'Alessio, c'è sempre qualche pigmalione, ma alla fine che può fare in Sicilia?

  "Non ho salutato neanche il mio ragazzo, perché lui non era d'accordo che salissi a Milano... alla stazione Centrale mi aspetta la mia amica Simona, mi porta a casa sua e alla sera mi dice: "Vestiti elegantemente, dobbiamo andare per il lavoro". "Ma scusami, se è un lavoro di commessa, mica il colloquio lo fanno all'una di notte?", rispondo io".

Ruby, senza documenti e minorenne, si ritrova in uno degli alberghi più lussuosi del cuore di Milano. Supera la reception e l'amica Simona dice: "Dobbiamo salire nella stanza". Cresce il suo stupore e Ruby racconta che, nel corridoio, davanti alla stanza 333, apprende che quello che l'amica offre non è un lavoro da commessa. È da escort. E si ribella: "Gli ho preso la testa, gliel'ho spaccata contro il muro, e me ne sono andata. Avevo 80 euro nel portafoglio, me sono andata a ballare all'Hollywood, perché comunque senti dalla Sicilia: "L'Hollywood, l'Hollywood"".

Quando alle 4 del mattino torna a casa dell'"amica non amica" (parole di Ruby) si trova le valige fuori della porta e non c'è verso di rientrare. "Mi sono seduta in piazza, non sapevo dove andare, passa un signore anziano su una macchina bianca, e mi fa: "Hai bisogno di aiuto?". Gli ho detto: "Vattene marpione del cavolo". E lui fa: "No, volevo vedere solo se avevi bisogno di aiuto"".

È una costante per Ruby: qualcuno passa e l'aiuta, sempre gratis. Sempre per bontà, racconta lei. Prima "mi ha portato a casa sua, che aveva un monolocale, e mi ha detto: "Te ne stai tu da sola, non voglio approfittarmene, puoi essere mia nipote, non mia figlia, io starò da un amico finché non ti troviamo una sistemazione"". E poi le trova un impiego da cameriera e ballerina al Masquenada, in viale Piceno.

Non è che i magistrati siano sprovveduti. Già il 27 luglio, prima degli ultimi interrogatori, avevano appurato che Ruby ad Arcore era stata davvero. E un paio di testimoni, già ascoltati, avevano confermato che la minorenne raccontava in giro di conoscere Silvio Berlusconi. Non è nemmeno un segreto che quando esiste un "coinvolgimento ansiogeno", una persona fragile, soprattutto un minore, può attuare quello che gli psicologi chiamano lo "spostamento". Si attribuisce ad altri quello che è successo a se stessi: si rende concreto quel che gli addetti chiamano un "meccanismo di difesa dell'io". Aiuta.

Così si aiuta Ruby, che ne ha viste e vissute troppe. Per esempio, nelle sue peripezie milanesi incrocia la vita di Michelle Coiceincao, la brasiliana che, la sera del 27 maggio scorso, chiama per prima Silvio Berlusconi quando apprende del fermo della ragazza in questura. È lei che ospita Ruby nel suo appartamento milanese: ma "Michelle esercita la prostituzione in forma molto riservata", svela ai pm la ragazza.

Ed è Michelle a proporle "di prostituirmi al suo posto", con patti chiari fin da subito: "Mi ha detto che a lei sarebbe andata la percentuale più alta e che avrei potuto appoggiarmi a una certa Magda". La raggiunge in un appartamento a Milano 2, la porta si apre e "da una stanza è uscita una ragazza che ho appreso chiamarsi Juanita, di origini messicane che ha detto di avere 17 anni e che ha chiamato Magda per nome.

Juanita è uscita dalla stanza completamente nuda, con un uomo anche lui nudo dietro e ha detto che aveva finito il servizio. A questo punto l'uomo, di circa 70 anni mi ha direttamente" chiesto un rapporto "offrendomi 4000 euro, oltre a mille che avrebbe dato a Magda. Il cliente ha preso la mano della ragazzina messicana facendomi vedere che le aveva regalato un Rolex Daytona d'oro tempestato di diamanti del valore di 40 mila euro. Nel dire ciò il cliente soggiunse che avrebbe fatto un regalo del genere anche a me", perché voleva "assaporare le mie labbra arabe"".

Ad ascoltarla, Ruby-Karima sembra rivendicare un'onestà di fondo e un orgoglio adolescenziale. Forse quello che le interessa di più è nascondere la propria vergogna "spostando" alcuni fatti, o forse alterandoli.

C'è un episodio che i magistrati non hanno potuto controllare, ma è contenuto nei verbali. Riguarda uno dei calciatori più famosi del mondo. Ascoltiamo ancora la ragazza: "Non ho mai accettato rapporti sessuali a pagamento. L'ho fatto solo con i ragazzi che mi piacevano. L'unica volta che sono stata pagata per un rapporto sessuale è stato quando ho incontrato il calciatore Cristiano Ronaldo.

Era la sera del 29 dicembre 2009 e dopo essere stata nell'hotel e prima che la mia amica Simona mi mettesse le valigie fuori dalla porta, sono andata all'Hollywood e là sono stata fermata da Ronaldo, il quale aveva un tavolo nel privè. Mi ha fatto dei complimenti e ci siamo scambiati il numero di cellulare. Sino a quel momento non sapevo che fosse un calciatore, ma l'ho saputo qualche sera dopo quando ci siamo rivisti al ristorante e molti gli chiedevano l'autografo.

Lui sapeva della mia età e ci siamo rivisti varie volte ancora al ristorante. Circa tre settimane dopo, abbiamo deciso di fare l'amore e ci siamo incontrati in un hotel lussuoso, dove alloggiava. Secondo le sue indicazioni, dovevo andare direttamente nella sua suite, al quinto piano. Non avevo, come non ho neanche adesso, i documenti, ma nessuno mi ha fatto domande. Avuto il rapporto ci siamo addormentati tutti e due. Quando al mattino mi sono svegliata, non l'ho ritrovato più nel letto. Sul comodino c'era un biglietto: "Spero che quando torno non ti trovo nella stanza. I soldi li trovi vicino alla borsa". Effettivamente, c'erano 4000 euro e sono uscita piangendo".

  Confonde un calciatore per un altro? Può darsi, fatto sta che precisa altri incontri: "Casualmente ho rivisto Ronaldo due settimane dopo nella discoteca "The Club", dove ero andata per ballare. Era in un privè con altre persone, ho preso un bicchiere di champagne e gliel'ho tirato in faccia. Poi, davanti a tutti, gli ho svuotato sulla testa la bottiglia, gli ho buttato addosso le banconote da 500, i buttafuori sono intervenuti e mi hanno accompagnata a forza fuori dal locale. L'ho rivisto casualmente a giugno, prima che andasse al ritiro dei mondiali. Mi stavo recando alla comunità - dice Ruby - e lui si trovava davanti al locale Ibiza, ristorante di corso Garibaldi. Appena ci siamo incrociati, si è scusato per il suo comportamento: "Pensavo fossi una ragazza come tutte le altre, che cercassi da me soltanto soldi". Accettate le scuse, mi ha accompagnato fino all'istituto, e anche le suore lo hanno visto, e si sono incuriosite".

Ecco dunque come si descrive Ruby. È questa ragazza difficile, confusa, amareggiata ma mai sconfortata, in fuga, scappata di casa, che entra ad Arcore. Sembra la storia di una piccola fiammiferaia nella versione postmoderna dello show business. è la storia di una ragazzina che a 13 anni comincia a guadagnarsi il pane in una discoteca e che infine si imbatte in uno che - come tanti altri uomini entrati nella sua vita - può prometterle e permetterle la cosiddetta svolta: la tua vita cambierà, le dice Silvio Berlusconi.

E ci vuole davvero poco perché questa vita desolata cambi in meglio. Ma nella ricostruzione dei pm questo cambiamento è soggetto a un pedaggio: il "bunga bunga", il sesso, la corte delle miracolate che si riunisce intorno alla chitarra di Apicella. Tra febbraio e maggio, Ruby passerà i weekend con Silvio Berlusconi, 74 anni, che le promette di "cambiarle la vita". Non le offre un lavoro o buoni studi o un'educazione. Le cambierà la vita, le ha detto, ma se accetterà di spogliarsi nuda nel "bunga bunga". È questa la ragazza che dovrà poi "fare la pazza" e "sarà ricoperta d'oro": per non parlare. Ma con i pubblici ministeri aveva già parlato.

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