giovedì 10 febbraio 2011

Se non ora, quando? Bersani sta pensando di rinunciare a Di Pietro, forse.

  Se non ora, quando? Bersani sta pensando di rinunciare a Di Pietro e non lo sopporta più, Di Pietro non sopporta più Bersani (perché in realtà non sopporta nessuno) e non bastasse è spuntato l’annunciato movimento di Santoro & Travaglio che attira decisamente Di Pietro: di che altro hanno bisogno, Pd e l’Italia dei valori, per divorziare?
Calma, perché di buone ragioni ne avrebbero avute cento altre volte. Riassumiamo: il Riformista, ieri, ha raccontato di un sondaggio commissionato da Bersani secondo il quale le varie opposizioni potrebbero battere il centrodestra anche senza Di Pietro: questa la novità. Per centrodestra s’intende il Pdl più la Lega, e per opposizioni s’intendono il Pd più il Terzo Polo più Vendola, con Casini o Bersani candidati premier. Un Italia dei valori che corresse da sola, secondo lo stesso sondaggio, guadagnerebbe solo qualcosina. I vantaggi parrebbero evidenti per entrambe le parti. Di Pietro è in una leggera crisi di consensi o meglio ha smesso di crescere, e l’annunciato movimento di Santoro-Travaglio-Spinelli, a cui attaccherebbe immediatamente i canini, potrebbe sostituire il volano di Beppe Grillo che nel tempo si è affievolito sino a scomparire o peggio ancora a fargli concorrenza diretta: senza contare che il comico, tu guarda, Di Pietro non lo sopporta più. Mentre il neo movimento, in periodo di elezioni, potrebbe assicurare manifestazioni e piazzate e comizi e insomma quel casino extraparlamentare di cui il molisano ha terribilmente bisogno, a quanto pare.
Effetto ammucchiata
  Dall’altra parte, invece, c’è l’alleanza di sinistra che deve scongiurare l’effetto-ammucchiata (anche detto effetto-Prodi) e non avrebbe dubbi su chi sacrificare tra Vendola e Di Pietro, gettando quest’ultimo tra le braccia dei neo-comunisti di Ferrero e Diliberto. Al di là di questo, di ragioni per divorziare ce ne sarebbero comunque un milioncino. Per tre anni Di Pietro ha succhiato consensi al Partito democratico con la faccenda della «opposizione unica» che ha attratto l’area più movimentista del partito (giovani, blogger, grillini) e pagando così carissimo il peccato originale veltroniano. Di Pietro e Veltroni si incontrarono il 10 febbraio 2008: tempo tre giorni e avevano raggiunto un accordo per le elezioni di aprile. Disse Tonino: «Con Veltroni abbiamo fatto un accordo programmatico, politico e progettuale.... un percorso che porterà alla possibilità di una nostra confluenza in un unico partito e in un unico gruppo parlamentare». Sembrava una cosa seria. Tonino era stato chiaro: «L’Italia dei Valori creerà un unico gruppo con il Pd con l’obiettivo di confluirvi». Unico gruppo. Confluire. Le parole erano quelle: tanto per chiarire che cosa non gli passerà neppure per l’anticamera del cervello. Eppure lo disse una terza, una quarta, infinite volte: «Saremo alleati fedeli, abbiamo sottoscritto un programma con il Pd e per noi quel programma è il Vangelo». Passavano solo cinque giorni e già Di Pietro cominciava a smarcarsi: «Non scioglierò l’Italia dei Valori e non ho mai detto una cosa del genere, questo non significa che non formerò un unico gruppo elettorale del Pd». Il resto della storia si sa. Di Pietro - si disse - era lo spauracchio che doveva tenere sottotraccia i grillisti e i forcaiolisti del Paese, l’antipolitica, queste cose: neppure qualche mese dopo, a Pd già vampirizzato, Veltroni diede segni di ravvedimento: «Se Di Pietro fosse rimasto fuori dell’alleanza, avrebbe usato in campagna elettorale i toni che lo hanno caratterizzato nei mesi successivi. Per questo non sono pentito della scelta che ho fatto». Insomma non si pentì, cosicché Di Pietro si tenne ben stretto l’antiberlusconismo e lo usò anche contro il Partito democratico. C’è un episodio, misconosciuto, che rende l’idea: Veltroni, come appariva logico, nel 2008 chiese a Di Pietro di non ricandidare nelle sue liste chi era rimasto fuori da quelle del Pd; Di Pietro invece chiese a Veltroni di non ricandidare nel Pd chi avesse già fatto tre legislature, come chiedevano i grillini e come l’amico Walter aveva in parte già fatto; l’accordo fu siglato e Veltroni non ricandidò per esempio Giovanni Paladini, Renato Cambursano e Giuseppe Giulietti: dopodiché - fantastico - Di Pietro andò da ciascuno di loro e gli offrì di candidarsi con l’Italia dei Valori. Diverranno suoi parlamentari e lui ridiscenderà nelle piazze a raccogliere firme contro i parlamentari con più di due legislature.
Detto questo, Di Pietro ha continuato a vampirizzare il Pd per tutto il tempo: l’idea di Veltroni di non ossessionarsi sull’avversario - addirittura spingendosi a non nominarlo - convinse Tonino che era maturo il momento di ergersi a «unica opposizione».
Il vampiro Tonino
L’Italia dei valori, alle elezioni, beccò il 4,4 per cento alla Camera e il 4,3 al Senato, non raddoppiando l’esito del 2006 ma quasi. In Molise Di Pietro superava anche il Partito democratico. Dopo il voto, come detto, lasciò subito intendere che a confluire nel Partito democratico non ci pensava neanche. Figurarsi il fare un gruppo unico: aveva subito lasciato intendere che un gruppo comune, al minimo, avrebbe dovuto avere le diciture «Italia dei Valori» e «Partito democratico» sullo stesso piano dignitario. Dirà Veltroni: «Visto che aveva i deputati per fare un gruppo da solo, Di Pietro non ha esitato a stracciare un impegno preso con gli elettori». Avere dei gruppi propri alla Camera e al Senato significava rimborsi e benefici come segreterie, portaborse, consulenti e uffici. Facevano un altro milione di euro all’anno più i soldi per assumere una ventina di persone, uno ogni tre eletti. Anche il resto è noto. Di Pietro alle Europee arruolò una serie di vegliardi, abbandonati dal Pd, e il 4 giugno 2009 raddoppiò i voti: 7,98 per cento, il doppio o quasi rispetto alle politiche del 2008. Circa il 50 per cento dei voti risultarono smembrati dal Partito democratico. Più di recente, dettaglio non da poco, Di Pietro ha fornito il materiale umano per la transumanza di Razzi e Scilipoti nel centrodestra, confermando quanto sia facile fare shopping politico tra le sue file. Poi ci sarebbero tutte le differenze politiche tra la sinistra e l’Italia dei valori, ma non è il caso di stare a sottilizzare. Certo non ha aiutato il genere di polemica istruita da Di Pietro direttamente col Quirinale in tema di promulgazione delle leggi. Insomma, il divorzio s’ha da fare.

di Filippo Facci, 03/02/20