lunedì 7 marzo 2011

Una lettura per farci quattro risate veramente appaganti!

Riporto quanto ha scritto Piero Sansonetti sul Riformista, giornalista certamente non di destra così come la testata, che lucidamente ci racconta quella che dovrebbe ( o doveva ) essere il nuovo grande scandalo italiano: la P4!  

Cercasi reato nell’inchiesta P4

 J.H. Woodcock. Un pm noto per l’eco mediatica delle sue indagini. A leggere i giornali l’imputazione nei confronti di Bisignani è quella di aver consigliato Masi contro Santoro. E allora?

 Ai tempi della Prima Repubblica il gergo politico era difficile da leggere. Dovevi conoscerlo se volevi capire il senso vero di una nota politica o anche di un editoriale. Se non conoscevi il gergo politico, e leggevi un articolo - poniamo - di Giovanni Spadolini, non capivi niente. Se qualcuno ti chiedeva: cosa hai letto? Rispondevi: «Boh».
Ieri ho letto tutti gli articoli che riguardavano l’inchiesta giudiziaria sulla “P4”. Tutti. Soprattutto, naturalmente, quelli del Fatto Quotidiano, che su questi argomenti giudiziari è sempre il giornale più informato. Vi giuro che non ho capito letteralmente un’acca. Niente, zero. Se uno adesso mi chiedesse: «Ma cos’è la P4?» Risponderei: «Boh». E se mi chiedesse di dire qual è il reato del quale sono accusati gli imputati della P4, ripeterei: «Boh». E se allora mi pregasse semplicemente di elencargli i nomi degli imputati, farei scena muta per la terza volta. Ho capito solo una cosa: il nome del giudice che indaga. Si chiama John Henry Woodcock.
Chi è? È un giudice molto famoso. Non perché nella sua carriera sia riuscito a fare condannare molte persone, ma per il motivo esattamente opposto: non è quasi mai riuscito a fare condannare nessuno. Se uno riceve un avviso di garanzia da Woodcock, in genere, la prende bene: sa che sarà molto probabilmente assolto.
Qui però il problema non è Woodcock. Di magistrati che amano più lo spettacolo che le indagini ce ne sono parecchi in giro, non c’è da scandalizzarsi. Il problema è il cortocircuito informativo che si è creato, per la ragione che gran parte della stampa italiana ha ormai accettato un rapporto di subordinazione così profondo, totale, nei confronti di alcuni settori della magistratura, da non riuscire più neppure a chiedersi (di fronte a una velina): cosa c’è scritto? E quindi comunica ai lettori, con titoli a tutta pagina, informazioni completamente vuote. Facendo opera attiva di distruzione del giornalismo e della libertà di informazione.
Se i giornali decidono di usare la formula “P4”, automaticamente comunicano ai lettori che si sta parlando di una cosa enorme. Perché ci si riferisce alla possibilità che si stia ripetendo il “meccanismo” che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottana fu innescato dalla P2 di Licio Gelli, una loggia massonica segreta.
Probabilmente i giornalisti che scrivono di P4 sono giovani e non sanno bene cosa fu la P2. Fu l’aggregarsi di un formidabile gruppo di potere - costruito sulla potenza di diversi uomini politici, di imprenditori, di militari, di giornalisti - che seguiva un programma politico definito (si chiamava il “piano di rinascita”) e che in questo modo voleva opporsi alla linea politica dei governi in carica, che erano tutti a dominio democristiano e si basavano su una forte collaborazione programmatica con il Partito comunista italiano.
Il sistema politico italiano, allora, era bloccato, ed era praticamente impossibile immaginare un paese senza la Democrazia cristiana al governo. Il gruppo della P2 (che era un gruppo laico, ma a destra della Dc) aveva scovato questo sistema della loggia segreta per incidere sul potere e cercare di opporsi - appunto da destra - alla Democrazia cristiana senza scalzarla dal governo.
 Chi faceva parte della P2? Un paio di ministri, un paio di segretari di partito, il presidente della Rai, Silvio Berlusconi, una decina degli imprenditori più potenti d’Italia, alcuni grandi magistrati, diversi generali dell’Esercito, della Marina e dei Carabinieri, alcuni capi di servizi segreti, vari editori, qualche direttore di giornale (tipo il Corriere della era ma non solo...), diversi altissimi dirigenti del Partito socialista italiano e altra gente così. 

(Sansonetti dimentica, come tutti del resto, di nominare fra gl'iscritti alla P2 Maurizio Costanzo, uno dei pochi iscritti rei confessi che affermò di essersi iscritto alla P2 per ricavarne vantaggi professionali!, NdB)
Chi fa parte, invece, della P4? Luigi Bisignani. Chi è Bisignani? L’imputato. Per che cosa? Per avere dato dei consigli a Mauro Masi contro Michele Santoro. È un reato? Non è detto - scrive Il Fatto - però è una cosa molto grave inquitenate. E dove sta la segretezza di questo complotto? Nel fatto che nessuno sapeva che Masi fosse stato consigliato da Bisignani. Come mai nessuno lo sapeva? Perché nessuno sapeva che esistesse Bisignani. Woodcock, dopo accurate indagini, ha scoperto l’esistenza di Bisignani e, automaticamente, ha svelato il complotto. Ma questa P4, come la P2 complottava contro il governo e il Parlamento? No. E contro chi complottava? Contro Michele Santoro.
Come si può commentare una vicenda così ridicola? Mi viene in mente solo una espressione efficace: ma vaffanbicchiere!


di Piero Sansonetti

[Fonte

venerdì 4 marzo 2011

Le voci fuori dal coro faranno tutte questa fine?

Riporto, esterrefatto, quanto ho trovato in rete facendo una ricerca sulla libertà di scrivere, o di stampa, sulla rete.
Non aggiungo altro.

Davigo non è un golpista ma lui fa chiudere il sito




  Un apprezzamento diventa un insulto che costa caro: 100mila euro. Legnostorto.com sta per chiudere i battenti dopo che l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo ha chiesto un maxi risarcimento agli autori del sito perché si è sentito diffamato da un articolo pubblicato dal portale che si occupa di giustizia.

L’autore del pezzo, Vittorio Zingales, il 21 giugno 2009, pubblica su legnostorto un articolo dal titolo «Quel golpe che fece mezza fetecchia» e «Cova sotto la cenere», in cui ipotizza che in realtà il crollo della Prima repubblica innescato da Tangentopoli sia stato orchestrato da «poteri forti industriali e bancari italiani ed anglo-americani». Sono loro, insiste Zingales, i «veri organizzatori della rivoluzione». L’obiettivo da colpire era «Bettino Craxi, costretto all’esilio in Tunisia, dove poi morirà tra la totale indifferenza dei nostri politici, eccezion fatta solo per pochissimi». E i pm del pool di Milano? Che ruolo avrebbero avuto? Quello dei pupi? 

  «È chiaro che un Borrelli, un Di Pietro, un Davigo, un D’Ambrosio (...) non possono avere nessuno spessore culturale per organizzare il golpe, e nemmeno il regista Violante che ha il compito di girare le piazze italiane e le procure per indicare di volta in volta il nemico da abbattere». È in questo passaggio la frase incriminata. Per Davigo «non avere spessore culturale golpista» è un’offesa.

Scatta la denuncia per diffamazione, ovviamente al tribunale di Milano. L’escamotage giuridico in voga tra chi si sente «diffamato» da un articolo di giornale o da un servizio televisivo è quello di rivolgersi direttamente al giudice civile perché sia lui stesso ad accertare l’eventuale reato – penale – di diffamazione e perché stabilisca l’ammontare dell’indennizzo. Una specie di scorciatoia, lamentano i curatori del sito, che «consente anche di tappare velocemente la bocca ai giornali piccoli e basati sul volontariato, come legnostorto.com», per i quali le cifre ipotizzate (100mila euro, ndr) sono ovviamente fuori portata». Peraltro l’autore, dell’articolo, considerato «non solvibile», non rischia di pagare neppure un centesimo. L’obiettivo è il sito.

All’udienza del 27 gennaio scorso il giudice, anticipando il giudizio, aveva proposto di transare un indennizzo di 40mila euro. «Ma - si legge su legnostorto.com - anche questa proposta è per noi altrettanto impraticabile, ammesso e non concesso che il reato sia stato commesso. E poi noi non prendiamo soldi da nessuno, nessuno ci sponsorizza. Tutti lavoriamo gratis...».

Senza soldi il sito chiuderà, ma questo (par di capire) non significa che Davigo resterà a mani vuote. I curatori del sito saranno costretti a pagare comunque. Ecco perché i due giornalisti Antonio Passaniti e Marco Cavallotti hanno lanciato un appello ai lettori chiedendo loro un sostegno economico: «Legnostorto.com va sostenuto per evitare che una voce libera del web venga cassata brutalmente dallo strapotere irresponsabile di parte della magistratura italiana, anche se sappiamo che la cifra che dovremo versare è impossibile da raccogliere». Finora sono stati raccolte poche centinaia di euro. E intanto il processo va avanti, come in un film il cui finale è praticamente già scritto.


Scritto da Felice Manti, mercoledì 02 febbraio 2011



 

mercoledì 2 marzo 2011

17 marzo: festa dell'unità d'Italia in occasione del 150° anniversario!


Fare sterili polemiche sull'unità d'Italia dopo un secolo e mezzo la ritengo una delle più grosse stupidaggini che un politicante italiota possa fare. 
Ma tant'è!
Al peggio non c'è mai fine (potete anche leggere Fini, nulla cambierebbe).
Semmai, con vis polemica di contappasso provocatorio, vorrei proporre la richiesta della restituzione dei territori italiani che il defunto compagno Tito, con l'assenso del Migliore di allora, il comunista Togliatti, annesse di forza all'ex Jugoslavia. (Chiedere allo stilista Ottavio Missoni cosa patì per essere stato privato delle sue origini)

Lasciando da parte queste fantasticherie, la realtà è una sola: siamo geograficamente un solo territorio fisico, isole annesse, e da 150 anni lo siamo anche politicamente, purtroppo!
Però... è opportuno non perdere la memoria.
Vi segnalo tre interessantissimi libri reperibili in libreria nel corso di questo mese di marzo.

Il primo: "Polentoni. Come e perchè il Nord è stato tradito (danneggiando anche il Sud)" di Lorenzo del Boca (Piemme, 304 pgg.17.50€);
il secondo:  "Terroni, tutto quello che è stato fatto perchè gli italiani del Sud diventassero meridionali" di Pino Aprile (Piemme, 308pgg, 17.50 €);
il terzo: "Sangue del Sud", di Giordano Bruno Guerri (Mondadori, 297 pgg. 20,00 €). 

Tutti e tre descrivono molto bene le illusioni, le delusioni e le cose spaventose che furono fatte a noi meridionali e che tuttora vengono omesse nei libri di storia..
Quindi per non dimenticare è molto meglio ricordare a chi è servita veramente l'Italia unita. 
Per questo esercizio menmonico vi propongo la lettura di due scritti, il primo di Lorenzo del Boca ed il secondo tratto dalla seconda di coertina di Terroni.

Ma a chi ha giovato l'Unità d'Italia?
Il Sud è stato massacrato dai piemontesi che hanno rubato tutto quello che era possibile e il Nord si è trovato declassato.
Sotto il governoi austriaco i veneti pagavano 11 lire di tasse per servizi di prim'ordine. Una volta "liberati", le imposte sono salite a 31 senza benefici. Chi la voleva l'Italia unita?
I milanesi si ribellarono all'amministrazione austroungarica, ma nessuno pensava di diventare suddito di Torino. Nel 1859, il Piemonte si allaorgò alla Lombardia e fu nominato ministro Gabrio Casati, uno degli animatori delle Cinque giornate. Che poco dopo si dimise.
Avevano immaginato uno stato che dava auton imia a tutte le realtà, invece si scelse la piemontesizzazione: i nuovi cittadini furono inondati da migliaia di articoli di legge che abrogavano i loro usi.
I siciliani accolsero con entusiasmo Garibaldi e i Mille, ma l'indipendenza da Napoli non significava accettare di diventare cittadini di Torino.
Benedetto Ricasoli, da Firenze,  voleva autonomia per la Toscana.
Marco Minghetti, da Bologna, l'autogoverno per la Romagna.
Tutti delusi.
Per ottan'anni il PCI sostenne che il nazionalismo era "fascista", un non valore. 
Oggi fanno ridere i fervori degli eredi comunisti che distribuiscono braccialetti tricolore e il segretario del PD Pier Luigi Bersani, da Bologna, che si avvolge al collo la bandiera.
Che si celebri questo 150° anniversario. Ma tutti, capi di stato, cariche istituzionali, curatori di mostre e di musei, non pretendano una dose di entusiasmo suplementare.

Terroni  è un libro sul Sud per il Sud la cui conclusione e che, se centocinquant'anni non sono stati sufficienti a risolvere il problema, vuol dire che non si è voluto risolverlo.
Come dice l'autore, le due Germanie, pur divise da una diversa visione del futuro, dalla Guerra Fredda e da un muro, in vent'anni sono tornate ad essere una.
Perchè da noi non è successo?

Fra i pochi video di satira comica degno di questo nome!


Vediamo se adesso Marco Travaglio la smetterà di parlare della prescrizione dei reati altrui!

  Travaglio giù dal pulpito: salvo per prescrizione.
Il cattivo esempio di Marco: critica il Cav ma approfitta della giustizia lumaca sul caso Previti.



Marco Travaglio è un diffamatore salvato dalla prescrizione, quella stessa prescrizione contro la quale si è scagliato un sacco di volte: ma alla quale, ora, si guarda bene dal rinunciare nonostante la legge glielo consenta. Ecco, l’abbiamo scritto come avrebbe fatto lui, con la stessa grazia: anzi neanche, lui forse avrebbe aggiunto cose tipo «Travaglio l’ha fatta franca» o «fatti processare» o qualcosa del genere. Noi ci limitiamo ad aggiungere che a leggere le motivazioni della sentenza d’appello, per quanto giunte fuori tempo massimo, dubbi non ne restano: la condanna è stata confermata a tutti gli effetti e spiega come Travaglio abbia manipolato un fatto e abbia scritto il falso, per giunta con dolo. E un galantuomo - sempre per rifarci al linguaggio travagliesco - non rischierebbe di essere confuso con un Berlusconi o un D’Alema o un Andreotti, se si reputa innocente: rinuncerebbe alla prescrizione. Perché lui non lo fa?

Ma riassumiamo i fatti, perché sono gustosi. La condanna in primo grado è dell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Cesare Previti. Parentesi: la diffamazione è il reato a mezzo stampa per eccellenza, spesso è fisiologico a chi scrive di cose giudiziarie: nel caso di Travaglio, tuttavia, la condanna lo trasformò in un classico bersaglio del suo stesso metodo, e anche per questo, due anni fa, i media diedero un certo spazio alla notizia. L’articolo di Travaglio comunque era del 2002, e su l’Espresso era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo, poi, era un classico copia & incolla dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri».

Una diffamazione bella e buona, non si sa quanto intenzionale o quanto legata a certa sciatteria che i giornalisti spesso associano alla necessità di sintesi. Sta di fatto che il giudice Roberta Di Gioia del Tribunale di Roma, il 15 ottobre 2008, condannava Travaglio ai citati otto mesi. E scriveva: «La circostanza relativa alla presenza dell’onorevole Previti in un contesto di affari illeciti è stata inserita nell’articolo mediante un accostamento indubbiamente insinuante... è evidente che l’omissione del contenuto integrale della frase di Riccio, riportata solo parzialmente nell’articolo, ne ha stravolto il significato. Travaglio ha fornito una distorta rappresentazione del fatto... al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Ma il peggio doveva ancora venire: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare.
«Ricorrerò in Appello» aveva annunciato il giornalista dopo la condanna: e pazienza se infinite volte si era detto favorevole all’abolizione dell’Appello. «Vedremo le motivazioni della sentenza» aveva poi commentato. Poi, quando furono rese note, non disse una parola.

La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010. In quel periodo Travaglio stava litigando furiosamente (via web) con Enrico Tagliaferro, un blogger particolarmente scolarizzato che gli aveva fatto le pulci in più circostanze. La sentenza in sostanza confermava la condanna: semplicemente gli era stata concessa, per attenuanti generiche, una riduzione della pena. Ma Travaglio faceva il furbo e così scriveva a Tagliaferro: «La sentenza di primo grado in cui venivo condannato a otto mesi più un paio di multe e ammende è stata appena devastata dalla Corte d’appello, che elimina la pena detentiva e lascia una multina di 1000 euro». Devastata, aveva scritto. «Ora aspetto la motivazione», aggiungeva, «e mi auguro che venga scritta da un giudice che abbia la più pallida idea di che cos’è un articolo di giornale».

Il problema è che la motivazione, per essere depositata, non ha impiegato i consueti sessanta giorni: ha impiegato un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione, orrore. Forse che erano motivazioni particolarmente complesse? Diremmo di no, visto che occupano due sole pagine. Ma che cosa dicono? Non è un dettaglio da poco, visto che lo stesso Travaglio, nella sua disputa telematica con Tagliaferro, era stato tassativo: «Quando parlo di Corti d’appello come “scontifici” mi riferisco a quando mantengono inalterato l’impianto accusatorio e limano qualche giorno sui mesi o qualche mese sugli anni inflitti in primo grado. Quando invece stravolgono le condanne di primo grado, fanno altro: le riformano, le rivedono, le smentiscono. Vedremo se è così anche nel caso mio».

IL RICORSO
No, ora lo sappiamo: non è il caso suo. La sentenza d’Appello non stravolge, non riforma, non rivede, non smentisce, anzi: «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito», si legge, «in quanto ottimamente motivata, con piena aderenza alle risultanze processuali... con giuste e corrette considerazioni in diritto; il tutto da intendersi qui riportato, senza inutili ripetizioni, come parte integrante della presente motivazione. È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria nei confronti dell’on. Previti... Bastava omettere la frase “in quell’occasione presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti” per evitare qualunque diffamazione, senza togliere alcunché alla notizia... Proprio l’averlo inutilmente nominato, e l’aver totalmente omesso la specifica precisazione circa l’assenza fatta dal teste, è prova del dolo da parte del Travaglio».
Tentiamo una sintesi, possibilmente migliore di quelle diffamatorie azzardate da Travaglio? Allora: Travaglio se la prende coi giornalisti diffamatori, ma è un diffamatore anche lui. Travaglio dice che una prescrizione non equivale a un’assoluzione bensì a una condanna: perciò lui è stato condannato. Travaglio dice che un innocente che si reputasse tale dovrebbe rinunciare alla prescrizione: ma lui alla prescrizione non rinuncia. Travaglio è favorevole all’abolizione dell’Appello: ma poi ricorre in Appello. Travaglio ha scritto che le corti d’Appello sono solo degli «scontifici» che mantengono inalterato l’impianto accusatorio e che limano soltanto la pena: è proprio quello che è successo a lui. Un italiano vero.

di Filippo Facci

[Fonte]


Per completare questo post aggiungo la sintesi finale di un blog amico che condivido totalmente: 
(...) E allora, Marco, perché, se sei innocente, se veramente quelle frasi verso Previti erano legittime, perché non rinunci, perché non ti fai processare, perché non dimostri la tua innocenza, perché vuoi apparire in tutto simile ai vari Andreotti e Berlusconi, che tu tanto disprezzi e disapprovi?

Qualcuno mi dirà che Travaglio non è un politico, che a lui non è richiesto un grado di rettitudine maggiore rispetto al resto della popolazione, della cosidetta “società civile”, non è richiesta una reputazione libera da ogni minimo sospetto. Che un giornalista non deve essere un integerrimo essere umano al di sopra di ogni sospetto. E invece no, cari, non ve la caverete con così poco: le – poche – regole le avete fatte voi e noi adesso le rispettiamo, e le applichiamo senza distinzione di ceto e di “casta”, come voi. Indipendentemente dal fatto che si tratti di presidenti del consiglio, di ministri, parlamentari, imprenditori, banchieri, giornalisti o dirigenti sportivi. da Moggi a Porro, da Bertolaso e Berlusconi. Rimarremo attaccati alla preda a prescindere dal proprio ruolo nella società. Per l’amore dell’onestà. Della verità.

Anzi, dirò di più: se Travaglio, nel complesso gioco del bilanciamento dei poteri, con il suo ruolo di autoproclamato campione del giornalismo “indipendente” e di denuncia degli abusi e delle ipocrisie del Potere, rivendica una posizione centrale in questo scacchiere, per una società più libera e giusta, allora si discolpi e si redima.

Se vuole essere la voce contro il padrone, che urla al “re nudo”, allora rinunci alla prescrizione, non ci prenda per i fondelli, rinunci e ci dimostri la sua innocenza. Travaglio, se vuole essere degno di ciò che rivendica per sé non usi questi mezzucci, come un Berlusconi qualunque.

Se lei vuole cavarsela così, con queste cavillosità che nella sostanza non scagionano un bel niente, allora vuol dire che lei è fatto della stessa pasta del Potere che denuncia. Un colpevole diffamatore salvato dalla prescrizione. Colpevole ma prescritto. Esattamente come Andreotti.

Le sue denunce d’ora in poi non varranno più niente.


di Giorgio Tenaglia

[Fonte]

martedì 1 marzo 2011

Ecco la barzelletta del secolo... e se non lo fosse è l'ulteriore prova che una parte degli italioti è masochista all'ennesima potenza.

«Ormai non posso nemmeno scendere in strada. La gente mi riconosce e mi chiede: Torna, torna. Lunedì mattina ero a Mantova e sono andato alla messa del mattino, per evitare di essere avvicinato. Ma in quel caso un gruppo di fedeli anziani mi ha circondato e mi ha chiesto di tornare a guidare questo Paese». È quanto racconta Romano Prodi in una intervista a Famiglia Cristiana. (Guidarlo in modo democraticamente sinistrorso, come regalando le fabbriche per due lirette, mettendo nuove tasse, dando più potere al pubblici  ministero e facendo leggi ad hoc per gli amici. E così di seguito senza dimenticare la scelta dell'euro!
Rispondendo poi alla domanda se è necessario che un politico tenga una condotta morale dignitosa, Prodi ha risposto: «L’uomo politico deve essere giudicato dai fatti. Ma tra i fatti c’è prima di tutto l’esempio. L’esempio di un politico incide sui comportamenti quotidiani di tutti. Profondamente. Ancora più oggi, anche in virtù dei mezzi di comunicazione, il comportamento personale è sempre più un comportamento pubblico». Prodi, pur senza nominarlo, ironizza con monsignor Rino Fisichella, che dopo la bestemmia da parte di Berlusconi aveva detto che andava «contestualizzata». «Fin da ragazzo, mi è stato insegnato da autorevoli uomini della Chiesa che non si può agire con la morale a seconda delle situazioni. Quando sento dire che certi atti dipendono dal contesto mi chiedo: cos’è cambiato dall’insegnamento che ho avuto a oggi? Conservo ancora gli appunti di quegli insegnamenti».

 È venuto «da tempo» il momento per vedere una donna salire a Palazzo Chigi. «Anzi - ha detto l’ex presidente del Consiglio - direi che è proprio strano che questo momento non sia ancora venuto. Abbiamo una presidente di Confindustria donna, il segretario della Cgil donna, abbiamo avuto più di un presidente della Camera donna. Prima o poi arriverà. Pensi a quanto era lontana la Germania dall’avere un cancelliere donna!».

Romano Prodi rivendica a sè il ruolo di aver «sdoganato» Gheddafi in Europa, ai tempi in cui presiedeva la Commissione Europea, ma ricorda di non aver voluto siglare da premier il Trattato di amicizia con la Libia perché troppo «oneroso» per l’Italia; e comunque non avrebbe accettato «le umiliazioni» che poi il Colonnello ci ha riservato. Prodi invita l’Italia e l’Europa a sostenere le classi democratiche che si stanno imponendo nel Nord Africa, anche per evitare il rischio di «esodi biblici»; al momento non ci sono avvisaglie, ma, esorta Prodi «è meglio prepararsi».

[Fonte

Ancora una volta i politicanti italici sperano nella mancanza di memoria del popolo bue...

Riporto quanto scritto dal giornalista Perna che conferma quanto affermo da sempre: la memoria deve essere al primo posto, altrimenti rischiamo di farci prendere per i fondelli.

D'Alema castigamatti che scorda i suoi peccati
 
  Attacca il Cav per ruby e Gheddafi, però il ruolo di fustigatore gli si ritorce contro: dalla missione Arcobaleno alla sanità pugliese, il suo nome spunta in molti scandali e da ministro degli Esteri passeggiava per Beirut con gli hezbollah.

Fare il sopracciò è tipico di Massimo D’Alema.Talvol­ta è molto rude. A Ballarò , col direttore Sallusti che osò te­nergli testa, esplose nella ce­lebre invettiva: «Vada a farsi fottere, bugiardo mascalzo­ne ». I modi da lanzichenecco nell’ex capo della diploma­zia stupirono e si cercarono spiegazioni. Ne bastava una: è maleducato di natura. Pre­valse però l’idea della frustra­zione poiché all’epoca (mag­gio 2010) l’ex premier ed ex ministro degli Esteri era un ex in tutto e politicamente nulla. Oggi Max ha lo strapuntino di presidente del Copasir, si­gla da consorzio agrario che indica però il Comitato parla­mentare per la sicurezza del­la Repubblica. Portato per in­dole a montarsi la testa, il nuovo impiego ha rinfocola­to in Max il connaturato com­plesso di superiorità. Si è au­toproclamato Lord Protetto­re del Paese contro il Berlu­sca e fa la mosca zèzè sulla pelle del tiranno. Dopo il caso Ruby ha prete­so che il Cav comparisse al Copasir per giustificare i festi­ni. Che c’entra la sicurezza nazionale, direte voi? Non c’entra, è solo ipocrisia. Max ha dato a intendere che si pre­occupava per l’incolumità del Berlusca - lui che lo anni­chilirebbe all’istante se gli ga­rantissero l’impunità­ messa a rischio dalla sua dissennata condotta. In realtà voleva so­lo emulare i magistrati dan­do in pasto al pubblico la vita privata del Mostro. Il Cav, che non è scemo, manco gli ha risposto. Allora, D’Alema si è impancato sui fatti di Li­bia e ha accusato il Berlusca di avere fatto lo stuoino di Gheddafi. Al tempo, Max. Questo potremmo dirlo io o i lettori. Ma tu- scusi, presiden­te, la confidenza - che da mi­nistro degli Esteri te ne anda­vi a braccetto per Beirut col capo di Hezbollah, devi stare zitto e mosca. Tanto più che il Cav,lisciando illibico,favori­va l’interesse nazionale men­tre tu col libanese facevi solo il fighetto con gli antisionisti. E poi credi davvero di essere in condizioni di salire in catte­dra? Da anni ti infili in situa­zioni imbarazzanti e poi fingi di cadere dal pero e non sape­re nulla. Ora ti rinfresco la me­moria. In queste ore, sei coinvolto nello scandalo sanità in Pu­glia. Il tuo stretto amico, ex as­sessore regionale alla Sanità, ora senatore pd, Alberto Te­desco, rischia il carcere e tu le stai provando tutte per sot­trarlo, via immunità parla­mentare. È in gioco la tua lea­dership pugliese. Inoltre,l’im­prenditore sanitario, Gianpa­olo Tarantini, che sembrava solo un commensale bunga bunga del Cav, appare sem­pre più uno dei tuoi. Tu smen­tisci, ma lui è un fiume in pie­na. Dice che andavate insie­me per mare, che avete amici­zie comuni e che ha fatto per te cenone elettorale in cui ti sei strafogato. Insomma, pa­re che tu, sulla malfamata sa­nità pugliese, la sappia lun­ga. Garze e bisturi sono una tua antica passione. Ricordi quando nel 1985 prendesti soldi di straforo da Francesco Cavallari, il Tarantini del­l’epoca? Durante una cenet­ta intima ti infilò in tasca ven­ti milioni. Si seppe solo dieci anni dopo per ammissione di Cavallari davanti al pm Alber­to Maritati. Lo confermasti poi anche tu e Maritati - che ormai non ti poteva persegui­re per sopravvenuta amnistia - elogiò le tue «leali dichiara­zioni ». Carino da parte sua che, carineria per carineria, un paio di anni dopo divenne senatore del Pds. Ne hai un’altra sul groppo­ne che sembra analoga: la pa­r­adossale Missione Arcobale­no del 1999. Eri a Palazzo Chi­gi­e dichiarasti guerra alla Ser­bia, la sola alla quale l’Italia abbia partecipato dopo il 1945: anche questo hai sulla coscienza. I bombardamenti in Kosovo, provocarono un mare di profughi. Poi, da tipi­co coccodrillo, hai cercato di risarcirli con un caravanser­raglio di aiuti - l’operazione Arcobaleno, appunto- che in breve si rivelò una fonte di ru­berie, stando almeno al pm barese, Michele Emiliano. Ti indignasti da par tuo: «Scan­dalo inventato. Manovre da bassa cucina». Ma il pm arre­stava a frotte i tuoi amici e so­dali, i compagni della Cgil, ecc. Poi, di colpo, Emiliano la­sciò l’inchiesta per candidar­si sindaco di Bari. Nel 2004, fu eletto alla testa di una coali­zione di sinistra che faceva ca­po a te. Devi davvero avere un grande appeal sui magi­­strati, Max caro. E non solo sui due pm citati. Infatti, so­no trascorsi 12 anni e non c’è stata una sola udienza del processo. Ancora uno sforzet­to e si prescriverà. Pensa la rabbia del Cav che - ignoran­do la tua ricetta - in due mesi e mezzo è stato impacchetta­to e rinviato a giudizio su Ru­by. Poi c’è la fantastica storia della scalata Telecom da par­te dei «padani», Colaninno ­il cui rampollo è con te in Par­lamento - e soci. Eri premier e ti innamorasti subito di que­sti «capitani coraggiosi». Per favorire il loro arrembaggio impedisti all’allora (e oggi di nuovo) ad, Bernabè, di tenta­re contromosse. Ricordi? Fa­cesti mancare il numero lega­le alla riunione da lui voluta ingiungendo a Tesoro e Bankitalia di non partecipa­re. Mario Draghi, che allora era al ministero, rimase incre­dulo e pretese da te un ordine scritto. Lo ebbe. Il noto Gui­do Rossi (uno della tua par­rocchia), per stigmatizzare l’ingerenza,coniò un’immor­tale definizione del tuo pre­mierato: «Palazzo Chigi è l’unica merchant bank dove non si parla inglese». Ovvia­mente, si malignò di torna­conti ma, restarono voci, e la cosa finì lì. Telecom non fu mai più quella di prima ed è tuttora sommersa da una montagna di debiti. Suvvia, confessa, Max: hai naso per gli affari, tu. Lustri fa, avevi la casa di un ente e pagavi un’inezia. «Sono a equo canone perché do metà dell’indennità parlamentare al partito», dicevi. Ti restava­no comunque sei milioni e uno lo spendevi per l’affitto: un sesto delle entrate, un'ine­zia rispetto alla media nazio­nale. E tu, faccia di bronzo, osavi anche lamentarti? Hai pianto miseria pure quando ti sei comprato la seconda barca, l’Icaro II, 18 metri. Pri­ma hai detto che era in com­proprietà. Poi che avevi fatto il mutuo. Poi che avevi eredi­tato. Infine che avevi avuto lo sconto. Il gioco delle tre car­te. Vuoi sapere tutto dei tuoi avversari ma, quando le cose riguardano te, cambi metro. Come quando hai urlato al te­lefono con Consorte, «facci sognare, vai» e poi ti sei fatto dare l’immunità dal Parla­mento Ue per evitare l’uso le­gale della registrazione. Rim­proveri al Cav di «difendersi dai processi anziché nel pro­cesso »e poi seiil primo a rifu­giarti nell’impunità? Ti fai ca­scare il baffo se si parla di re­golare le intercettazioni e poi ricorri al trucco per azzerare la tua? Max, fallo per pudore: taci. 

di Giancarlo Perna, 01/03/2011