mercoledì 15 giugno 2011

Dopo Fini servivano le urne

Questi due articoli dovrebbe leggerli il Cav. Berlusconi. E comportarsi di conseguenza. [NdB]




Con il tradimento del cofondatore bisognava rimettersi in gioco. Ora si rischia un’implosione. Va recuperato lo spirito del ’94.

È inutile fare finta di nulla. L’esito dei quattro quesiti referendari ha un significato politico sul quale è necessario riflettere. Che gli italiani - dopo anni e anni di totale disinteresse per le consultazioni referendarie - abbiano deciso di recarsi in massa alle urne per esprimersi su un referendum caricato di valenza politica e presentato al corpo elettorale come una occasione per colpire il governo e la leadership berlusconiana è un fatto che dimostra come il presidente del Consiglio non abbia più quegli elevati livelli di consenso dei quali era giustamente orgoglioso. E che tale analisi sia esatta lo conferma il fatto stesso che i risultati del quesito relativo al cosiddetto «legittimo impedimento», quello cioè di più diretto interesse per il premier, non siano stati molto diversi da quelli degli altri quesiti. Si potrà ben osservare come una quota parte di coloro che si sono recati al voto fossero realmente interessati al merito dei singoli quesiti e non già alle implicazioni politiche del referendum, ma non si può negare che si tratti di una minoranza e che il significato complessivo del voto sia quello di una esplicita presa di distanza dalla coalizione di centro-destra e da un premier la cui immagine pubblica appare fortemente appannata. La verità è questa. E bisogna prenderne atto. Il risultato della consultazione referendaria è netto. E si muove nella direzione già segnata dalle ultime elezioni amministrative. Denuncia l'insoddisfazione del Paese per la mancata attuazione di una politica autenticamente liberale sulle quale si erano concentrate tante attese e tante speranze. E della quale Silvio Berlusconi era in qualche misura percepito, a torto o a ragione, come l'ispiratore. Che il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, sia pure parziale, della «rivoluzione liberale» - usiamo pure questa brutta e contraddittoria espressione - non sia imputabile, tutto e solo, a Berlusconi è un dato di fatto che le persone oneste debbono riconoscere. Tanto più che, nella bilancia dell'attivo e del passivo, sono ben presenti e pesano i sintomi di rinnovamento del sistema politico nel suo complesso e i tentativi di ammodernamento e semplificazione della macchina burocratica. E basterebbe, in proposito, richiamare l'attenzione sull'alternanza politica, divenuta ormai una prassi, e sulla proposizione al corpo elettorale, in sede di campagna elettorale, di programmi di coalizione e di governo alternativi. Si tratta, rispetto alla deriva oligopolistica della prima repubblica, di vere e proprie conquiste, certamente in linea con i principi di una democrazia autenticamente concorrenziale e liberale.

La crisi di credibilità del centrodestra è, con ogni probabilità, iniziata quando, dopo il tradimento di Fini e del Fli e dopo l'inverecondo assalto giudiziario e mediatico cui è stato sottoposto, Berlusconi non ha avuto la lucidità necessaria per imporre, con un colpo d'ala, il ricorso anticipato alle urne e si è imbarcato in una campagna tesa ad acquistare consensi parlamentari e si è visto costretto a creare posti di sottogoverno per contentare gli appetiti dei sostenitori dell'ultima ora. È stata una strategia devastante che lo ha costretto a scendere a compromessi e a cedere a ricatti, più o meno manifesti. È stata una strategia che ha fornito l'impressione di un ritorno al passato, alle pratiche più nefaste della partitocrazia e della correntocrazia dei tempi che furono. Gli elettori del Popolo della libertà - coloro che avevano visto scendere in politica nel 1994 come l'incarnazione della volontà di rinnovamento e come il cavaliere dell'antipolitica trasformata in politica - non potevano che chiedersi dove fosse finito Berlusconi, il Berlusconi che conoscevano, che ammiravano, che erano disposti a seguire. Ora, davanti a loro, c'era un nuovo Berlusconi incapace di reagire di fronte alle pressioni di un Quirinale, sempre più esondante dalle sue prerogative istituzionali, e di fronte alle richieste, sempre più imperative e demagogiche di una Lega divenuta, pur essa, prigioniera dei vizi della vecchia politica a cominciare dal nepotismo. E questo nuovo Berlusconi non era più percepito come l'uomo capace di interpretare il sentire comune della popolazione e di esprimere, anche con toni provocatori ma sempre con franchezza, ciò che il cittadino qualunque pensava e, magari, non aveva il coraggio di dire apertamente. Il nuovo Berlusconi era diventato, insomma, un vecchio politico, prigioniero, forse suo malgrado, dei riti del passato e dell'oligarchia venutasi a consolidare attorno a lui. E la gestione, tutta sbagliata, della campagna elettorale per le amministrative non ha fatto che confermare questa impressione. Non credo che le vicende private di Berlusconi - così come sono state enfatizzate da una campagna mediatica e da una offensiva giudiziaria volte a screditarne, con criminale incoscienza, l'immagine pubblica soprattutto all'estero e a suggerire l'idea che l'Italia vivesse ormai una situazione da basso impero - abbiano avuto un peso determinante nell'offuscamento della sua immagine. Hanno contribuito, certo, a indebolirla, in particolare presso l'universo femminile, ma non in maniera decisiva. Credo, piuttosto, che le cause profonde del declino di Berlusconi siano, soprattutto, di natura politica: la incapacità di rendersi conto che settori del suo «popolo» - segnatamente i ceti medi tartassati - lo stavano abbandonando o stavano, quanto meno, scegliendo l'Aventino mentre le nuove leve di giovani sempre più prestavano orecchio alle sirene della sinistra radicale e antipolitica. Ma anche, diciamolo pure, la sua sordità a intervenire in maniera incisiva con un programma di ridefinizione, organizzazione, rilancio del Pdl e di tutto il centrodestra. Mi viene in mente quanto, nel febbraio del 1941, Galeazzo Ciano confidò al suo amico Giovanni Ansaldo a proposito di Mussolini: «L'uomo ha delle facoltà di autoillusione enormi. Non si rende affatto conto dello stato d'animo del popolo e dell'esercito; se questo stato gli è testimoniato da qualcuno, non vi crede». Sono parole di settanta anni fa che sembrano pronunciate oggi per Berlusconi. I risultati della consultazione referendaria - se questa analisi è esatta - segnano davvero la fine di un ciclo. Anche se, come sembra, sembrerebbe prevalere, in molti settori dell'area di centrodestra, la tentazione di sottovalutare le conseguenze politiche del voto e continuare a vivacchiare alla giornata. Sarebbe necessario un colpo di timone capace di recuperare davvero lo «spirito del '94» e far tornare a soffiare il vento della «rivoluzione liberale». Realisticamente, però, l'impresa è difficile, disperata anzi, per mancanza di idee, volontà, uomini. L'ipotesi più probabile, in mancanza di ciò, è una implosione del centrodestra. E con essa la fine di un sogno. Con lo spettro, sullo sfondo, di una crisi istituzionale perché il centrosinistra, quand'anche riuscisse vincitore in una prossima consultazione elettorale, non sarebbe capace di governare, diviso com'è su tutto tranne che sull'odio nei confronti di Berlusconi. Povera Italia.

di Francesco Perfetti  [Fonte



La diabolica analogia con Craxi

Dalle elezioni anticipate snobbate alle consultazioni sottovalutate. Silvio ripete gli errori commessi da Bettino nella sconfitta del ’91.

Il leader del Psi Bettino Craxi Per quanto sgradevoli possano comprensibilmente apparire a Silvio Berlusconi, le analogie fra i referendum appena celebrati e quello del 1991 sulla preferenza unica, nel quale inciampò Bettino Craxi, sono diventate troppe e troppo evidenti per essere negate. Peraltro, esse non si limitano ai referendum in sé, ma riguardano anche, o ancora di più, il contesto politico e i possibili effetti. Cominciamo proprio dal contesto. Vent'anni fa Craxi si lasciò scappare l'occasione delle elezioni anticipate, che gli avrebbero permesso di dare forse il colpo di grazia politico al Pci, reduce da un sofferto e imbarazzante cambio di nome e di simbolo impostogli dal crollo del comunismo. Fu un errore, com'è stato probabilmente quello commesso da Berlusconi nei mesi scorsi, quando avrebbe fatto forse meglio ad investire appunto nelle elezioni anticipate la debacle del suo ormai ex alleato Gianfranco Fini. Che si era unito ai vari Bersani, Di Pietro e Casini nel tentativo di rovesciarlo in Parlamento. Le elezioni anticipate avrebbero permesso a Craxi anche di disinnescare con un rinvio la trappola del referendum contro le preferenze plurime, così come a Berlusconi la trappola dei tre referendum di questa tarda primavera. Le stesse elezioni amministrative di maggio si sarebbero svolte in un quadro assai diverso. Eppure il carattere politicamente e mediaticamente pericoloso di questi referendum, sui quali Antonio Di Pietro non a caso aveva messo il cappello, era stato ben avvertito dal presidente del Consiglio. Che ne aveva fissata la data il più lontano possibile, nell'ultima domenica utile della finestra referendaria fissata dalla legge, per scoraggiare l'affluenza alle urne sulla soglia dell'estate. Anche nel 1991 si votò verso metà giugno: il 9 e 10. La trappola nel caso di Berlusconi era diventata ancora più grossa ed evidente dopo l'incidente di Fukushima, che aveva caricato di ulteriore paura la prova referendaria contro il nucleare interessando ancora di più gli elettori e spingendoli ai seggi. Dove avrebbero trovato anche le schede dei due referendum sull'acqua e di quello sul legittimo e temporaneo impedimento processuale del presidente del Consiglio e dei ministri. Pur consapevole di tutto questo, il Cavaliere ha imprudentemente pensato di saltare l'ostacolo con un atteggiamento di contraddittoria e discontinua indifferenza. Che fu adottato vent'anni fa anche da Craxi. Il quale non si rese conto che il referendum contro le preferenze plurime, e a favore della preferenza unica, era un treno su cui era stata caricata tant'altra merce ad altissimo rischio, come l'insofferenza per una classe politica considerata inamovibile e per un sistema immobile, con la conseguente volontà di cambiare cose e uomini. Come Craxi nel 1991, così Berlusconi vent'anni dopo ha snobbato i referendum definendoli «inutili», ha evitato di difendere le leggi contestate dai referendari, pur avendole fatte approvare lui in Parlamento, diversamente dalle preferenze plurime in vigore sin da quando Craxi portava ancora i calzoni corti, o quasi. E, snobbandoli, il Cavaliere ha anche strizzato l'occhio all'astensionismo, sollecitato da Craxi con l'ormai tristemente famoso ma fuggevole invito ad andare al mare, convinto che sarebbe bastato a far mancare il cosiddetto quorum di partecipazione. Ricordo come fosse ieri lo scontro che dopo quell'invito ebbi con lui, che pure apprezzavo ed avevo convintamente sostenuto dal suo arrivo alla segreteria del Psi, nel 1976. Gli dissi che era un errore non intraprendere e chiedere agli alleati una grande e aperta campagna, non tra una battuta e l'altra con i giornalisti, per difendere, magari anche con l'assenteismo, i diritti degli elettori insultati dai referendari con la storia del commercio dei voti di preferenza. Io i miei non li avevo mai venduti. E chi lo avesse fatto, avrebbe continuato a vendersi anche l'unica preferenza lasciatagli dal referendum, o il semplice voto di lista. Lui mi rispose che, troppo preso dall'impegno della direzione de Il Giorno, non mi rendevo conto che di quel problema importava poco al pubblico. Rimasi allibito ancora di più la sera del 10 giugno, quando la vittoria dei referendari risultò travolgente e lui mi telefonò non per ravvedersi, ma per escludere che la situazione politica potesse ulteriormente complicarsi: un po' come stanno facendo adesso dalle parti del Cavaliere. Rispetto alla vicenda referendaria del 1991, quella appena conclusasi in questa declinante primavera ha purtroppo un segno ancora più negativo. Craxi era allora solo il segretario di un partito pur determinante di una coalizione di governo guidata da Giulio Andreotti. Invece Berlusconi è il presidente del Consiglio. Al quale francamente pochi hanno dato una mano, nel suo stesso partito, per ridurre gli errori o coprire le falle. Per quanto incerta e scarsamente motivata, la scelta del Cavaliere di disertare le urne referendarie è stata incredibilmente e gravemente smentita da esponenti anche autorevoli del Pdl, che sono non andati ma corsi alle urne per esibire le loro schede elettorali ai fotografi. Penso, per esempio, al sindaco di Roma Gianni Alemanno e alla «governatrice» della regione Lazio Renata Polverini. O al ministro della Difesa Ignazio La Russa, che ancora l'altra sera giocava con i giornalisti a fare l'incerto. Almeno con Craxi non ricordo francamente socialisti di qualche peso che avessero vent'anni fa aggravato i suoi errori smentendolo con pose ufficiali. Lo scollamento del Pdl è stato pari a quello della Lega, visto, per esempio, che mentre Umberto Bossi ha proclamato il suo rifiuto di votare, come fece ai tempi di Craxi, anche se a subirne i danni allora fu solo il leader socialista, il «governatore» leghista del Veneto Luca Zaia, sino all'anno scorso ministro dell'Agricoltura, ha ostentato i suoi quattro sì per essere in sintonia - ha detto - con la sua «gente». Le armate Brancaleone fanno tutte e sempre guai, di qualsiasi colore siano le loro camicie: rosse, azzurre o verdi.
 
 di Francesco Damato

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