Pubblico la prima interessante parte di due, che ci fa conoscere meglio il barbapapà del giornalismo italico: Eugenio Scalfari.
Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.
Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza
del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una
descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era
mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era
una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.
Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.
Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza
del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una
descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era
mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era
una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.