sabato 16 maggio 2009

Due cose su Scalfari di Repubblica

Pubblico la prima interessante parte di due, che ci fa conoscere meglio il barbapapà del giornalismo italico: Eugenio Scalfari.

Ho sott’occhio un suo ordine di servizio del 21 dicembre 1978, consegnato a tutti i redattori: “Cari colleghi, devo dirvi con molta franchezza che la qualità media del lavoro, sia di scrittura che di controllo e messa in pagina, e anche di acquisizione di notizie, è deludente. In questo periodo ci sono stati esempi macroscopici di trascuratezza, di leggerezza professionale e addirittura di irresponsabilità. Questa situazione si protrae fin dall’inizio della vita di ’Repubblica’...”.

Spesso i rilievi erano diretti a singoli giornalisti, sempre per iscritto. Anche in quel caso la lezione era dura, ma si concludeva con un consiglio per poter “fare meglio”. Ne leggo una: “Roma, 23 febbraio 1980. Caro X, il tuo pezzo di ieri è nettamente inferiore alla tua capacità e all’importanza
del fatto di cronaca che ti era stato affidato... Fin dalle prime righe il servizio deve portare il lettore al centro dell’atmosfera di quanto è accaduto. Ha bisogno di una prosa adeguata. Di una
descrizione dei personaggi da far rivivere sulla pagina, con i loro sentimenti, le loro angosce, i loro dolori, la loro violenza... Fare il cronista non è un mestiere facile, richiede spessore umano, intuito, rapidità, cultura”. Ma è nel rapporto con i partiti che Scalfari si rivelò imbattibile. Nel confronto-scontro con le tante parrocchie politiche, a cominciare dalle più forti, Eugenio era
mosso da una convinzione ferrea: il direttore di “Repubblica” contava molto di più di qualsiasi leader di partito. Riassunta così può apparire una presunzione senza fondamento. Invece era
una rivoluzione copernicana per il giornalismo italiano.