giovedì 27 gennaio 2011

Ma chi ci crede più alla parola dell'ex camerata bolognese Gianfranco Fini? NESSUNO, o quasi tranne Bocchino e Briguglio!

Come un naufrago s’aggrappa alla sua zattera, così Fini s’aggrappa alla sua poltrona. Ben sapendo che è l’ultima cosa che gli resta per evitare l’immersione definitiva nel mare di guai che lo circonda. Sta andando a fondo e lo sa: sconfitto ieri sulla mozione Bondi, così come era stato sconfitto il mese scorso sulla sfiducia a Berlusconi, debole in Parlamento e inesistente fuori, inseguito fino dentro la cucina dalle ombre di Montecarlo, sbugiardato pubblicamente, affossato dai sondaggi e incapace di mantenere fede alla parola data, il leader che doveva essere il collante del nuovo centrodestra, riesce al massimo ad essere il collante del suo fondoschiena. S’appiccica alla cadrega, manco fosse il Vinavil, nella speranza di non perdere pure quella, dal momento che tutto il resto ormai l’ha perso. A cominciare dalla faccia.

E fa un certo effetto pensare che l’uomo che doveva fare a pezzi Berlusconi, ormai non ha null’altro che quello che gli ha dato Berlusconi: se in politica l’ingratitudine si potesse misurare, avrebbe la dimensione dello scranno più alto di Montecitorio. Le folle che applaudivano il presidente della Camera in Umbria sono svanite, il movimento sbanda, i sondaggi ormai rilevano percentuali da partito dei pensionati, gli alleati, a cominciare da Casini, si chiedono se non hanno sbagliato matrimonio, come quei mariti che scelgono le mogli per corrispondenza in Moldavia e poi si accorgono che non sono proprio un esempio di virtù. L’unica cosa vera che resta a Fini è quella che gli ha dato Berlusconi: la poltrona della sua vanità. Tra un po’ se la porterà anche a letto per paura che qualcuno gliela sfili via mentre dorme, lasciandolo col culo per terra, ancor più di quello che è già.
«Mio cognato mi ha detto che non c’entra niente con quelle società off shore», ha detto alla Stampa Fini. Ma certo. Poi magari gli ha anche raccontato che Santa Lucia è il nome del prossimo ospite del Festival di Sanremo, l’appartamento di Montecarlo è stato comprato da Mago Zurlì e che sopra al Principato ci sono i Tulliani che volano. Per carità, a tutto si può credere, persino che Bocchino possa guidare un partito. Ma nelle file dei finiani il nervosismo dilaga: si rendono tutti conto che la difesa non sta in piedi. E che si sono affidati a uno che perde regolarmente tutte le sue battaglie, portando i seguaci a schiantarsi, senza salvare niente e nessuno. A parte la sua poltrona, va da sé.

Ma che ci fa adesso con la poltrona, l’uomo che doveva dare un volto nuovo al centrodestra? Ha provato in tutti i modi a costruire qualcosa da quella posizione privilegiata, e l’ha fatto pure a costo di mettere a rischio l’istituzione che rappresenta, l’ha fatto usando i soldi della Camera per girare l’Italia a fare propaganda di partito, l’ha fatto svilendo l’imparzialità della sua funzione in una serie infinita di giochi faziosi. Ha usato e abusato di tutto, e che cosa ha ottenuto in cambio? Una sconfitta via l’altra. Povero Fini: voleva essere più grande di Aznar e Sarkozy messi insieme. Non riesce nemmeno ad essere il fratello scarso di Rutelli.

E colpisce adesso vedere come s’abbarbica alla seggiolina, ben sapendo che non gli resta altro. Il suo partito chiede le dimissioni di Berlusconi, Bondi, Calderoli, Minzolini, tra un po’ chiedono le dimissioni pure del ct della Nazionale e del direttore dell’Osservatore Romano. L’unico che pensa di non doversi dimettere è lui. E il suo fedele Briguglio, che per non essere da meno del capo, s’è incollato alla poltrona del Copasir. Che ci volete fare? Ormai il partito finiano non cerca più adesioni: cerca adesivi. Futuro, Libertà e Coccoina. Nei momenti difficili, si sa, ci si attacca a quello che si ha. E a Gianfranco non è rimasto più molto, a parte un cognato piuttosto imbarazzante.
D’altra parte, mettetevi nei suoi panni: se ora perde l’incarico di Montecitorio, quale futuro lo aspetta? Che incarico gli possono affidare? Assessore al traffico di Calamandrana Alta? Portaborse della Palombelli? Autore di testi televisivi per la suocera? «Se la casa di Montecarlo è di Tulliani, lascio» aveva dichiarato a settembre. Ecco, appunto: la casa è di Tulliani, ma lui si guarda bene dal lasciare. Tutt’altro. Si crogiola nel suo egotismo e continua a far finta di essere importante. Di faticare non ha mai avuto voglia, di presenziare ai lavori parlamentari nemmeno. In compenso gli piacciono le cerimonie in cui usa la poltroncina per specchiare la sua vanità: in poche ore infatti ha celebrato Tullia Zevi, Enrico Micheli e Mario Scaccia. Tre defunti, tre orazioni funebri: più che la Camera, una camera ardente. Perfettamente in sintonia, del resto, con il suo destino di uomo politicamente morto.

Per gli smemorati alla Totò:  qui c'è il video della dichiarazione di Fini che si sarebbe dimesso se la casa di Monte Carlo sarebbe risultata di proprietà del cognato.   

[Fonte


Ecco come i pm hanno salvato Gianfranco e famiglia
 


L'hanno indagato il giorno della richiesta di archiviazione. E non hanno sentito né lui né il cognato. Le carte arrivate alla farnesina da Saint Lucia hanno spiazzato la Procura. Che non le aveva richieste.

Non è che bisogna pensar male per forza. Ma se si mettono a confronto i fatti, la disparità di trattamento fra Berlusconi e Fini è palese. Prendete Montecarlo. Il presidente della Camera e soprattutto suo cognato, Giancarlo Tulliani, parti attive e reticenti dell’affaire, non sono mai stati, dicasi mai, sentiti dagli inquirenti. Né come indagati né come persone informate sui fatti. Comportamento a dir poco inusuale quello dei pm romani, che a verbale si sono preoccupati di ascoltare soggetti vicini all’ex presidente di An ma non colui che un ruolo nel pasticciaccio monegasco l’ha comunque ricoperto. A dirla tutta Fini è stato poi iscritto nel registro degli indagati, ma fuori tempo massimo. E a differenza di quel accade solitamente durante le inchieste «politiche», la notizia dell’iscrizione non è trapelata.

Come mai? E come mai è stato iscritto a modello 21 per il reato di truffa insieme al tesoriere Francesco Pontone (lui sì, invece, costretto a sfilare a piazzale Clodio) solo al momento di richiedere l’archiviazione? Visti gli scivoloni dell’ex delfino di Almirante, i maligni pensano che a Fini sia stato evitato l’imbarazzo dell’interrogatorio per due ordini di motivi: da indagato, avrebbe potuto avvalersi della facoltà di non rispondere o anche di mentire, ma in entrambi i casi ne sarebbe uscito a pezzi. Come testimone, invece, sarebbe stato obbligato a dire la verità, e in caso di menzogna sarebbe finito sotto processo per falsa testimonianza. E così il cognato. Salvati tutti e due, dunque, dall’incriminazione e dalla gogna mediatica.
Un modo di procedere curioso soprattutto verso Giancarlo Tulliani. Lui suggerisce a Fini di vendere l’immobile, lui è «in contatto» con la società off-shore che acquista la casa da An, lui da inquilino supervisiona i lavori di ristrutturazione, ed è in contatto anche con la seconda società off-shore proprietaria dell’immobile dove il giovane vive in affitto. Diciamo «soprattutto» alla luce di quanto riportato ieri dal Corriere della sera sulla convinzione dei magistrati romani che la proprietà dell’appartamento sia del celeberrimo cognato. C’è da chiedersi inoltre perché la procura di Roma fece trapelare la notizia che il famoso contratto d’affitto scovato dal Giornale con le due firme identiche nella parte del proprietario e dell’affittuario, riportava invece «due firme diverse». Finiani e giornali sinistri inveirono contro la macchina del fango, salvo poi essere sonoramente smentiti dagli stessi pm che nell’atto di chiusura indagini confermarono che le firme erano identiche. A dimostrazione che l’affittuario e il proprietario (e viceversa) erano la stessa persona. Sul punto la procura non s’è preoccupata di disporre una perizia calligrafica, che invece il Giornale commissionò a due esperti. Di più. I pm si sono mossi in modo anomalo: dapprima con due rogatorie su Montecarlo per sapere se il prezzo di vendita dell’immobile era stato «congruo» o meno. 

A detta delle toghe era fondamentale capire se la casa era stata svenduta. Ma quando la risposta delle autorità monegasche è arrivata sul tavolo del procuratore capo Ferrara s’è capito che per Fini si sarebbe messa male: l’appartamento acquistato dalle società off-shore di Saint Lucia, secondo stime dell’epoca ricostruite dall’associazione degli agenti immobiliari di Monaco, era stato venduto a un valore tre volte inferiore rispetto alle stime di mercato. Sembrava finita per il presidente della Camera. E invece, a sorpresa, dopo aver sprecato tempo e denaro per svolgere accertamenti approfonditi ipotizzando il reato di truffa (rogatorie a Montecarlo, perquisizioni nella sede del partito in via della Scrofa) improvvisamente le toghe capitoline si sono rese conto che quanto fatto fin lì non andava fatto essendo palese la «non competenza penale» a indagare trattandosi, invece, di materia da codice civile. 

«Qualsivoglia doglianza sulla vendita prezzo inferiore - scrivevano i pm - non compete al giudice penale ed è eventualmente sanzionabile nella competente sede civile...». 

E ancora. La procura, in un suo comunicato, s’è preoccupata di mettere nero su bianco lo stato «fatiscente» dell’appartamento basandosi esclusivamente sulle parole di persone vicine al presidente della Camera (il deputato Donato Lamorte e altri) e non su quanto riferito in senso inverso da altri testimoni oculari che in quell’appartamento ci sono stati di persona. Perché? E perché l’ufficio del procuratore Ferrara non ha sentito il bisogno di ascoltare le persone che pubblicamente hanno dato la loro disponibilità a confidarsi con la magistratura (il titolare della Tecabat che svolse i lavori di ristrutturazione, gli impiegati del mobilificio che vendettero la cucina Scavolini a Elisabetta e Gianfranco, l’imprenditore Garzelli in possesso di clamorose mail inviate dalla compagna di Fini, e così via)? Perché la procura non ha approfondito il giallo delle altre richieste d’acquisto dell’immobile, documentate dalla stessa autorità giudiziaria e confermate dal tesoriere Pontone, a cui il partito non ha dato seguito? Prendendo in prestito il pensiero corrente riassunto dal sito Dagospia, stavolta è andata a segno «l’infallibile ricetta di piazzale Clodio: domande non fare, risposte non avere». Questo spiegherebbe la sorpresa dei vertici di piazzale Clodio alla notizia dell’arrivo, via Farnesina, delle conclusioni delle indagini del ministero della giustizia di Saint Lucia che incastrerebbero definitivamente Giancarlo Tulliani: «Ma noi mica le abbiamo richieste...».

di Gian Marco Chiocci - Massimo Malpica

[Fonte]